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    Teologia narrativa

    Harald Weinrich


    In quei giorni Gesù di Nazareth radunò intorno a sé pubblicani e peccatori e raccontò loro una storia. Così parlò: C'era un tempo un uomo che aveva cento pecore. Un giorno una pecora si smarrì. Allora l'uomo richiamò il gregge e andò in cerca della pecora smarrita. Dopo lunghe ricerche la trovò, se la mise in spalla e la ricondusse al gregge.
    Tra i presenti c'era anche una giovane donna che aveva con sé un sacchetto pieno di monete. Mentre Gesù narrava la sua storia, una moneta cadde dal sacchetto e rotolò per un tratto. La donna si alzò e rincorse la moneta fino a raccoglierla. Gli altri presenti, con uno sguardo di biasimo, dissero a Gesù: «Maestro, di' a questa donna di non disturbare il nostro ascolto».
    Gesù sorrise e raccontò loro un'altra storia. Così parlò: C'era anni fa una donna che aveva dieci dramme. Un giorno una dramma andò smarrita. La donna cercò in tutta la casa, in ogni angolo, fino a che non ritrovò la moneta persa. E felice chiamò a sé le sue amiche e vicine e raccontò loro della dramma ritrovata con gran gioia.

    Che cosa ho fatto? Ho raccontato una storia della Bibbia e, nel narrarla, l'ho modificata («riraccontata»). Modificandola di proposito, temo tuttavia di aver suscitato un doppio scandalo. Il primo: ho prodotto in un certo senso un vangelo apocrifo. Come è noto, infatti, la parola di Gesù è già stata annunciata una volta per tutte e non se ne può modificare neppure una virgola. Il secondo scandalo: ho raccontato una storia in una pubblicazione scientifica [1], una sede in cui non si raccontano storie, si forniscono argomentazioni. Se diamo, per esempio, uno sguardo a un'annata della rivista scientifica «Concilium», troviamo che nel 1970 ha dedicato un numero al tema «Storia ecclesiastica in trasformazione», e all'interno già i titoli dei contributi bastano a suggerire che non si tratta di racconti, ma di ragionamenti: Storia ecclesiastica e nuovi orientamenti della scienza storica; Verso un riscatto dallo storicismo e dal positivismo; Nuovi orizzonti per la storia ecclesiastica?; La storia della Chiesa come «locus theologicus»; La storia come chiave indispensabile per interpretare le decisioni del magistero. Si deduce quindi facilmente che in una pubblicazione scientifica la mia storia rappresenta una rara eccezione. E io stesso ho appena terminato di raccontare la mia storia che già comincio ad argomentare...
    Ma per quale motivo non può essere consentito di raccontare una storia in una rivista teologica, quando Gesù di Nazareth ha trascorso buona parte della sua vita pubblica a raccontare storie? O meglio: ne raccontava di sue e ne riportava altre che aveva appreso. La storia della pecorella smarrita, per esempio, non l'aveva inventata lui, ma l'aveva trovata narrata dal profeta Ezechiele (Ez 34, 5-6), che non sappiamo con certezza se ne fosse stato l'ideatore. Gesù tramanda questa storia raccontandola. Se si confrontano tra loro le due storie, non si riscontra una concordanza letterale. Ripetere non significa quindi riprodurre alla lettera. Variare il testo («riraccontare») nel ripetere è, entro certi limiti, consentito e conforme al genere. Subito dopo il testo biblico (Lc 15) troviamo così la storia della moneta perduta. L'evangelista suggerisce l'esistenza di un nesso di tradizione fra questa storia e quella della pecorella smarrita. La storia della moneta perduta può dunque essere considerata un adattamento, che traspone il racconto della pecorella smarrita, nato in un sistema economico premonetario (la pecora rappresenta infatti per i nomadi l'unità dí scambio normale e normativa), nella forma letteraria corrispondente a un ordine economico basato sulla moneta. In un'ottica linguistica, si tratta del frequente fenomeno di modernizzazione d'una metafora, come variante narrativa all'interno di uno schema tradizionale relativamente fisso.
    Adesso ho argomentato un attimo sul piano linguistico e, se mi riesce ancora di difendere questa tesi metaforologica da tutti i tentativi di falsificazione, vuol dire che sono state rispettate le regole del gioco scientifico. Habemus veritatem. Continua tuttavia a preoccuparmi la questione se la stessa verità non sia già contenuta nella storia modificata che ho raccontato in principio, nonostante quella storia io l'abbia in parte inventata. Eppure la storia che Gesù di Nazareth narra nel vangelo di Luca è, sia nella sua variante premonetaria che in quella monetaria, una storia inventata, una parabola. Ma a nessuno viene in mente di ritenerla, per questo, non vera. Il significato del racconto non risente della sua mancanza di effettività storica. E nemmeno ricordo di aver mai trovato, leggendo la Bibbia, passi in cui i discepoli o altri presenti, dopo aver sentito una storia da Gesù, gli abbiano poi chiesto se essa si è davvero svolta in quel modo. Né dalle domande dei discepoli, né dalle risposte del Maestro si evince un interesse storico per la verità dell'accaduto, nel senso moderno del termine (Leopold von Ranke: «il fatto così come è accaduto»).
    Non riesco perciò a fugare da me il sospetto che in ambito teologico la questione della storia nella sua nuda forma venga forse posta in maniera sbagliata. La tradizione biblica insiste primariamente sul problema della narrazione. Buona parte dei testi biblici considerati canonici, ma anche i testi orali o scritturali della dottrina cristiana sono racconti. Nell'Antico come nel Nuovo Testamento si trovano anche testi che non hanno natura narrativa: leggi, istruzioni morali, prescrizioni igieniche, lettere di esortazione, lodi, ringraziamenti e altro, ma certamente non esagero quando dico che i testi più importanti, i più rilevanti in senso religioso, sono dei racconti. Gesù di Nazareth ci viene incontro soprattutto come persona raccontata, spesso anche come narratore narrato, e i discepoli appaiono come suoi ascoltatori, che a loro volta ripetono e adattano a voce o per iscritto i racconti ascoltati. È così che quei racconti sono giunti fino a noi, e quando per esempio raccontiamo ai nostri bambini le storie della Bibbia (non alla lettera, mi auguro!), ci colleghiamo a nostra volta a una tradizione narrativa ininterrotta. La comunità cristiana è una «comunità della narrazione», una definizione, questa, che non intende essere esaustiva. Con ugual diritto, si può dire per esempio: la comunità cristiana è una comunità di commensali. Le dile definizioni non sono poi così distanti: in tutti e due i casi si sta seduti insieme in una cerchia, con il Maestro al centro, come in Leonardo.
    Dovremmo immaginarci la cerchia narrativa della comunità apostolica nel modo più concreto possibile. Gli apostoli e i discepoli, che dobbiamo immaginare sempre presenti, formano il gruppo di ascoltatori più stretto, ma la cerchia non è chiusa ad altri ascoltatori. Gesù racconta in pubblico nello stesso modo che ancora oggi possiamo osservare presso altre culture tra i narratori pubblici di storie: anche quando, come spesso faceva Gesù, si finisce con un'interpretazione, le storie non si possono dire concluse, ma continuano dopo che la cerchia si disperde, perché vengono ripetute e adattate dai presenti. I racconti, infatti, non mirano a essere considerati veri o falsi, ma a essere quanto più possibile ricchi di significato. Le storie più importanti sono rivolte alla fede (fides); esigono dall'ascoltatore che egli stesso divenga artefice della narrazione immedesimandosi negli eventi narrati. In questo processo di ricezione e immedesimazione l'interpretazione esplicita della storia può essere lasciata libera, così che anche per i poveri di spirito, se hanno buona volontà, le storie non siano narrate invano. Che poi Gesù, come spesso apprendiamo dalle descrizioni della Bibbia, interpreti a posteriori per i suoi discepoli le storie presentate («Quel buon pastore sono io...»), è un arcanum, cioè un privilegio eccezionale per quei primi ascoltatori eletti, che così già da giovani (da «discepoli») ricevono quella disposizione che sorge altrimenti solo dopo aver ascoltato moltissime storie alla fine di una lunga vita, con la saggezza della vecchiaia. Perché il tempo stringe di fronte ai cambiamenti del mondo. E allora questi giovani possono diventare prematuramente anziani: sono i presbyteroi, i sacerdoti.
    Nel succedere a Cristo, il narratore narrato di Nazareth, ci si potrebbe immaginare un cristianesimo che tramanda se stesso di generazione in generazione in una catena infinita di narrazioni: fides ex auditu. Eventuali cambiamenti delle persone e dei fatti narrati rientrerebbero in toto nei limiti della tolleranza narrativa. Non infrangerebbe dunque le leggi della narratività una storia che in principio (ma esiste poi davvero un principio nella tradizione narrativa?) tratti dell'infanticidio a Betlemme, e che venga poi riraccontata come storia della persecuzione degli ebrei nel Terzo Reich o della guerra in Vietnam. Ma questa è un'altra cosa, obietterà forse qualcuno. Certo, si tratta di altre storie, ma proprio con queste variazioni una cerchia narrativa può passare da una storia all'altra. A una storia raccontata non fa necessariamente seguito una storia del tutto uguale o del tutto diversa, ma – come nel Decamerone di Boccaccio – un'altra storia in qualche modo collegata, il cui frutto non può esaurirsi immediatamente nel confronto di «vero» e «falso», ma che può comunque collocarsi nel graduale accumulo di esperienze di vita e di salvazione che procede verso la saggezza secolare.
    La comunità cristiana, tuttavia, non è rimasta una comunità della narrazione. Nel contatto con il mondo ellenico ha smarrito la sua innocenza narrativa. Nella cultura greca, infatti, il racconto (il mythos) era da tempo sottomesso al ragionamento (il logos). Negli scritti platonici possiamo osservare abbastanza bene la subordinazione del mitologo tra i filosofi dell'argomentazione, sebbene Platone abbia cercato di conferire al mito un certo nuovo splendore, uno splendore però tutto filosofico. Si è trattato tutto sommato di un'azione inutile, e da allora i filosofi si sono negati con crescente rigore alla narrazione. Certo, Agostino racconta la sua vita come confessione continua, Cartesio racconta il suo metodo di pensiero, Pascal cerca il Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe (dunque, il Dio narrato), Rousseau racconta delle contraddizioni della natura umana e Nietzsche della saggezza di Zarathustra. Ma dall'altra parte troviamo le schiere degli altri filosofi, i quali credono che loro compito sia quello di ragionare e discutere, disquisire e teorizzare, e nessun incentivo da parte della comunità scientifica potrebbe indurli a consentire che una storia sia un racconto. Infatti, la narrazione di storie e, anzi, già solo l'ascoltarle è ritenuto nella nostra società un'occupazione non scientifica.
    Ciò colloca ora la teologia e alcune altre scienze che qui non elenco in una posizione incresciosa. La teologia ha infatti fissato un corpus di testi più o meno canonico, che per una parte ampia e significativa consiste di storie. Stupisce che questa scienza non veda dinanzi a sé compito più urgente che quello di trasformare le storie tramandate in non-storie nel modo più veloce e più completo possibile. Certo, per qualche tempo è parso che il lógos stesso fosse destinato a trasformarsi in una storia: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio...». In questo testo sono presenti tutti i segnali narrativi, proprio come in una storia, reale o fittizia. Ma il prologo di Giovanni resta sotto questo aspetto senza seguito. Non toccò al lógos di farsi narrazione, ma ai racconti biblici di farsi lógos. Non occorre che io descriva questo processo nel dettaglio, è lo stesso che conduce per esempio all'esistenza di riviste teologiche come «Concilium». Anche qui si testimonia della tendenza generale e secolare a escludere i contenuti «mitologici» della narratività dalla tradizione cristiana. Di ogni narratività? In questo le due grandi comunità religiose cristiane si differenziano un minimo. Di regola, la teologia protestante si allontana dai racconti ancora di più della teologia cattolica. Ma è strano: anche per i credenti che con maggior coerenza procedono in quest'azione «demitizzante» radicale permane un'eccezione eclatante, la narrazione dell'evento pasquale: «È risorto». Che cosa significa «un evento»? Chi è abituato ad ascoltare storie coglie subito il segnale narrativo: Evenit ut... 'accadde che...', accadimento, storia. La formula dell'evento pasquale diventa l'evento narrato par excellence, che riassume in sé tutti gli altri eventi narrati o narrabili. E tuttavia, questa vicenda centrale può far sì che tutti coloro i quali abbiano ascoltato una volta il racconto dell'evento pasquale e che, in questa loro qualità, attraverso l'annuncio pasquale «E risorto!» si facciano ancora riconoscere come membri della comunità cristiana, vengano da lì in avanti dispensati da quel momento dalla pretesa di tutti gli altri racconti. Al cristiano basta raccontare solo l'evento pasquale, e nessun altro evento biblico: la dose minima di narratività in un'epoca post-narrativa.
    C'è però ancora da dire più in particolare quali forme letterarie possono valere come racconti nella tradizione cristiana. Si tratta in prima linea di quelli – veri o fittizi – che possono essere mediati come racconti anche al genere letterario di oggi grazie a determinati segnali testuali, come, in particolare, i tempi narrativi o certi avverbi macrosintattici; un buon esempio è quello della storia del figliol prodigo: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre...». Vogliamo inoltre includere nella nozione di racconto anche un modo di parlare con cui – per esempio in Luca – si narra della pecorella smarrita e della dramma perduta («Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto...?»). Tale forma si può definire narrazione ipotetica, dal momento che gli eventi vi vengono delineati come possibili. Infine, il concetto del narrare deve essere svincolato tanto dalla verità quanto dal passato. Alla domanda se sia possibile raccontare un evento prima che sia accaduto, gli studi narrativi hanno dato risposta generalmente negativa. Almeno per la teologia, invece, la risposta deve essere nettamente affermativa. Le profezie del corpus biblico possono dunque considerarsi come dei canovacci di eventi non ancora accaduti, dunque una sorta di pre-racconto. Il compimento (implementum) della profezia arricchisce poi quel canovaccio con elementi che vengono a loro volta riraccontati insieme alla profezia che era stata pre-raccontata. Com'è noto, strutture tipologiche di questo genere, che vanno a concatenare narrazioni diverse, sono state costitutive dell'idea di storia del cristianesimo delle origini, finché non è sopraggiunto lo storicismo profano di età moderna a rimuoverle dalla coscienza dei credenti [2].
    Fin qui – ed è il terzo motivo di scandalo – ho svolto le mie riflessioni più o meno come se non avessi mai sentito parlare di storiografia. Adesso intendo tenere espressamente conto della realtà di questa scienza, e questo sposta di un minimo la questione della narrazione. Di un minimo, non altro: anche la storiografia, infatti, consiste, per una parte irriducibile, di racconti. History tells stories, scrive Danto. È una vera narratio (Bodin) [3]. La storiografia – ed è questo a conferirle il pathos – vuole però raccontare solo storie vere (e, com'è naturale, di rilevanza sovraindividuale). Ha concentrato perciò buona parte del suo potenziale di riflessione sulla questione di come trovare la verità di una storia e di come preservarla contro ogni falsificazione nel corso del processo di trasmissione.
    La teologia del cristianesimo non ha saputo sottrarsi al prestigio della storiografia scientifica, un prestigio che fino all'Ottocento è andato costantemente aumentando. Anch'essa si chiede quindi con insistenza crescente quale sia il valore di verità delle sue storie. Si può discutere se all'origine non ci sia il dubbio sulla resurrezione, cui non viene data una risposta semplicemente narrativa, ma «storicamente» avvalorativa: «È davvero risorto!». È anche possibile scorgere l'origine del legame tra teologia e storiografia là dove i teologi cristiani consentono l'impiego della critica testuale ai racconti biblici. Come che sia, oggi nella teologia domina l'opinione chiara e pressoché incontestata che i racconti biblici – posto che davvero se ne debba poi parlare – possono comunque considerarsi ancora racconti se è possibile dimostrare che si tratta di storie vere con i metodi riconosciuti della storiografia. Tale condizione, tuttavia, non è facile da soddisfare, tanto più se si parla di trascendenza. E così, nelle sue battaglie di ripiegamento, la teologia preferisce spesso ricorrere a storie periferiche, che possono andare più facilmente incontro ai principi metodologici della storiografia. Si occupa dunque (cito da un saggio teologico) di storia della forma, storia della redazione, storia della tradizione, storia dell'esegesi, storia della ricezione, storia della Chiesa, storia della teologia, storia della religiosità, storia della ricerca: tutto questo per dimostrare la «piena storicità del cristianesimo» [4].
    Ma, ahimè, la storiografia moderna dubita essa stessa del proprio metodo e si interroga criticamente della sua «capacità teorica». È risaputo – e Reinhart Koselleck lo ha descritto e documentato in dettaglio – che dalle storie (più o meno vere) degli storiografi antichi nasce la storia quale singolare collettivo (historia ipsa), e che, complice l'equivoco tra storia narrante e narrata, ogni possibile ipostasi di soggetti storici va a occupare il posto del narratore lasciato in tutta fretta libero dagli storici [5]. Anche gli storici moderni, infatti, fanno di tutto per dover raccontare il meno possibile. La grande narrazione storica di Golo Mann, il Wallenstein (1971) rappresenta un'eccezione sublime, probabilmente una delle ultime che confermano questa regola.
    Se tuttavia non solo le scienze argomentative, ma anche quelle storiografiche disdegnano sempre più la narrazione, occorre chiedersi se nella società di oggi, a parte la frettolosa trasmissione di informazioni, esista ancora un luogo indiscusso del racconto. A questo interrogativo Walter Benjamin e Theodor W. Adorno hanno risposto di no, diagnosticando in generale il declino della narrazione [6]. E tuttavia: esiste ancora il genere letterario del romanzo, che come in passato detiene una posizione forte sul mercato librario. E poi Ceci n'est pas un conte di Diderot e Schluβ mit dem Erzählen! ('Finiamola con il racconto!') di Scharang sono in fondo titoli di racconti. Possiamo dire che oggi esiste una vasta letteratura narrativa, ma che questo tipo di letteratura ha uno stile di scrittura caratteristico, nell'ambito del quale la narrazione viene accompagnata da una metanarrazione. Quando dunque gli autori contemporanei narrano, il più delle volte sottopongono il processo stesso del narrare a una riflessione teorica, e di questa riflessione fanno l'oggetto della loro narrazione. La narrazione naïve si trova oggi quasi esclusivamente nella letteratura di consumo. Anche la letteratura d'«invenzione» ha evidentemente smarrito la sua innocenza narrativa.
    Passo a concludere. La santa o insana alleanza tra la teologia e le scienze, in particolare la storiografia, non può essere rescissa sic et simpliciter. Una teologia puramente narrativa è ormai inimmaginabile. Ma alla critica teologica disciplinare e interdisciplinare può essere comunque concesso di mettere in dubbio l'indiscutibilità di questo antico legame con la storiografia. In particolare, non si capisce bene perché i teologi e gli storici si fissino come per magia sul nodo della verità di una storia. L'effettività non è condicio sine qua non perché una storia ci riguardi, ci «colpisca». Anche le storie fittizie possono esser recepite in un modo che ci tocchi. Proprio come succede sentendo una storia davvero accaduta, questo coinvolgimento può indurre quelle azioni devote che si impongono a quanti vogliono «imitare Cristo». Il cammino della dottrina non è dunque indispensabile e, anzi, sembra piuttosto una deviazione se si pensa che una teologia narrativa, ossia pratica («politica»), ha a che fare con delle azioni. In ogni caso, la teologia non potrà diventare così pratica da sciogliere il vincolo con le scienze teoretiche. Ma anche in quanto scienza teoretica essa non deve rinnegare, per poca fede, i racconti della sua tradizione. Già una teoria della narratività costituirebbe per questa scienza un ampio programma di ricerca. Così fornita, potrebbe tra l'altro offrire aiuto interdisciplinare a diverse scienze, storiografia inclusa, anche se nemmeno quest'ultima si è finora in alcun modo interessata delle condizioni della sua stessa narratività. Anche la più sensata delle teorie della narratività va però considerata necessariamente inadeguata rispetto a una semplice storia raccontata o riportata, che induce l'ascoltatore o il lettore a farsi «artefice di parola». Quando la teologia pastorale conosce storie come queste, sceglie la parte migliore. Lo sapeva d'istinto Giuseppe Roncalli quando, avvicinandosi a un gruppo di visitatori ebrei, li salutò con queste parole: «Io sono Giuseppe, vostro fratello». Era la rievocazione di una storia che egli, ventitreesimo papa romano di nome Giovanni, condivideva con i fratelli giunti da Israele. Questo modo di suscitare un coinvolgimento fraterno fece sì che quel giorno fosse ricostituita una comunità narrativa molto antica.

    NOTE

    1 Faccio qui riferimento alla rivista «Concilium»», sede in cui queste pagine comparvero originariamente nel 1973. Nello stesso anno avevo già avuto occasione di presentare questo lavoro nel corso di un convegno presso il Zentrum für interdisziplinàre Forschung dell'Università di Bielefeld. L'intervento produsse nella teologia cattolica e protestante un efficace stimolo teorico-pragmatico protrattosi sin dopo il 2000. L'aggiornamento più recente al riguardo si trova in W. Engemann e F.M. Lütze, Grundfragen der Predigt. Ein Studienbuch, Leipzig, Evang. Ver1.-Anst., 2006, pp. 243-251.
    2 Sulla tipologia cfr. il classico E. Auerbach, Figura, in Studi su Dante, trad. it. Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 176-227.
    3 A.C. Danto, Filosofia analitica della storia, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1971; J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, Amsterdam, 1650 (rist. Aalen, Scientia, 1967), cap. I.
    4 Cfr. H. Peukert, J.B. Metz e T. Rendtorff (a cura di), Die Theologie in der interdisziplinaren Forschung, Düsseldorf, Bertelsmann, 1971, p. 68.
    5 R. Koselleck, Historia magistra vitae, in Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, trad. it. Genova, Marietti, 1986, pp. 30-55. Cfr. anche R. Koselleck e W.-D. Stempel (a cura di), Geschichte – Ereignis und Erzdhlung, München, Fink, 1973 (Poetik und Hermeneutik V).
    6 W. Benjamin, Il narratore (1936), trad. it. in Opere complete. VI. Scritti 1934-1937, Torino, Einaudi, 2004, pp. 320-342; Th.W. Adorno, La posizione del narratore nel romanzo contemporaneo (1954), trad. it. in Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, pp. 38-45.

    (da: Piccole storie sul bene e sul male, Il Mulino 2009, pp. 25-35)


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