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    La Comunicazione nella Chiesa,

    dal Concilio Vaticano II ad oggi

    Intervista ad Angelo Scelzo

    Stefano Pignataro

     


    La creazione della Sala Stampa fu un evento significativo in Vaticano. Si può dire che segnò la nascita della comunicazione della Chiesa. Che cosa è cambiato riguardo la fruizione del messaggio evangelico e pastorale?

    La creazione della Sala stampa è stata un frutto del Concilio Vaticano II: il più immediato e anche il più importante dal punto di vista operativo per la comunicazione della Santa Sede. C’era il paradosso del più grande evento della chiesa del Novecento e, all’interno di essa, la mancanza di un organismo in grado di poterlo diffondere e comunicare. Il Concilio fu un evento che interessò in misura larghissima la stampa dell’epoca. Era la prima volta che la vita della chiesa diventava, anzi, un argomento da opinione pubblica. Un fatto giornalistico, diremmo oggi. Ma com’era possibile, ai giornali dell’epoca “seguire” in maniera adeguata ciò che avveniva o si discuteva nell’Aula? La mancanza di informazioni lasciava spesso il campo libero a un’informazione parziale e distorta già in partenza. Era necessario che la Chiesa si attrezzasse per poter informare in modo corretto e aiutare, quindi, i giornalisti (che da allora si chiamarono “vaticanisti”) a svolgere bene il proprio lavoro. Fu Paolo VI ad avvertire questa necessità e a dare quindi il via libera per un ufficio completamente dedicato all’informazione. Nasceva così, dopo gli anni di una comunicazione precaria, una vera e propria Sala stampa, e con essa si faceva largo nella chiesa il concetto di opinione pubblica. Alla stampa, e ai mezzi della comunicazione sociale – secondo la formula coniata proprio dal Concilio – era riconosciuta la funzione di mediazione tra la fonte primaria – la chiesa con tutte le sue attività, a cominciare dal magistero del Papa- e appunto, un’opinione pubblica che prendeva sempre più confidenza con la vita della comunità ecclesiale. E’ interessante notare come, via via, fino alla recente Riforma del Papa – la “Praedicate evangelium”- la Sala Stampa abbia assunto caratteristiche sempre diverse.

    Il Prefetto Paolo Ruffini, lei scrive, ha portato il suo contributo al Dicastero della Comunicazione differenziando gli usi dei media secondo le loro potenzialità. Oggi, specie nei giovani, che sono presi dal digitale che "porta il mondo in casa", quale potrebbe essere il metodo di lettura e di studio della stampa cattolica e non solo?

    È toccato al primo Prefetto laico, Paolo Ruffini, completare e varare la Riforma delle comunicazione vaticana. Hanno contato naturalmente le indicazioni del Papa, ma va osservato che un riassetto della comunicazione della Santa Sede si rendeva necessario da tempo. Le nuove tecnologie, la forma digitale e l’avvento dei social, oltre a un più oculato impiego delle risorse finanziare, lo ha reso improcrastinabile. Il processo di rinnovamento può essere spiegato rapidamente in questo modo: tutti i “vecchi” mezzi della comunicazione sociale – sempre secondo la dizione del Concilio – sono confluiti nell’unica forma digitale. Non più, quindi, L’Osservatore Romano, Radio Vaticana, il Centro Televisivo vaticano e la stessa Sala stampa, come strumento a sé, ma un unico sistema multimediale, multilinguistico, capace di operare in sintonia e “produrre”, così, una forma di comunicazione integrata. Anche l’Osservatore Romano, che pure continua ad avere la sua forma di carta stampata, rientra a pieno titolo in questo nuovo edificio comunicativo, governato in ogni sua fase da un Dicastero totalmente rinnovato nelle funzioni. È questo “sistema”, nel suo complesso, utilizzando tutte le risorse tecnologiche, a cominciare dai social, ad esprimere la comunicazione vaticana, Non solo quella del Papa, ma di tutto il Vaticano e della Santa Sede con la sua articolazione curiale. In sostanza si tratta di una comunicazione che parla a una sola voce, seppur coi toni che vengono dai suoi diversi strumenti.

    Paolo VI, Assistente nazionale della Fuci, si rese conto che la comunicazione stessa del Concilio Vaticano II era diventata materia di studio e di ricerca in un contesto come gli anni Sessanta fecondi di importanti e radicali cambiamenti. Lei scrive che in quegli anni la Chiesa fu chiamata ad interrogarsi sul suo ruolo nel Mondo.

    Paolo VI, figlio di giornalista, ha avuto un ruolo fondamentale nella comunicazione non solo della Santa Sede ma di tutta la Chiesa. Anche qui occorre partire dal Concilio. Una Chiesa che si apriva al mondo non poteva fare a meno di porsi il problema di una comunicazione all’altezza, sia dal punto di vista culturale che operativo. A un nuovo atteggiamento doveva corrispondere un nuovo linguaggio. E quindi nuovi mezzi, in grado di rendere comprensibile e manifesta la rinnovata passione per l’uomo, la volontà di intraprendere un cambiamento che quella grande assise aveva sancito non solo attraverso i documenti, ma con un clima mai così cordiale e aperto. Anche la stampa era chiamata a dar conto di una nuova stagione, perché ancora oggi, in piena rivoluzione tecnologica, sono i media, alla fine, a “certificare” e a rendere visibile il cambio d’epoca. La comunicazione non è più solo messaggio, ma cultura in sé, ossia fattore di cambiamento, leva di ciò che è necessario tenere in conto per poterlo investire al meglio e rendere magari più umana una società smarrita. Con il Concilio, la Chiesa credette fino in fondo al valore di una comunicazione capace di percorrere le strade largamente inesplorate di un dialogo con il mondo. Accolta con molta diffidenza dai padri conciliari, molti dei quali la ritenevano un tema di scarso rilievo, la comunicazione si prese poi le sue rivincite. Non subito, tuttavia, perché fino alla conclusione del Concilio continuò ad essere un elemento di polemica. Più i lavori andavano avanti e più si rivelava insufficiente il flusso informativo proveniente dall’Aula. Le proteste non erano solo quelle dei giornalisti, ma anche di numerosi padri conciliari, soprattutto francesi, tedeschi e olandesi, più sensibili ai temi dell’informazione.

    Lei scrive che l’esortazione apostolica ‘Communio et progressio’; si può definire come "Il manifesto della comunicazione cattolica"; e la sua novità è stata che ad essa collaborarono dei Laici. Quali furono le sostanziali differenze con l'Inter mirifica, anche quello un documento profetico riguardo due temi essenziali come dottrina, morale ed uso dei media?

    Il fatto interessante fu che la “Communio et progressio” riuscì a dare vita anche a un documento-peraltro di maggior rango trattandosi di un Decreto – in un primo momento poco apprezzato. Essa non era altro che uno strumento pastorale formulato proprio per l’applicazione operativa dell’Intermirifica che, a quel punto, trovò la sua chiave di volta. Certo, la svolta venne dal contributo dei laici. L’”Inter Mirifica”, forte del documento di applicazione pastorale, una sorta di vademecum pronto per l’uso, divenne a quel punto il documento- principe, anzi la magna carta della comunicazione ecclesiale. Era stata trovata la strada giusta soprattutto per un confronto con l’esterno; e di fronte alle sfide sempre più impegnative provenienti dall’esterno, il ruolo di professionisti ed esperti sul campo, soprattutto laici, aveva assicurato il necessario equilibrio tra i contributi dottrinali e quelli operativi.

    Quanto oggi la comunicazione digitale, nel mondo della Chiesa, segue la comunicazione tradizionale? Può esistere un cammino simbiotico che possa educare soprattutto i giovani?

    La Riforma varata nell’ambito della “Praedicate evangelim”, ha per obiettivo proprio una comunicazione fedele al messaggio, ma declinata nei tempi nuovi della rivoluzione tecnologica. La riconversione digitale di tutto il sistema comunicativo non è stata solo un necessario adattamento a tempi. Una chiesa che ha bisogno di far sentire, ma anche ascoltare, la sua voce in ogni angolo del mondo non poteva certamente trascurare la straordinaria offerta che viene oggi, per esempio, dai social e da tutta l’affollatissima famiglia dei new media digitali.
    Ma non poteva, soprattutto, non porsi l’esigenza di come servire meglio un Papa come Francesco, il papa delle tante “prime volte” (il nome, la provenienza, finanche le scelte di vita quotidiana). Papa Bergoglio è un comunicatore naturale, spontaneo, sul quale è impossibile ritagliare un qualche “piano di comunicazione” a tavolino. Proprio nella fase di riforma, e dunque alle prese anche con i riflessi organizzativi, la comunicazione vaticana ha dovuto misurarsi con questa prospettiva. E bisogna dire che i risultati non mancano. La comunicazione di Francesco, pur potendo contare su una struttura ben articolata e anzi complessa, come un Dicastero, è sempre agile e immediata.

    (FONTE: https://www.portale.fuci.net/2024/06/15/la-comunicazione-nella-chiesa-dal-concilio-vaticano-ii-ad-oggi/)


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