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    Recensione e segnalazione

    POLLO

    pp. 432 - € 22,00

     


    IN ESTREMA SINTESI

    È opinione molto diffusa che nelle società democratiche ed economicamente più sviluppate contemporanee sia presente una forma di individualismo esasperato. Osservando queste società e la vita delle persone che le abitano non ci si può però esimere dal porsi la domanda se ciò che viene etichettato come individualismo lo sia realmente. L’ipotesi che nel libro viene sviluppata è che ciò che viene etichettato come individualismo sia semplicemente una sorta di miraggio, un’illusione, la cui funzione è quella di favorire la progressiva riduzione dell’individuo umano alla condizione di molecola di un superorganismo: la società globale.
    Alla base di questa ipotesi vi è, da un lato, la constatazione che questo “individualismo” si sviluppa all’interno di sistemi sociali talmente rigidi che gli individui, di fatto, non abbiano alcuna possibilità reale di modificarli e, dall’altro lato, che questi stessi individui siano stati espropriati da una deriva nichilista del loro sentimento di appartenenza alla Totalità.
    Infatti, l’uomo contemporaneo sembra molto lontano da quello vitruviano, il cui corpo è inscritto sia nel cerchio, il Cielo, che nel quadrato, la Terra. Da un uomo che prima della modernità si percepiva come un essere anfibio tra due realtà: quella locale in cui si svolgeva la sua vita quotidiana e quella non locale nella quale lo conducevano ogni notte i sogni e nella veglia l’immaginazione simbolica, le fiabe, le leggende e i miti, così come le esperienze del sacro, della sincronicità e delle estasi.
    A queste vie tradizionali di accesso alla realtà non locale, e quindi alla Totalità, da alcuni decenni si sono aggiunte quelle della fisica e della teoria della complessità. Indirettamente, questo ha consentito di attenuare lo stigma di irrazionalità che nella modernità è stato conferito alla ricerca della Totalità.
    Senza il sentimento di appartenenza alla Totalità l’uomo non potrà né vivere la propria individualità in modo libero e autonomo, né essere realmente protagonista della vita sociale. Solo conquistando questa forma autentica di individualità l’uomo potrà impedire il realizzarsi dell’infausta profezia di alcuni scienziati, secondo la quale il superorganismo della società globale diverrà la nuova forma dell’umano, sfrattando l’individuo dalla vetta della complessità e della vita cosciente.
    L’uomo, anche dopo aver rotto con la conquista della coscienza il suo legame fusionale con la Totalità, ha mantenuto con essa un profondo rapporto, spesso inconscio, che ha alimentato la sua evoluzione psichica e cognitiva, sino alla conquista del sentimento di essere un individuo unico e irrepetibile nell’orizzonte del mondo e fratello di ogni altro individuo. Questa forma di individualismo, nata nella filosofia ellenistica e nel cristianesimo primitivo, nella modernità ha perso progressivamente, spinta dal nichilismo, il suo legame con la Totalità ed è stata esiliata nei confini dell’ego.
    Questo sta favorendo il tentativo dei superorganismi, generati dallo sviluppo dell’informatica e dell’intelligenza artificiale, di affermarsi come la nuova forma dell’umano e ridurre l’individuo a loro semplice molecola. Solo la riconquista di un individualismo autentico, nutrito da un rapporto vitale con la Totalità che può contare anche sulla scoperta da parte delle scienze fisiche della non-località/Totalità, può annullare questa minaccia e consentire la sopravvivenza dell’umano individuale.

    L’AUTORE

    Mario Pollo nasce nel 1943 in un paese del vercellese, Livorno Ferraris e a all’età di otto anni va a vivere a Torino dove risiede sino al 1983, anno del suo trasferimento a Roma. Al suo percorso professionale si può applicare l’aforisma di Euripide: «l’atteso non si compie e all’inatteso un dio apre la via». Infatti, dopo aver discusso nel 1968 una tesi inerente l’uso del calcolatore per lo sviluppo di metodi di documentazione automatizzata, si occupa di educazione degli adulti in un’organizzazione di servizio sociale della Provincia di Torino. Un anno dopo è assunto nel servizio di psicologia di una multinazionale francese dove giunge a ricoprire il ruolo di capo del laboratorio di psicologia applicata. Nel frattempo collabora con l’Istituto di Psicologia Sperimentatale e Sociale dell’Università di Torino, diretto dalla prof.ssa Massucco Costa, divenendo nel 1971 professore incaricato. Dopo aver lasciato nel 1976 la multinazionale ricopre per sette anni il ruolo di Presidente Regionale della Lega delle Cooperative. Al termine di questo periodo nel 1983 viene eletto Presidente dell’Associazione Nazionale delle Cooperative di Abitazione della Legacoop. Accanto a questa attività politico-sindacale ha svolto quella di insegnante universitario, prima a Torino poi a Roma presso l’Università Pontifica Salesiana. Nel 1988 lascia la Legacoop e assume la Direzione Generale della Fondazione Labos, Laboratorio per le politiche Sociale. Nel 1994 ottiene anche la docenza alla Lumsa di Roma, dove insegna ancora attualmente.
    L’attività che, senza soluzione di continuità, ha accompagnato questo percorso professionale variegato, è stata l’insegnamento e quella strettamente connessa della scrittura. Agli inizi degli anni duemila queste due attività divengono la sua attività principale ed esclusiva. Si può dire che il daimon custode della sua vocazione ha finalmente conseguito il suo scopo. La scrittura può essere considerata il basso continuo della sua vita come è testimoniato dalla pubblicazione di trentacinque libri individuali, di parecchie centinaia di articoli e di quasi un centinaio di partecipazioni a libri collettanei.

    PIÙ APPROFONDITAMENTE


    Introduzione

    Nella società contemporanea è molto diffusa la denuncia dell’individualismo di cui sarebbe affetta la maggioranza delle persone. Osservando le caratteristiche che fanno sì che queste persone siano classificate come individualiste, sorge il sospetto che ciò che viene indicato come individualismo in realtà non lo sia affatto. Anzi, che esso sia solo un’apparenza, una sorta di miraggio, un’illusione, la cui funzione è quella di favorire una trasformazione sociale il cui fine, come si vedrà nel capitolo ottavo, è quello di ridurre l’individuo umano a molecola di un superorganismo sociale: la società globale.
    Paradossalmente, in apparenza, l’individualismo illusorio è funzionale allo svolgersi di questa infausta trasformazione sociale perché, a differenza dell’individualismo autentico, non si nutre del rapporto vivificante con la Totalità. A questo proposito è necessario ricordare che l’uomo per essere compiutamente umano deve abitare il confine che separa ed unisce il Cielo e la Terra. Deve essere cioè separato e unito alla Totalità. Bodei utilizzava la parola “anfibio” per caratterizzare questa condizione dell’umano.
    Nella modernità il legame dell’uomo con la Totalità sembra essersi progressivamente indebolito all’interno della cultura sociale dominante, come testimonia la seconda delle tre circostanze, che secondo Nietzsche hanno invitato l’ospite inquietante nella vita umana. Circostanza costituita dalla perdita della «Totalità, una sistematicità e perfino una organizzazione in tutto l’accadere e a fondamento di ogni accadere […nella quale] l’uomo vive un profondo sentimento di connessione e di dipendenza da una Totalità a lui infinitamente superiore, un modus della divinità» [1].
    Nel passato la scoperta del legame dell’individuo con la Totalità avveniva esclusivamente attraverso vie, apparentemente a-razionali se non irrazionali, come il sogno, la rivelazione religiosa e mistica, la meditazione, le estasi naturali e artificiali, l’arte, la letteratura e la filosofia o pratiche magiche e divinatorie. Oggi, invece, questo legame è svelato anche da alcune discipline scientifiche come, ad esempio, la fisica quantistica e la teoria della complessità, che in questi ultimi decenni hanno scoperto la Totalità e la non-località.
    La riscoperta del valore della Totalità, nella fisica e nelle applicazioni della teoria della complessità alle forme organizzative dell’umano, individuali e sociali, interagendo con l’attuale impetuoso sviluppo dell’Intelligenza artificiale e delle tecnologie informatiche, sta producendo degli effetti profondi sulla condizione umana, come dimostrano alcune trasformazioni del fondamento antropologico, per ora in una fase iniziale e, quindi, non ancora pienamente visibili, ma il cui compimento secondo molti studiosi sarebbe assai prossimo.
    Per ora, questa trasformazione appare aperta a due esiti opposti, poiché potrebbe condurre o ad una riconnessione cosciente dell’individuo con la Totalità, nel segno dell’autonomia e della libertà, oppure a un asservimento inconscio dell’individuo, trasformato in molecola, ad un superorganismo sociale.
    Questo secondo esito, che cancellerebbe alla radice ogni forma di individualismo, non importa se autentico o inautentico, sarebbe una grave minaccia all’attuale forma dell’umano, tessuta in centinaia di millenni di evoluzione. Secondo molti scienziati questo esito sarebbe quello più probabile. Fortunatamente, la storia ha dimostrato che i più grandi cambiamenti nell’evoluzione sociale e individuale umana raramente sono prodotti da ciò che nel presente appare dominante, ma, molto spesso, da ciò che è considerato marginale e apparentemente insignificante.
    Ai fattori che si è detto essere all’origine della trasformazione del fondamento antropologico, la scoperta della non-località e della Totalità, insieme agli straordinari sviluppi dell’Intelligenza artificiale e delle tecnologie informatiche, se ne deve aggiungere un altro, che a prima vista può apparire alquanto strano e probabilmente addirittura trasgressivo: le ricerche sperimentali, a livello psicologico e biologico, degli effetti delle sostanze allucinogene sulla comprensione da parte dell’essere umano di sé e della Totalità in cui è immerso e con la quale è in relazione.
    È necessario ricordare che l’uomo ha già vissuto un lungo periodo nel corso della sua evoluzione nella quale era solo una parte, una molecola della Totalità. Infatti, prima di conquistare la coscienza e di individualizzarsi, egli viveva la condizione uroborica di fusione con il tutto.
    La memoria di questa appartenenza indivisa alla Totalità del mondo è depositata nell’inconscio collettivo, e spesso si manifesta come una nostalgia e un anelito al ricongiungimento con essa. È una nostalgia che si manifesta in innumerevoli modi, che vanno dalla sua negazione o rimozione sino all’abbandono ad essa, al punto di annullare la propria identità, la propria libertà e autonomia. Questa nostalgia si può definire “nostalgia dell’Uroboros”, essendo l’Uroboros l’archetipo del tempo mitico della perfezione degli inizi, prima che nell’uomo emergessero l’io e la coscienza, che egli si differenziasse dal tutto e che nel suo mondo comparissero gli Opposti. L’Uroboros è rappresentato dall’immagine del serpente/drago che si morde la coda. Si tratta, come si vedrà, di un antico simbolo egiziano della Totalità [2].
    Di questo tempo esiste un ricordo nell’interiorità profonda di ogni essere umano e nei miti che narrano del paradiso terrestre, nel quale l’uomo viveva uno stato di beatitudine, nel quale l’individuo e il gruppo, l’Io e l’inconscio, l’uomo e il mondo erano fusionalmente uniti.
    Questa condizione fusionale si è conclusa quando l’uomo, al termine di un lungo cammino evolutivo, ha pronunciato il pronome “io” ed è divenuto un essere cosciente. Ciò ha avuto come conseguenza la sua cacciata dal paradiso terrestre e il suo ingresso in un mondo irto di pericoli e di sofferenze, nel quale l’io ha sperimentato la gioia e il dolore. Un mondo che si è manifestato sin da subito ambivalente per la presenza del conflitto degli opposti e per la sua natura, che appariva allo stesso tempo una madre buona e una madre cattiva.
    Di fronte alle difficoltà, ai problemi esistenziali, alle insicurezze e alle sofferenze delle persone, la Totalità, come le sirene, fa udire il suo canto, capace di far sgorgare dalle profondità dell’inconscio collettivo di coloro che lo ascoltano una struggente nostalgia del grembo protettivo della Totalità uroborica.
    L’ascolto di questo canto può condurre, se non si è legati da robuste funi all’albero maestro della coscienza, alla regressione verso una o più forme di dipendenza. Tra queste, una delle più sottovalutate ma assai diffusa è certamente quella che le persone sviluppano nei confronti di vari tipi di gruppo sociale: famiglia, gruppi primari, comunità, associazioni, organizzazioni, partiti, folla, ecc. La regressione che conduce a questa dipendenza è spesso subdolamente alimentata, a fini di dominio, da alcune persone che hanno eletto a loro idolo il potere, sovente mascherato da ideologia, efficienza organizzativa, sicurezza, salute, educazione, fede religiosa e, addirittura, da altruismo e amore.
    In questo periodo storico è in corso l’alimentazione di regressioni verso forme di dipendenza da organismi sociali che hanno alla base, in alcuni casi, la sicurezza e, in altri, l’efficienza organizzativa o la risposta a bisogni relativi alla salute, alla conoscenza, all’educazione e al benessere sociale ed economico. Tra l’altro, oggi essa si realizza in particolare attraverso la comunicazione elettronica, le più sofisticate tecnologie informatiche e dell’intelligenza artificiale.
    Occorre però ricordare che la Totalità, essendo ambivalente, non è solo il luogo in cui l’umano, regredendo, può smarrire ciò che lo rende tale, perché esso è stato ed è anche il luogo che, come un ventre materno, lo ha protetto e nutrito, consentendogli di sviluppare la coscienza e, quindi, l’io. La Totalità può essere perciò tanto una madre buona quanto una madre cattiva, essendo il luogo che consente ad ogni essere umano sia di sviluppare pienamente la singolare umanità di cui è portatore, sia di rinunciare alla propria progettualità esistenziale, libertà e autonomia nel tentativo di un impossibile ritorno nel grembo materno.
    Questo significa che nel rapporto con la Totalità, che è necessario al compimento della sua umanità, l’uomo deve comunque affrontare un rischio e superare alcune prove. Non solo, a volte deve passare attraverso l’esperienza della sconfitta e dell’abbassamento.

    La scoperta della non-località nella fisica
    Nel secolo scorso, come si vedrà più diffusamente nel quinto e nel sesto capitolo, nella fisica e nelle discipline scientifiche che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo della teoria della complessità, è andato in crisi uno dei principi su cui si fondava la razionalità che, progressivamente, nel percorso evolutivo umano aveva sostituito il pensiero mitico e magico: la località e che ha contributo fortemente alla trasformazione del mondo in un sistema tecnico.
    Il sostantivo località possiede, oltre quello comune, anche un significato più raro usato all’interno di alcune discipline scientifiche. Per quanto riguarda il significato comune, che è sinonimo di luogo, il Tommaseo, nel suo irripetibile dizionario, riteneva che il sostantivo femminile “località” fosse un termine inutile e inelegante se utilizzato per quello di “luogo”, salvo che in filosofia come astrazione dell’idea di luogo. Nel linguaggio scientifico contemporaneo questa parola indica che le cose per esistere devono trovarsi da qualche parte, ovvero essere in una località, aut luogo. D’altronde noi viviamo concretamente all’interno di luoghi.
    Einstein sosteneva che di tutte le proprietà che consentono all’uomo di comprendere il mondo in cui abita, la località fosse la più importante, tenuto conto che essa evidenzia due aspetti della realtà: la separabilità e l’azione locale. Con il termine separabilità Einstein indicava la possibilità di separare gli oggetti e/o le loro parti costituenti e di considerarli perciò entità a sé stanti, mentre con quello di azione locale manifestava la constatazione-convinzione che gli oggetti nel mondo reale possono interagire solo scontrandosi o «ingaggiando un corriere che colmi la distanza che li separa» [3].
    Con altre parole, si può dire che la separabilità consente agli oggetti di avere una propria identità, mentre l’azione locale fornisce le regole che governano il loro agire. Questi due principi sono stati inseriti da Einstein all’interno della teoria della relatività insieme all’indicazione di un limite tassativo: nessun oggetto può superare la velocità della luce. Se un oggetto superasse questo limite potrebbe spostarsi a velocità infinita e, in questo caso, la distanza non esisterebbe più e, di conseguenza, anche lo spazio.
    In un saggio del 1948 Einstein sottolineava in questo modo l’importanza della località:

    I concetti della fisica fanno riferimento a un mondo reale esterno… oggetti che devono avere un’esistenza reale indipendentemente dall’osservatore… oggetti che esistono indipendentemente l’uno dall’altro, “in quanto giacenti in punti diversi dello spazio”. Senza questa ipotesi di esistenza indipendente… degli oggetti distanziati spazialmente, ipotesi che ha origine nel pensiero quotidiano, il ragionamento fisico così come lo intendiamo comunemente non sarebbe possibile. Né si vede come si potrebbero formulare e verificare leggi fisiche, senza una separazione così netta [4].

    Con la sua concezione della località Einstein si era posto in continuità con il pensiero filosofico e scientifico che a partire da Democrito e da Aristotele, passando per Kant, arriva sino al cuore della modernità. Tra l’altro egli riteneva che senza questo tipo di concezione dello spazio la fisica non potesse esistere e che il mondo non fosse concepibile.
    Per comprendere il perché dell’insistenza di Einstein su questo principio è necessario ricordare che il principio opposto a quello di località, quello di non-località, si era prepotentemente affacciato nell’orizzonte della meccanica quantistica in seguito alla scoperta di tre fenomeni fisici.
    Il primo, quello più noto e che inquietava maggiormente Einstein, tanto da definirlo «spettrale azione a distanza», è l’entanglement (intreccio, groviglio) chiamato anche correlazione quantistica. Si trattava del fenomeno per cui due particelle «una volta diventate entangled in seguito a un evento microscopico, lo rimangono anche se si allontanano a distanze siderali» [5].
    Il secondo tipo di non-località, che aveva creato tra i fisici uno sconcerto ancora maggiore dell’entanglement, è stato registrato nell’osservazione dei buchi neri, all’interno dei quali la materia può passare da un punto all’altro senza attraversare lo spazio intermedio.
    Il terzo tipo di non-località, che appariva meno certo dei primi due, nasceva dall’osservazione dell’omogeneità dell’universo, nel senso che esso manifesta lo stesso aspetto in ogni direzione lo si guardi.
    A questi tre tipi di non-località, che saranno descritti nella seconda parte, si aggiungevano poi altri principi della meccanica quantistica, come, ad esempio, la complementarità, la stretta relazione tra l’osservazione e la natura dei fenomeni osservati.
    Per molti fisici, tra cui lo stesso Einstein, e per molte persone semplicemente razionali, il rifiuto della non-località rappresentava il Rifiuto sia di una forma di pensiero che era ritenuta di tipo magico, sia di alcune forme di conoscenza non scientifiche, che sono però alla radice della nostra civiltà e che sono coltivate dalla maggioranza degli esseri umani – tra i quali anche da una parte dei fisici – che le ritengono, a buon diritto, pienamente razionali, anche se fondate su una razionalità differente da quella scientifica. Quest’ultima considerazione non era comunque condivisa da un folto gruppo di scienziati, che riteneva che l’accettazione del principio di non-località ricollocasse l’uomo nel mondo che aveva abbandonato dopo la conquista della coscienza e della razionalità, quando cioè il suo pensiero era passato dal mythos al logos e, successivamente, aveva scoperto il metodo sperimentale o perlomeno quello empirico.

    Una nuova forma olistica: la teoria della complessità
    La non-località, come scrive Musser:
    implica che noi viviamo in un universo olistico, ossia non riducibile alla somma delle sue parti spaziali. Il mondo ha proprietà che ci rimangono nascoste quando lo guardiamo un pezzetto alla volta, ma che si rivelano quando lo consideriamo nel suo insieme [6].
    Tuttavia, è necessario ricordare che affinché l’uomo possa percepire l’interconnessione dei fenomeni fisici e il suo essere interconnesso con gli altri e con la Totalità dell’universo, deve avere conquistato la coscienza, il suo Io. D’altronde la vita sulla Terra è comparsa quando la natura, olistica, si è suddivisa. Ciò significa che: “È la divisione del mondo, non la sua interconnessione, che deve suscitare la nostra meraviglia» [7].
    Di là di questa necessaria precisazione, il carattere olistico dell’universo evidenzia che la Teoria della complessità, che ha introdotto modelli di spiegazione delle relazioni sia tra oggetti viventi che non viventi non lineari, converge con la meccanica quantistica nel restituire valore alla Totalità per la conoscenza dei fenomeni naturali. In questa Teoria, sono confluiti principi, concetti e definizioni elaborati da varie teorie scientifiche: sistemiche; biologiche; matematiche del caos e delle reti; fisiche, come ad esempio la meccanica statistica; chimiche con le strutture dissipative; cibernetiche.
    Come si è prima accennato la teoria della complessità è un insieme di concetti e di definizioni che è emerso all’interno di discipline diverse in un percorso durato alcuni decenni, che, come prima indicato, sarà brevemente narrato nel sesto capitolo.

    Il rinascimento della ricerca sugli psichedelici
    Oltre alla fisica e alla teoria della complessità hanno contribuito all’incremento del valore culturale della relazione degli esseri umani con la Totalità le ricerche sperimentali avviate nell’ultimo ventennio da importanti università, in particolare statunitensi, sugli effetti delle sostanze allucinogene, in particolare della psilocibina e dell’LSD.
    È utile ricordare che l’utilizzo di sostanze allucinogene per accedere a una dimensione altra rispetto a quella spaziotemporale in cui si svolge la vita degli esseri umani è presente sin dall’epoca preistorica.
    L’elemento di novità delle ricerche contemporanee, rispetto a quelle degli anni Sessanta del secolo scorso, che si erano concluse bruscamente in seguito alla loro stigmatizzazione da parte della pubblica opinione e alla collocazione delle sostanze psichedeliche nella «Tabella 1» – che comprende le sostanze di abuso prive di qualsiasi utilizzo medico riconosciuto –, è data dalla rigorosità del loro impianto sperimentale e dalla estraneità alla matrice ideologica che aveva caratterizzato la controcultura dominante negli anni Sessanta.
    È estremamente significativo poi che alcune di queste ricerche siano state dirette da Roland Griffiths, che è senz’altro un’autorità mondiale nell’ambito delle ricerche intorno alle dipendenze e alle varie sostanze d’abuso.
    Queste ricerche hanno dimostrato chiaramente che le esperienze di tipo estatico sono, di fatto, una via di accesso alla Totalità e alla comprensione della non-località. Cosa peraltro nota da molti millenni, ma solitamente rifiutata dalla razionalità epistemica. Sembra comunque essere giunto il tempo nel quale il valore delle conoscenze dell’altra razionalità umana, delle quali quelle estatiche prodotte dagli allucinogeni sono una piccola e non indispensabile parte, possa essere finalmente riconosciuto anche da una parte degli scienziati. In definitiva si tratta del riconoscimento che la conoscenza profonda della realtà richiede l’integrazione complementare di diverse forme di conoscenza.

    Le radici del Sé nella non-località
    Si tratta di un riconoscimento comunque assai tardivo, visto che dopo la conquista della coscienza e il suo radicamento stabile nel mondo locale, l’uomo ha sempre mantenuto un legame profondo e vitale con il mondo non-locale. Anche perché, come ha dimostrato Jung, il culmine dell’evoluzione psichica dell’individuo è la conquista della sua personalità totale, il Sé. Conquista che avviene attraverso la via dell’individuazione, che, come scrive Jung, è:
    quel processo che produce un “individuo” psicologico, vale a dire un’unità separata, indivisibile, un tutto. Si suppone generalmente che la “coscienza” coincida con la totalità dell’individuo psicologico. Ma la somma di esperienze inesplicabili senza il ricorso all’ipotesi di processi psichici inconsci fa dubitare che l’Io e i suoi contenuti siano realmente identici al “tutto”. Se i processi inconsci in generale esistono, sicuramente appartengono alla totalità dell’individuo, anche se non sono parti costitutive dell’Io cosciente [8].
    In altre parole, il processo di individuazione produce un Sé del quale l’Io cosciente è solo una parte poiché ve ne è un’altra costituita dall’inconscio. Si tratta di un’integrazione tra coscienza a inconscio in cui le due parti devono essere in un equilibrio dinamico, dato che:

    Coscienza e inconscio non producono come sintesi un tutto se l’una è repressa e danneggiata dall’altro e viceversa. Se devono combattere tra loro, che sia almeno una battaglia leale con eguali diritti per entrambe le parti. L’una e l’altro sono aspetti della vita. La coscienza dovrebbe difendere la sua ragione e le sue possibilità di autodifesa; ma anche alla vita caotica dell’inconscio dovrebbe esser permesso di seguir la sua strada, nei limiti in cui ciò sia per noi tollerabile. Con ciò si avrebbe simultaneamente una battaglia leale e una collaborazione sincera. Così dovrebbe palesemente svolgersi la vita umana, secondo il vecchio gioco dell’incudine e del martello: tra l’una e l’altra il ferro battuto è saldato in un’unità indistruttibile, in un “individuo” [9].

    Questo significa anche che l’uomo per raggiungere la propria completezza individuale deve abitare contemporaneamente sia la località che la non-località. Nella località (separazione) egli è radicato dalla coscienza e dal suo Io, mentre nella non-località (Totalità) lo è dal suo inconscio, in particolare da quello strato di esso che Jung ha definito “collettivo”. Tra l’altro, la cultura ha fornito agli esseri umani molti strumenti e vie per esplorare, anche razionalmente, la Totalità non-locale che essi abitano attraverso l’inconscio collettivo.

    La struttura del libro
    Il libro proporrà un percorso scandito in tre parti e in quattordici capitoli. Nella prima parte, preceduta da un preludio in cui è narrata la conquista della coscienza da parte dell’uomo, saranno descritte le esperienze di non-località sviluppate dagli uomini sin dalla più remota antichità. In particolare, nel primo capitolo saranno analizzate le esperienze della Totalità/non-località che l’uomo ha vissuto nei tempi arcaici dopo la conquista della coscienza, pur rimanendo con i piedi ben saldi nella località.
    Nella seconda parte, dopo un interludio in cui sono accennate alcune sorprendenti convergenze tra alcune cosmologie arcaiche sviluppate in ambito religioso e la Teoria del Bing Bang, vi è, come si è sopra accennato, la descrizione della scoperta della non-località da parte della fisica, della Totalità da parte della teoria della complessità e la descrizione di alcune ricerche sull’effetto della psilocibina e dell’LSD.
    Nella terza parte si tenterà di individuare i tratti salienti dell’umano contemporaneo, nello specifico dei tratti che indicano la presenza di una vera e propria mutazione antropologica. Mutazione prodotta dalla necessità dell’uomo di adattarsi a una realtà in cui sono cambiati sia i confini tra località e non-località, sia la relazione tra l’individuo e la nuova Totalità sociale emergente in seguito alle tecnologie informatiche e alle applicazioni dell’intelligenza artificiale. A causa di queste mutazioni, l’uomo, anche se abita da sempre la regione di confine tra il locale e il non-locale, tra l’individualità e la Totalità, sperimenta uno stato di disorientamento, che in alcuni si manifesta nella negazione della non-località e in altri nella svalorizzazione della località.
    In altre parole, l’uomo deve ricostruire la propria anfibiità10 in modo tale che essa gli consenta non solo di continuare ad abitare il confine tra località e non-località, ma anche di affrontare i profondi mutamenti che stanno avvenendo nell’organizzazione dei sistemi sociali. Infatti, come si vedrà, sono presenti nell’attuale cultura sociale letture dell’umano che preconizzano non una nuova anfibiità, bensì la riduzione dell’uomo a semplice molecola di nascenti superorganismi sociali, con la conseguente perdita della sua autonomia, della sua libertà individuale e la sua fusione in una Totalità sociale.
    Non solo. In questo non troppo lontano contesto socioculturale l’esperienza della Totalità avrebbe un carattere organico, e sarebbe perciò molto diversa da quelle di tipo di spirituale che l’uomo ha sperimentato nella sua lunga storia evolutiva. Di fatto, costituirebbe una evoluzione della primordiale appartenenza uroborica alla Totalità precedente la conquista della coscienza e dell’Io. Infatti, nei superorganismi gli individui umani diverrebbero semplici atomi entangled e l’umano sarebbe una proprietà del sistema sociale. In altre parole, il superorganismo diverrebbe la nuova forma dell’uomo e, secondo alcuni, rappresenterebbe l’ulteriore salto evolutivo della vita nell’universo.

    NOTE

    1 F. Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto 1887-1888, in F. Nietzsche, Opere 1882/1895, Newton, Roma 1993, p. 954.
    2 E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978, p. 31.
    3 Citato in G. Musser, Inquietanti azioni a distanza, Adelphi, Milano 2019, p. 14.
    4 Citato in, Ibidem, p. 16.
    5 L. M. Lederman, C. T. Hill, Fisica quantistica per poeti, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 204.
    6 G. Musser, Inquietanti azioni a distanza, cit. p. 178.
    7 Ivi, p. 179.
    8 C. G. Jung, Opere, Vol. IX tomo primo. Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri, Torino 1980, p. 267.
    9 Ivi, pp. 279-280.
    10 Remo Bodei ha definito anfibi gli «esseri capaci di vivere in due mondi: nell’al di qua dell’esperienza e nell’al di là dell’attesa, con lo sguardo alternativamente rivolto in avanti, alla propria sorte terrena, e in alto, al Regno dei cieli» (R. Bodei, Destini personali, Feltrinelli, Milano 2003, p. 10).

    Conclusione: la fionda di Davide

    Di fronte all’evoluzione dell’intelligenza artificiale, dei supercomputer e dei computer quantistici, delle neuroscienze, delle reti sociali e del dominio della Totalità aut non località, l’abdicazione forzosa dell’uomo dal vertice dell’evoluzione della vita cosciente nell’universo sembrerebbe essere alle porte. Tuttavia, l’essere umano, anche nei periodi più bui della sua storia, quando sembrava che la sua libertà, la sua autonomia e la sua coscienza fossero soggiogate in un organismo sociale olistico, ha sempre conservato la capacità di emanciparsi da quella situazione. Quasi sempre questa capacità è stata tenuta in vita da una minoranza di persone che, come la storia dimostra, nel momento opportuno sono state in grado di innescare un processo di liberazione che ha coinvolto l’intero organismo sociale di cui facevano parte. Queste persone sono state capaci, spesso non nel breve periodo, di far germogliare il seme dell’umano che avevano gelosamente custodito, consentendo la liberazione dal dominio totalitario del superorganismo sociale, anche se esso, apparentemente, sembrava potente e invincibile.
    Come si è detto nel dodicesimo capitolo, in questo periodo storico sta rinascendo, dopo il dominio, spesso invisibile, esercitato dall’ospite inquietante, la consapevolezza che l’uomo è il vertice dell’evoluzione. Consapevolezza che proviene dalla ricerca e dalla riflessione dei cosmologi non riduzionisti come, ad esempio quella del fisico Aguirre che rivolgendosi ai lettori nell’introduzione del suo recentissimo libro scrive:

    non solo voi siete intimamente legati all’Universo alle scale più ampie, ma siete essenziali. Ora non voglio negare che, in un certo senso, siate una disposizione infinitesima di polvere su un piccolo pianeta tra miliardi di miliardi di pianeti del nostro universo osservabile, che potrebbe benissimo essere uno fra i tanti universi, in questo senso fisico, la vostra rilevanza è davvero irrisoria. Ma cercherò di convincervi che siete anche dei giganti in quanto esseri pensanti e coscienti, fate parte della comunità di esseri simili cui spetta dare significato, e persino esistenza, all’universo che li ospita (A. Aguirre, Zen e multiversi, Raffaello Cortina, Milano 2020, p. XV. 415).

    Nello stesso capitolo si è altresì detto che già alcuni decenni fa il matematico e cosmologo Barrow aveva dimostrato come l’enorme età dell’universo e la sua estensione smisurata fossero le dimensioni necessarie affinché, in una parte minuscola di esso, si potesse manifestare la vita. Una forma di vita dotata di coscienza.
    Non è perciò casuale che la terra si sia formata circa dieci miliardi di anni dopo il big bang, insieme peraltro a Venere e Marte. L’emersione della vita sulla Terra ha seguito un percorso affatto particolare, al cui inizio vi è la comparsa delle sue forme più elementari, come i composti prebiotici (aminoacidi, nucleotidi, ecc.) che hanno potuto svilupparsi perché in quel tempo sulla terra non vi era ossigeno, che per essi è un potentissimo veleno. È stato grazie al successivo sviluppo dei cianobatteri che si è la formata l’atmosfera, necessaria a consentire lo sviluppo sulla terra di forme più evolute di vita. Infatti, come ha dimostrato la microbiologa Lynn Margulis le condizioni atmosferiche, che differenziano la terra dagli altri pianeti del sistema solare, sono la conseguenza dell’origine e dello sviluppo della vita sulla Terra: «è la vita, infatti, che ha cambiato totalmente l’atmosfera della Terra, mentre gli altri pianeti che ne sono privi oggi ci appaiono spenti, sterili, “morti”» (L. Margulis, Come nasce la vita, in L. Petra (a cura di), “La narrazione delle origini”, Laterza, Bari, 1991, p. 31.416). Questa concezione ribalta quella di senso comune, secondo cui sarebbero state le condizioni atmosferiche caratteristiche della Terra a rendere possibile la vita su di essa. Si può perciò affermare che è la vita che ha creato in alcuni miliardi di anni le condizioni necessarie allo sviluppo delle sue forme superiori.
    Tutto questo ci dice che l’universo e un suo piccolo pianeta avevano lo scopo di consentire alla vita di emergere sino alla sua forma più alta, quella cosciente.
    Il cammino dell’uomo alla conquista dell’intelligenza e della coscienza può essere considerato l’ultimo tratto di questo processo iniziato oltre tredici miliardi e ottocento venti milioni di anni fa.
    Rispetto all’età della terra, che è di circa quattro miliardi e mezzo di anni, la comparsa dell’uomo su di essa si può considerare recentissima, essendo avvenuta quattro milioni di anni fa. Si deve perciò convenire che la vita per comparire nella sua forma più evoluta sul nostro pianeta ha impiegato quasi quattordici miliardi di anni e l’uomo moderno, aut sapiens sapiens, ne è il risultato. La vita nell’universo ha seguito un percorso complesso, in cui, come si è visto nel decimo capitolo, la probabilità che le varie tappe lo hanno scandito fosse dovuta al caso era praticamente inesistente. Ciò significa che anche l’evoluzione dell’uomo ha seguito un disegno intelligente che può essere attribuito o a un Creatore, o, se si rifiuta questa ipotesi, a una finalità intrinseca dell’evoluzione dell’universo.
    La generazione della vita in generale e di quella cosciente umana in particolare sembra essere uno degli scopi, forse il più importante, della nascita e dell’evoluzione dell’Universo e della Terra.
    Tutto questo ha di fatto invalidato almeno due delle tre cause che secondo Nietzsche, «in quanto stato psicologico», hanno invitato nella vita della nostra società l’ospite inquietante.

    Come difendere la centralità dell’umano nella vita dell’universo

    La consapevolezza della centralità dell’umano nel cammino che ha condotto l’universo a generare la vita, non mette però al riparo dal pericolo che gli individui umani corrono di cadere, magari per un non breve periodo di tempo, sotto il dominio di un superorganismo. Per prevenire questa possibilità, che è stata illustrata nell’undicesimo capitolo, è necessario che le persone utilizzino alcune loro caratteristiche apparentemente deboli, soprattutto se confrontate con il potere posseduto dai superorganismi. Ma come il racconto biblico della lotta tra Davide e Golia insegna, un’arma semplice, debole e povera come la fionda, può sconfiggere un gigante dotato, oltre che di un’enorme forza personale, degli strumenti di guerra più potenti e sofisticati di quell’epoca.
    La fionda che gli esseri umani possono usare contro il gigante, metafora del superorganismo, è semplicemente l’insieme delle azioni descritte negli ultimi capitoli:
    - educare una coscienza in grado di integrarsi con l’inconscio e aprirsi alla trascendenza divenendo nell’esistenza delle persone un centro sacro del mondo;
    - educare a vivere il conflitto degli opposti. Conflitto che è sempre presente nella cultura e nelle dinamiche sociali, riconoscendolo come luogo generativo dell’umano;
    - riscoprire l’individualismo e l’olismo autentici, sconfiggendo sia l’individualismo esasperato che le forme olistiche totalitarie;
    - Imparare a far convivere l’individualismo e l’olismo, ovvero la parte e il tutto, attraverso la costruzione di reti e di organismi sociali che siano una forma di interumano autentico.

    Come si è visto, ognuna di queste azioni si sviluppa e articola in un insieme complesso di azioni particolari, che sono semplicemente quelle che la sapienza umana ha sviluppato al fine della costruzione di un umano individuale capace di vivere sia la solitudine della sua interiorità che la compagnia feconda dell’interumano. D’altronde l’Io che fonda l’individuo non può esistere senza il Tu ed entrambi senza il noi.


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