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    L’amara condanna del conflitto

    nella scenofonia dei Sette a Tebe

    di Gabriele Vacis

    Myriam Leone *

    foto2

    Sinossi
    Il  regista Gabriele Vacis affronta con i suoi ragazzi I Sette a Tebe di Eschilo, la storia della lotta fratricida fra i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, per il dominio della propria città. Protagonista del lavoro di Vacis, è però il tema del conflitto, eterno, logorante e universale: l’originale greco è contaminato da suggestioni contemporanee che attingono a tematiche universale coerentemente con un messaggio antebellico forte e potente. Recitano una quindicina di giovani attori, i PEM (Potenziali Evocati Multimediali), che si muovono su una scena spoglia evocando drammi e situazioni angoscianti con le loro voci e i movimenti del proprio corpo. Anche il pubblico viene coinvolto nella rappresentazione in un mosaico di “scenofonia” in cui capita di perdersi, trasportati dalla fascinazione metateatrale della visione a cui si sta assistendo, fino all’ unica conclusione possibile: la consapevolezza del sentirsi privilegiati ad essere ancora vivi!


    Uno spazio vuoto. Un giovane compare dinanzi agli occhi degli spettatori e comincia a camminare avanti e indietro, apparentemente senza una destinazione né uno scopo. Altri attori vanno entrando e si aggiungono al primo, camminando insieme a lui o formando dei gruppi a parte… “schiera” - diranno - si chiama questo strano movimento coreografico e il pubblico non capisce se lo spettacolo sia già iniziato o se gli attori si stiano solo “riscaldando”, provando qualcosa… Intanto, sullo sfondo, la scena è nuda o, forse, non è proprio così…
    Questa è la situazione che mi trovo dinanzi quando entro nel Teatro di Pietrarosa di Pollina per assistere alla rappresentazione de I Sette a Tebe di Eschilo diretto da Gabriele Vacis, regista e drammaturgo piemontese fra i più apprezzati della scena contemporanea, e interpretato dai giovani attori (e attrici) dei PEM, Potenziali Evocati Multimediali, impresa sociale nata a dicembre 2021 dalla sinergia fra i neodiplomati della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, Roberto Tarasco - critico ed esperto musicale - e lo stesso Vacis. Ancora perplessa, cerco di capire se la messa in scena vera e propria abbia avuto inizio quando gli attori cominciano a recitare, dissipando ogni dubbio. Da questo momento in poi è tutto un susseguirsi di movimenti corali, frasi spezzate, frammenti di dialogo che vengono dal testo antico o da drammi contemporanei, in un miscuglio di musica, suoni e voci che non solo risulta accattivante ma anche drammaturgicamente coerente.
    Forse lo spettatore intellettualmente vergine, quello che non conosce bene la tragedia di Eschilo, troverà difficoltà a seguire, o anche solo a intuire, lo sviluppo della storia, il conflitto dei sette guerrieri tebani, capeggiati da Eteocle, che difendono le mura della propria città dall’assalto dei guerrieri argivi, in pari numero, guidati dal fratello del primo, Polinice. Eppure tutto ciò non ha importanza: il testo greco diviene, infatti, un pretesto per parlare di altro, in una risemantizzazione assolutamente funzionale che mira a veicolare un messaggio nuovo così da risultare non solo ancora eloquente ma anche efficace per un pubblico contemporaneo e, in particolare modo, per quello meno adulto, meno maturo: il teatro di Vacis guarda, così, alle nuove generazioni e le coinvolge in prima persona. In una recente intervista, il regista parla di “presa in carico” dei giovani affermando: “Li si lusinga ma non li si ascolta, eppure sono loro che indicano la direzione in cui sta andando il mondo. Il sentimento del tragico per loro non corrisponde con la fine di sé, ma con la fine del pianeta”. E questo sentimento del tragico sulla scena assume un significato nuovo, traducendosi come intima sofferenza e intransigenza verso ogni forma di rivalità o conflitto: gli attori, da argivi e tebani, divengono stranieri contemporanei, fuggiti da varie realtà in guerra nel nostro pianeta, mentre ciascuno di loro comincia a narrare al pubblico la propria storia di esilio e quella della sua famiglia, in un dialogo che diviene, a tratti, interattivo cosicché la comunicazione divenga più efficace. Dice sempre Vacis: “Io a teatro voglio fare un’esperienza: se devo vedere due attori che dialogano, una serie tv su Netflix è molto più interessante”. Ecco perché i giovanissimi attori girano fra gli scranni del pubblico, in mezzo alle gradinate, parlano con gli spettatori, li interrogano, li inquietano e li tirano in ballo come interlocutori attivi rendendoli così partecipi dei loro drammi.
    Alla base dell’impostazione dei PEM, infatti, vi è la convinzione che il teatro sia un'arte che produce una relazione viva tra gli umani, grazie alla prerogativa che gli è propria: richiedere la compresenza fra individui. Fin dalle sue origini, il linguaggio teatrale presuppone la visione da parte di un pubblico e su di essa esso si fonda. Basti pensare che il verbo greco theaomai (da cui la parola theatron deriva) significava “guardare, osservare”: non c’è dunque “teatro” se non c’è un pubblico che assiste. Qui, però, si va oltre: in una dimensione metateatrale, lo spettatore è chiamato ad essere parte attiva della rappresentazione, a giudicare criticamente gli eventi a cui assiste e, pertanto, l’espediente di calare la vicenda narrata nella realtà contemporanea ha lo scopo di coinvolgere più efficacemente il pubblico rendendo possibile tale dialettica. Sono proprio i PEM a sostenere di proporre “un teatro aperto, la cui estetica è ritenuta fondativa di una esperienza teatrale che stabilisca l’interazione e la relazione; si viene così a creare necessariamente uno spazio accessibile alle persone, partecipativo e inclusivo, che nutre la comunità e la società di cui è parte”. In tale contesto (ma anche in generale) amo molto il verbo “nutrire” dal momento che ritengo che la scena teatrale, proprio per la vastità di pubblico che è in grado di raggiungere, possa essere realmente un veicolo culturale di estrema importanza, veicolo di messaggi e di contenuti, cibo per “nutrire” le menti rendendole critiche e responsabili. Del resto questa era proprio una delle finalità che aveva la tragedia greca alle sue origini e l’evento teatrale in generale che, non a caso, coinvolgeva tutti i cittadini della polis, a prescindere dal censo, dalla condizione sociale e dal livello culturale, in una dimensione “politica”, appunto, nel senso più ampio del termine. Non a caso Vacis, qui (come in altre occasioni) ha scelto di mettere in scena un testo di Eschilo, autore più vicino al teatro greco delle origini: nella nuova visione del regista piemontese, il pubblico che assiste diviene anch’esso parte del conflitto fra argivi e tebani perché il dramma non ruota attorno alla critica di QUELLA guerra bensì di OGNI guerra mentre gli attori, il popolo che riempie le strade di Tebe, racconta gli schieramenti opposti che si avvicendano, gli uomini vantandosene, le donne soffrendo.
    Ma, in questa dialettica metateatrale fra attori e spettatori, nella fattispecie orientata sulla tematica antibellica, come si colloca questa centralità dei giovani di cui si parlava prima? La risposta, ancora una volta, ce la fornisce Vacis: “Noi siamo protagonisti di un’esperienza pazzesca per l’umanità che sono settant’anni di pace. Sono una ricchezza inestimabile. Siamo fortunati”. Dunque? “Gli attori devono essere presenti a se stessi, percepire il proprio corpo e quello degli altri. I nostri ragazzi questa percezione non ce l’hanno. Sono disorientati, li abbiamo protetti troppo. […] Siamo in un momento storico in cui il mondo ha di nuovo voglia di menare le mani. Come faremo a garantire altri settant’anni di pace senza passare attraverso nuovi olocausti? I ragazzi di oggi sono sani, tenuti perfettamente, però in loro non c’è più quel soffio vitale che viene dall’esperienza del dolore. Oggi io vi chiedo: è possibile conservare quel soffio vitale senza passare attraverso l’esperienza del dolore? Io la risposta non ce l’ho.” Un teatro “pedagogico, dunque, quello a cui assistiamo con questa rappresentazione, un teatro che miri a raccontare particolari frangenti della sofferenza umana con un linguaggio tragico universale che spera di ricostruirne il senso e di risanare le ferite delle vittime: un teatro che educa contemporaneamente spettatori e attori, non a caso questi ultimi - come già evidenziato - giovanissimi.
    Ma in tutto questo, l’estetica teatrale che fine fa? Detto più concretamente, lo spettacolo è anche piacevole da vedere o assistiamo solo a un’interessante rappresentazione con un bel messaggio educativo ma priva di fascino teatrale? La risposta io la trovo in quella che si chiama “scenofonia”, originale neologismo (coniato nel 2018) che allude a una colonna sonora che integri musiche e suoni. Ne I Sette a Tebe di Vacis, Roberto Tarasco tramite tale tecnica teatrale riempie con grande efficacia e suggestione una scena che, diversamente, risulterebbe nuda e spoglia: gli attori, sovrapponendosi con le loro voci, le loro polifonie, gli effetti sonori e i rumori che producono articolando fonemi particolari o semplicemente coi loro corpi, producono una fascinazione che accompagna il pubblico per tutta la durata della rappresentazione. Così delle semplici bende elastiche scagliate a distanza da un guerriero all’altro, riproducono l’eco del metallo delle armi, mentre le voci femminili che variano di timbro, passando dal canto al lamento, modulano i diversi registri dei cori femminili quando intonano il peana (l’inno della vittoria), o quando, come le prefiche nel loro ingrato compito, accompagnano il corteo funebre.
    Nella parte conclusiva dello spettacolo, ciascuno degli attori in scena si muove in mezzo al pubblico proclamando il proprio nome e la propria età e affermando: “… e sono vivo!”. Ad esempio si sente: “Mi chiamo Svetlana. Ho ventidue anni e sono viva!”. O ancora: “Mi chiamo Pietro, ho venticinque anni e sono vivo!”. Con tale espediente i ragazzi sottolineano, ancora una volta, come l’essersi sottratti alla guerra ha permesso loro di essere ancora vivi oggi. La parte più suggestiva e commovente, però, arriva ora: gli attori, coi loro gesti, invitano chi del pubblico se la sente a fare altrettanto, facendoli gridare il proprio nome e la propria età e condividendo l’orgoglio di poterlo fare. E mentre le frasi vengono urlate dagli spettatori, i ragazzi le ripetono “passandosele” fra di loro in un gioco di echi e sovrapposizioni che crea una moltitudine di voci e di volti, una nuova scenofonia che questa volta coinvolge, in maniera terribilmente affascinante, l’intero teatro finché una parola s’impone su tutti quando un giovane, con sguardo glaciale, guardando ipnoticamente il pubblico grida “Buio!” e tutto si spegne.


    SUGGERIMENTI E PISTE DI LABORATORIO PER UNO SVILUPPO PRATICO AI FINI EDUCATIVI

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    Numerose suggestioni arrivano da questo spettacolo. Il fatto che il regista, Gabriele Vacis, lavori CON i giovani e si rivolga in particolare ai giovani col suo messaggio pedagogico, rende sicuramente più facile il nostro compito di educatori nel proporre ai nostri ragazzi la visione di tale rappresentazione. Inizialmente io chiederei a questi di citare, ad alta voce e uno per volta, un conflitto che conoscono, antico o recente...
    Questo ha lo scopo di illustrare come la guerra e il concetto stesso di “conflitto” sia diacronico, nel senso che attraversa il tempo in maniera, ahi noi, universale.
    Successivamente proporrei la lettura ad alta voce di alcune frasi sulla guerra, tratti da testi letterari, che distribuiremo ai ragazzi. Ecco alcuni esempi:
    … “Ogni guerra è una guerra civile” (Cesare Pavese).
    … “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo (Salvatore Quasimodo).
    “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire” (Albert Einstein)
    “Togli il sangue dalle vene e versaci dell’acqua al suo posto: allora sì che non ci saranno più guerre” (Lev Tolstoj).
    …“Perché quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la dignità dell'uomo” (Oriana Fallaci).
    “Di queste case / non è rimasto / che qualche brandello di muro. / Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. / Ma nel cuore /nessuna croce manca. / È il mio cuore / il paese più straziato” (Giuseppe Ungaretti)
    “Tra melma e sangue / Tronco senza gambe / E il tuo lamento ancora, / Pietà di noi rimasti / A rantolarci e non ha fine l’ora” (Clemente Rebora)
    “La sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue / s’è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate, / di larve sulle golene, e l'acqua séguita a rodere / le sponde e più nessuno è incolpevole. Tutto per nulla, dunque?” (Eugenio Montale)

    Dopo la lettura di queste frasi si proporranno alcuni stralci di giornale che descrivono alcuni conflitti attuali (quello israelo-palestinese… quello ucraino…) e si inviteranno i ragazzi a riflettere sull’universalità della guerra e, soprattutto, delle conseguenze che essa produce e dei sentimenti che ispira. Quindi si avvierà un brainstorming in cui il gestore del gruppo scriverà su in lavagna tutte le parole che i ragazzi suggeriranno associandole alla parola guerra, in maniera immediata e senza troppe riflessioni.
    Infine si tornerà alla frase di Pavese, “Ogni guerra è una guerra civile”, e la si metterà in correlazione con lo spettacolo de I Sette contro Tebe: quale potrebbe essere il possibile legame o, al contrario, la differenza? Si potrebbe concludere l’attività citando la frase di Vacis: “Io a teatro voglio fare un’esperienza”, facendo notare ai nostri come quella a cui abbiamo appena assistito è appunto non una semplice rappresentazione teatrale bensì una vera e propria esperienza.
    A tal proposito, interessante potrebbe essere anche la visione del video, disponibile su Youtube, “Gabriel Vacis legge e spiega I Sette a Tebe di Eschilo”.

    LINK:
    Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=PE5y4x-TZj8
    Gabriel Vacis legge e spiega I Sette a Tebe di Eschilo: https://www.youtube.com/watch?v=O54hHPB0CiA


    * Docente e responsabile della compagnia teatrale "Volti dal Kàos" del CGS Don Bosco - Villa Ranchibile di Palermo

     


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