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    Teologia e antropologia

    della riconciliazione

    Riconciliarsi con Dio e con il mondo

    Carmine Di Sante


    1. Terminologia della riconciliazione

    È necessario riscoprire il significato del termine «riconciliazione», la sua ricchezza, la sua bellezza, la sua carica di novità, di speranza, di utopia... È necessario farlo perché le parole si «impolverano», come i quadri, e non si lasciano più guardare in faccia. Ciò avviene specialmente per i termini religiosi, come questo di «riconciliazione»: una parola/simbolo in cui si condensa un'intera concezione della realtà; una di quelle parole «gomitolo» che hanno bisogno di essere dispiegate per essere adeguatamente comprese. Cercheremo di penetrare nei meandri di questa parola in tre riprese: 1. partendo da un'immagine; 2. traducendola concettualmente; 3. facendone un'interpretazione religiosa.

    1.1. L'immagine del mosaico
    Si immaginino tante tessere di un mosaico o puzzle sparse per terra senza più ordine e significato; molti vi passano accanto; alcuni neppure sospettano che quei pezzi formavano un disegno originario e li utilizzano secondo i loro scopi funzionali; solo alcuni lo intuiscono e si danno da fare per ricomporre quei frammenti sparsi. La riconciliazione (secondo una probabile origine dalla radice ri-cum-calare: ri-chiamare a stare con, insieme) è il processo che consiste nel rimettere al giusto posto i frammenti di un insieme precedentemente sparsi. L'io, le famiglie, i gruppi, la società, la chiesa, tutto ciò che noi incontriamo è come un mosaico infranto che ciascuno di noi è chiamato a ricomporre. Nel greco neotestamentario i termini più usati sono apokatastasis e katallassò. Il primo (dalla radice apo-kata-istemi) significa: rimettere in piedi un qualcosa precedentemente caduto. Troviamo questo termine in At 3,20: «convertitevi... affinché la faccia del Signore mandi i tempi della consolazione e invii il messia Gesù... che deve restare in cielo fino alla apokatastasis pantón (la restaurazione/riconciliazione di tutte le cose)». Il secondo - ed il più usato - è katallassò e indica una situazione nuova, altra rispetto a quella immediatamente precedente.

    1.2. Il significato dell'immagine
    Il mosaico è l'immagine del senso, della vita sensata; di un'esistenza non abbandonata al caos né al proprio sforzo, ma collocata in un contesto di bellezza, di bontà, di significato. L'immagine del mondo non come un deserto, ma come una patria ospitale, in cui all'uomo è dato di vivere nell'armonia. Il senso dei miti di creazione e dei riti che l'attualizzano è tutto nell'affermazione di questa fondamentale bontà dell'esistente. Il loro scopo non è di spiegare l'esistenza, ma di dichiararne il valore originario; non dicono cosa il mondo è in se stesso ma cosa è per l'uomo. L'eco di questa armonia originaria (originaria non in senso cronologico ma come principio qualitativo) più che la voce della ragione è quella dell'utopia, del sogno, dell'immaginario e del desiderio. Il mosaico infranto è l'immagine dell'armonia infranta, della mancanza di senso, del senso spezzato, dell'angoscia, del quotidiano duro, chiuso, vuoto, insensato, caliginoso, noioso. In una parola: l'immagine del negativo esistenziale, che scava nel cuore insoddisfazione e inquietudine. Il cupo spessore di questa insensatezza che attraversa il quotidiano viene così descritto da un poeta come Corrado Govoni (1884-1965):

    Sempre per l'occhio queste grigie cose
    e per l'udito i suoni abituali,
    sempre nell'orto le sbiadite rose
    o i grandi tulipani feudali.
    Sempre l'ore monotone e insidiose
    coi disinganni e coi più crudi mali,
    e le stesse figure misteriose
    ne le stole e nei mistici piviali.
    Sopra le sepolture i noti fiori
    sempre, e le nere epigrafi benigne
    tra i ceri spenti e le consunte immagini,
    e nelle fiale insipidi liquori
    quotidiani o tisane aspre e amarigne...
    O noia interminabile di vivere!

    L'uomo vive in una realtà grigia che né la musica (suoni abituali), né la bellezza del creato (sbiadite rose), né la successione del tempo (l'ore monotone e insidiose), né la religione (le stole e i mistici piviali), né la morte (tra i ceri spenti), né la scienza medica (nelle fiale insipidi liquori...) riescono a trasfigurare. Riassumendo: il mosaico infranto è la metafora della banalizzazione, dell'alienazione, dell'assurdo esistenziale. I due tipi di passanti di fronte al mosaico infranto rappresentano le due estreme possibilità dell'uomo di fronte al senso: o questo non c'è, e ciò che è dato è che ciascuno se lo costruisca singolarmente e prometeicamente, rinunciando alla sua oggettività verace e luminosa; o questo c'è, e allora va cercato nonostante e al di là dell'assurdo, contestando così all'assurdo il diritto dell'ultima parola. Là dove ci si impegna, dove non ci si rassegna alle forze del caos e del male, dove, nonostante tutto, si ha il coraggio di lottare e sperare, i frammenti del mosaico infranto vengono ricomposti in unità, anche se secondo un disegno che può non essere quello originario. Il nuovo può non riprodurre il primo, ma del primo diviene comunque traccia e nostalgia. Ciò vuol dire, al di fuori della metafora, che la riconciliazione, prima che fenomeno ecclesiale e sacramentale, è esperienza quotidiana e universale; la sua logica, iscritta e alimentata negli strati più profondi della coscienza umana, testimonia delle forze positive dell'uomo e delle sue possibilità di trionfo su quelle distruttive.

    1.3. La riconciliazione e l'esperienza religiosa
    L'esperienza religiosa non soltanto favorisce la riconciliazione ma è, per intima natura, esperienza riconciliatrice; non è un tema tra i tanti ma l'unico tema; essa è la risposta radicale al bisogno di riconciliazione/integrazione dell'uomo; è, in profondità, reale riconciliazione/integrazione. Per meglio capire questa affermazione è necessario ricordare i tre poli intorno ai quali si struttura l'esperienza religiosa e la teologia che ne costituisce una lettura e un'interpretazione.
    Il primo polo è quello della creazione: «Dio vide che era cosa buona». Questo ritornello, con cui la Genesi scandisce il racconto delle origini, fissa lo statuto fondamentale e la parola prima dell'esperienza religiosa. L'uomo di fede intuisce e sa che all'origine di ogni cosa c'è lo sguardo creativo di Dio: «Dio vide che ogni cosa era buona»; si tratta di un vedere costitutivo e non constatativo. Le cose sono buone perché guardate da Dio; grazie a questo sguardo il mondo assume i tratti dell'Eden che nutre e rallegra l'uomo con i suoi frutti, le acque e la compagnia degli esseri viventi (cf Gn 2,8-20). La creazione è l'affermazione della «edenicità» dell'esistente, del suo carattere di «mosaico», cioè della sua fondamentale bontà e della sua pregnanza di significato oggettivo; è la trascrizione, a livello mitico/simbolico, della vittoria dell'ordine sul disordine, del cosmo sul caos.
    Il secondo polo è quello della caduta o del peccato: «allora si aprirono i loro occhi e si accorsero di essere nudi» (Gn 3,7): con queste parole l'autore sacro traduce la consapevolezza, maturata in lunghi anni di riflessione, della profonda alienazione della vita umana. Nonostante la certezza di senso garantita dall'amore creatore, l'uomo biblico, immagine dell'uomo di tutti i tempi, se ne sente privato e estraniato; con la stessa lucidità con cui ne afferma l'esistenza ne confessa pure - sul piano dell'esperienza - l'assenza. Ma non si limita a questa constatazione; più che registrarlo come dato ne offre una ragione religiosa: l'uomo è escluso dalla casa, del senso perché non acconsente al progetto divino; il giardino dell'Eden è soffocato dagli spini e dai cardi a causa del suo peccato di disobbedienza. Per riprende-re l'immagine precedente: l'uomo biblico ha la lucida consapevolezza che il mosaico dell'universo è precipitato nel disordine e che tale caduta è dovuta alla responsabilità umana.
    Il terzo polo è quello noto come redenzione: «Il Signore disse: ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido... sono sceso per liberarlo dalla mano d'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso» (Es 3,7-8). Il libro dell'Esodo trascrive e testimonia l'intuizione/ certezza di Israele (e dell'umanità) che il caos non è l'ultima parola dell'uomo e che resta sempre aperta la possibilità di dominarlo e cancellarlo. L'immagine di Dio che osserva la miseria del suo popolo esprime con forza che la situazione di alienazione in cui l'uomo è precipitato non è irreversibile e strutturale e che da essa si ha il potere di uscire recuperando la bellezza e lo splendore del primo mattino della creazione. È qui il significato gioioso della redenzione; essa dice che il mosaico dell'universo - il senso - può essere ricomposto, ri-con-ciliato e che l'uomo può tornarvi ad abitare come in sua casa ospitale.
    Questi tre poli della creazione, della caduta e della redenzione più che valore cronologico hanno valore teologico; più che uno spazio temporale disegnano una struttura esistenziale. E vero che, rispetto alla caduta e alla redenzione, la creazione è prima: prima della caduta e prima della redenzione. Ma il «prima» della creazione dice soprattutto l'ordine oggettivo stabilito da Dio, offerto all'uomo ma non dipendente dall'uomo. La caduta non dice che l'uomo in un determinato periodo abbia peccato, ma che l'uomocostitutivamente e da sempre è nella possibilità di accettare o rifiutare la proposta divina e che di fatto l'ha rifiutata e la rifiuta. La Bibbia è la trascrizione lucida, continua e implacabile, del no di Israele e dell'uomo alla proposta divina e del degrado della vita e dell'Eden, del suo trasformarsi in inferno. Ogni volta che l'uomo vive al di fuori della progettualità divina, la luminosità dell'Eden cede il posto all'oscurità e alla violenza della giungla. Il polo della redenzione dice comunque che questa situazione non è disperata: che all'uomo è data ogni volta la possibilità di ricominciare daccapo, di tornare allo splendore edenico, di ritrasformare la giungla in Eden; che può «convertirsi» (shub/metanoia/poenitentia/pentimento), tornare al punto di partenza. Di qui l'importanza della conversione: tema centrale della Bibbia, del Giudaismo (si pensi alla festa di yom kippur) e del Nuovo Testamento. Di qui l'inizio della predicazione di Gesù: «convertitevi...». Contro l'irreversibilità del male, del caos e della storia condannata alla maledizione, la conversione tiene desta e risveglia ogni giorno la possibilità della creazione come Eden; essa è la voce della verità e dell'utopia custodita nel cuore dell'oggettivo prima che in quello del soggettivo.

    2. Teologia della riconciliazione

    Il mosaico infranto è l'immagine di alienazione nella quale l'uomo - prima ancora di prenderne coscienza - si trova precipitato. Ma qui sorge una domanda cruciale: è possibile all'uomo disalienarsi? E possibile ricomporre l'unità infranta o si tratta di uno sforzo illusorio, di un desiderio velleitario? Non è l'uomo come la cicogna della parabola di rabbi Nachman di Kossou? «Ad una cicogna che era caduta nel fango e non riusciva più a liberare le zampe venne un'idea: non poteva utilizzare il suo lungo becco? Così ficcò il becco nel fango e, appoggiandosi tutta su di esso, riuscì a tirar fuori le zampe. Ma a che serviva? Le zampe erano fuori, ma il becco era rimasto conficcato. Allora la cicogna ebbe un'altra idea. Conficcò le zampe nel fango e tirò fuori il becco. Ma a che serviva? Ora le gambe erano conficcate nel fango...» [1]. L'uomo, come la cicogna della parabola, è impossibilitato a liberarsi da solo, è incapace di disalienarsi essendo la sua situazione di alienazione irreversibile e radicale. Questa è la prima affermazione incontrovertibile della letteratura neotestamentaria. Ma insieme a questa e da essa inseparabile eccone subito un'altra: Dio è colui che, in Gesù, offre all'uomo la possibilità di disalienarsi infrangendo - con una libera iniziativa di amore simile a quella della prima creazione - quel cerchio di male entro cui è irrimediabilmente precipitato. E soprattutto Paolo colui che elabora e articola, con forza e con originalità, i contenuti rivoluzionari di questa affermazione. Un testo particolarmente emblematico è 2Cor 5,18-20: «Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a Noi la parola della riconciliazione. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». In questi essenziali versetti Paolo annoda, in un intreccio non facilmente districabile, i quattro poli che rendono possibile la riconciliazione: Dio, l'uomo, Cristo e la chiesa.

    2.1. Dio come colui che si riconcilia
    Noi siamo per lo più abituati a pensare all'uomo che si riconcilia con Dio, a pensare alla riconciliazione come iniziativa dell'uomo. Per il Nuovo Testamento il fatto nuovo non è l'uomo che si riconcilia con Dio, ma Dio che si riconcilia con l'uomo. Il soggetto della riconciliazione non è - paradossalmente e sorprendentemente - l'uomo, ma Dio; e se si parla della riconciliazione dell'uomo quest'ultima non appare mai come iniziativa autonoma, ma esclusivamente come risposta alla prima. Cosa vuol dire che è Dio a riconciliarsi con l'uomo e non viceversa? Vuol dire che con il peccato è tutto veramente perduto, che con il peccato l'uomo «non è colui che vuole tornare a Dio senza riuscirvi ma colui che non può volere che se stesso» [2], che «l'impotenza dell'uomo non riguarda il piano esecutivo ma lo stesso ordine intenzionale» [3]. A causa del peccato l'uomo precipita in una situazione di irredenzione dalla quale non può oggettivamente più uscire. È quanto esprime l'immagine del mosaico frantumato. Un esempio più adeguato potrebbe essere questo della relazione rifiutata: una volta che una ragazza ha detto di no all'amore del suo ragazzo, non resta più nulla in suo potere per recuperarlo. La relazione può essere ristabilita solo da un nuovo atto di amore - che è insieme contemporaneamente anche un atto di perdono - del giovane rifiutato. E questi e non lei che ha il potere di riattivare quanto era stato definitivamente e irrimediabilmente perduto. Parlare della riconciliazione di Dio nei confronti dell'uomo peccatore significa allora parlare del suo perdono. Dio è il Dio che perdona: è questa la grande accentuazione neotestamentaria che Paolo, soprattutto nella Lettera ai Romani, non si stanca di cantare e di tematizzare. E se Dio è colui che perdona, a noi non è dato che essere sua «immagine e somiglianza», cioè essere a nostra volta uomini e donne che perdonano. Cosa significa perdonare? Significa ri-creare, significa ripetere il mattino della creazione, vincendo non più la violenza del caos ma quella della colpa. Più concretamente significa che lì dove sarebbe giusto dire no si trasforma quel no in sì; che lì dove sarebbe giusto andarsene si resta riproponendo daccapo il proprio amore; che lì dove il mondo irredento dovrebbe essere lasciato a se stesso, lo si assume di nuovo ricostituendolo. Perdonare significa spezzare la logica del rifiuto (ti rifiuto perché mi hai rifiutato) e nascere ad una nuova logica (la logica divina) che è la logica della perenne e insondabile compagnia: anche a chi rifiuta, anche al cattivo.

    2.2. L'uomo come colui che è nella condizione di riconciliarsi
    In 2Cor 5,20 Paolo scrive alla sua comunità in termini accorati: «vi supplichiamo, in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio». Alla riconciliazione di Dio con l'uomo segue - come momento secondo e come nuova possibilità - la riconciliazione dell'uomo con Dio. È a questo livello che si può e si deve parlare della conversione dell'uomo a Dio, del suo «tornare» a lui, del suo alzarsi e rimettersi in cammino verso la sua casa. È, vero che convertirsi significa tornare a Dio, ma a condizione che questo ritorno lo si intenda sollecitato e reso possibile prima ancora dalla riconciliazione antecedente di Dio con l'uomo e non come evento primo e originario.
    Parlando della conversione come ritorno a Dio è necessario intendere correttamente il senso di tale ritorno. Tornare a Dio non significa fare di Dio l'oggetto del proprio amore, in sostituzione o in alternativa all'amore per il mondo. Non si tratta di pensare o dire: «se fino ad oggi ho amato il mondo e le cose del mondo, da oggi in poi al posto del mondo e delle cose amerò di più Dio». Niente sarebbe più lontano dalla concezione della riconciliazione biblica di un modo di pensare come questo. Riconciliarsi con Dio significa in realtà tornare ad un rapporto di obbedienza con la sua volontà, con il suo progetto, con la sua intenzionalità, facendo di lui e non del proprio io il signore dell'esistenza umana. Ma parlare di obbedienza potrebbe essere riduttivo se non la si intende correttamente e soprattutto biblicamente. Obbedire a Dio non significa sottomettersi a lui in un rapporto mistico, interiore, acosmico, ma vivere nel mondo e con il mondo come Dio vuole, secondo la sua intenzionalità, cioè secondo giustizia. Ancora più propriamente: obbedire a Dio significa amare il prossimo come se stessi, in tal modo sostituendo all'amore per sé - come principio ispiratore - l'amore per l'altro - come nuovo principio. Obbedire a Dio significa farsi portatore di un amore in cui l'altro non è voluto e ricercato per sé, catturato nel proprio orizzonte, ma è voluto e ricercato per se stesso, nell'orizzonte della verità che è l'intenzionalità divina.
    È nota la pagina di Mc 12,28-34 nella quale Gesù riassume tutto l'insegnamento biblico nell'unico/duplice comandamento dell'amore a Dio e dell'amore ai fratelli. E importante cogliere il legame indissociabile ma peculiare tra questi due. «amori» comandati - tra questi due comandamenti - che come non si identificano, così non si oppongono, ma si inverano. Diverso infatti è, nei due comandamenti, il significato di «amore»: come obbedienza nel primo (amare Dio è obbedirgli), come disponibilità nel secondo, in sintonia con la vasta gamma di sfumature che il termine può evocare (amare il prossimo è volere il suo bene). Se amare Dio è obbedirgli (primo comandamento), l'amore al prossimo (il secondo comandamento) specifica in cosa deve consistere tale obbedienza: nel volere il bene del prossimo, quello stesso bene che Dio vuole per tutti e pone a disposizione di tutti. Possiamo allora così riassumere questo secondo polo: grazie all'iniziativa di Dio di riconciliarsi con l'uomo, a questi è data la possibilità di riconciliarsi con Dio. Riconciliarsi con Dio significa tornare ad un rapporto di obbedienza con lui, obbedienza che consiste nell'amare il prossimo volendo per lui lo stesso bene che Dio vuole per tutti. Tornare a Dio vuol dire amare; amare e perdonare come Dio stesso ama e perdona.

    2.3. La riconciliazione in Gesù
    Oltre ad affermare - nel processo della riconciliazione -l'iniziativa assoluta di Dio e il momento «responsoriale» dell'uomo, la Bibbia afferma, con uguale forza e centralità, il ruolo insostituibile di Cristo: è in Cristo che Dio si è riconciliato con l'uomo ed è sempre in Gesù che l'uomo ri-accede alla possibilità di riconciliarsi con Dio. Cosa significa che è «in Gesù Cristo» che si realizza la riconciliazione tra Dio e l'uomo e l'uomo e Dio? Una prima risposta può essere così formulata: Gesù è il primo «riconciliato», colui che ha aderito totalmente alla volontà di Dio spogliandosi della propria (cf Fil 2,5-11, l'inno dell'autospogliazione di Gesù), colui che, attraverso la sottomissione volontaria, si è affidato alla signoria di Dio facendo così rifiorire la creazione secondo il disegno originario. È questo il significato dei miracoli dei Vangeli, il cui spessore è profondamente teologico. Gesù è il vero Adamo che, non più disobbediente ma obbediente, realizza l'Eden. Riconciliato con Dio perché obbediente, Gesù è pure contemporaneamente riconciliato con gli uomini in quanto capace di amarli, fino a dare la sua vita per loro. Gesù è riconciliato con gli uomini in quanto è capace di amarli, di farsi a loro «prossimo»; di non essere più esclusione ma compagnia radicale e perenne, sempre e dovunque, anche agli inferi (si pensi alla discesa di Gesù agli inferi). Gesù è riconciliato con tutta la realtà umana perché nessuna realtà - neppure gli inferi -egli esclude; egli è prossimo a qualsiasi situazione umana, anche la più disperata e alienante. In lui, nel suo orizzonte di prossimità - che è la prossimità radicale e che è il perdono - niente resta più estraneo, neppure gli inferi. Il senso della croce è tutto qui: non rifiutare chi rifiuta, non escludere chi esclude ma ri-proporre - col perdono - la possibilità dell'amore e dell'accoglienza all'uno e all'altro.
    C'è però una seconda risposta, non meno importante della prima: appunto perché riconciliato Gesù diventa riconciliatore. Ciò vuol dire che egli non soltanto è colui che ha riconciliato se stesso con Dio, ma è colui che, grazie alla sua riconciliazione, rende possibile anche a noi la nostra riconciliazione. Gesù è come un alpinista che, aprendo una via, l'apre non solo per sé ma anche per gli altri. Ciò vuoi dire ancora che dopo Gesù e graziea Gesù ognuno di noi sa con certezza che la riconciliazione - intesa come obbedienza a Dio e come amore ai fratelli - non solo è possibile ma è una realtà, e che il mondo irredento può rifiorire attraverso l'obbedienza e l'amore. Gesù è la fontana al centro del villaggio della storia che addita ed offre ad ogni viandante la realtà dell'acqua e la possibilità di dissetarsi.

    2.4. La chiesa dei riconciliati
    La chiesa, dal punto di vista teologico, è la comunità dei riconciliati: dei riconciliati con Dio e dei riconciliati con gli uomini (e non solo con i membri della chiesa!). È la comunità dove si vive sotto la signoria di Dio, obbedendo alla sua volontà e amando i fratelli; meglio ancora: obbedendo alla sua volontà che consiste nell'amare i fratelli. È lo spazio escatologico, lo spazio dell'umanità disalienata dove, vivendo amando Dio - nell'obbedienza - e amando i fratelli - nel servizio - regna la giustizia, la pace, la bellezza, il senso; è la comunità edenica ed è la comunità messianica che, secondo il libro degli Atti, realizza l'utopia dell'«un cuore solo e un'anima sola», dove «nessuno tra loro era bisognoso...» e dove «veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35).

    3. I frutti della riconciliazione

    L'uomo riconciliato da Dio e riconciliatosi con Dio accede ad una dimensione di novità assoluta, che è della stessa novità della creazione non ancora sfigurata dal peccato. L'uomo riconciliato è «l'uomo nuovo» - di cui parla Paolo - è il rinato - di cui parla Giovanni - è il battezzato - di cui parla il linguaggio rituale/sacramentale. In cosa consiste questa «novità»? Quali sono i tratti dell'uomo riconciliato? Con un termine biblico, l'uomo riconciliato è l'uomo dello shalom, l'uomo della pace, precisando che la «pace» di cui parla la Scrittura è non assenza di guerra ma pienezza di relazioni, armonia, integrazione. L'uomo riconciliato è l'uomo che vive in armonia: in armonia con sé, con gli altri, con la terra e con il futuro.

    3.1. La riconciliazione con il proprio io
    Chi è riconciliato con Dio è in grado di riconciliarsi profondamente con se stesso, accettando la propria realtà coraggiosamente, pronto ad assumerla e - dove è sfigurata dal peccato - a redimerla modificandola. L'uomo riconciliato è l'uomo capace di piacere e di impegno, di gioia e di militanza, di fruizione e di lotta. Ecco alcuni tratti dell'uomo riconciliato con sé, tratti da considerare nel loro insieme, l'uno esplicitato dall'altro.
    Il primo è l'autoaccettazione. Se ne parla tanto, soprattutto in ambito psicologico. Ma è possibile autoaccettarsi? E se la propria storia è segnata di vuoti e di errori in che modo si può essere in grado di autoaccettarsi? E ancora più radicalmente: se la nostra esistenza è tutta sotto il peccato, non è anche l'autoaccettazione un'ulteriore versione di quell'amore narcisistico, di quell'adesione a sé - invece che a Dio - che è la sostanza del peccato? L'autoaccettazione di cui ci fa dono la riconciliazione offerta da Dio, pur non opponendosi all'autoaccettazione psicologica, la trascende e la motiva diversamente e più profondamente. L'autoaccettazione di cui fa dono l'esperienza religiosa trova infatti la sua radice non nell'io - nel suo valore, nelle sue realizzazioni, nelle sue soddisfazioni... - ma nel perdono di Dio. Essa è il riflesso dell'autoaccettazione divina della quale ci è fatto dono, ed è la detronizzazione definitiva del proprio io, che da principio ispiratore si fa disponibilità e servizio. La riconciliazione religiosa non è autofondantesi ma eterofondantesi, non è autogiustificantesi ma eterogiustificantesi avendo al suo centro -consapevole o meno - il perdono di Dio. Appunto perché libero dalla preoccupazione di fondarsi e di giustificarsi, di trovare una ragione per vivere (lavorare, sposarsi, fare un figlio...), l'io può accettarsi fino in fondo, continuando a fare le cose di tutti e di sempre (lavorare, sposarsi, fare un figlio...) non più da «signore», ma da «servitore», cioè da libero.
    Il secondo tratto dell'uomo riconciliato con sé è la responsabilità. Paradossalmente l'autoaccettazione religiosa non è segno di passività, ma della massima responsabilità; essa non porta all'acquiescenza, ma alla nascita di una nuova identità in cui l'io si percepisce come chiamato, come responsorialità (dal latino respondere), sull'esempio di Gesù (cf Eb 10, 5-7) e della Vergine
    (cf il racconto dell'annunciazione), come «eccomi». Scoprirsi coram Deo nell'orizzonte della responsabilità significa porsi di fronte al reale, non come dato da manipolare prometeicamente o da consumare narcisisticamente, ma come parola che attende di essere interpretata - e che solo se interpretata parla - o come pagina musicale che attende di essere eseguita - e che, solo se eseguita, può essere fruita.
    Il terzo tratto è quello dell'autorealizzazione, della quale forse mai come oggi si parla. In che senso l'uomo capace di autoaccettazione e di responsabilità è anche autorealizzato? È necessario a proposito distinguere due forme di autorealizzazione: una che nasce dall'autoaffermazione, l'altra che nasce dall'obbedienza; la prima basata sull'autos (se stessi) e sul suo potenziamento (poco importa se tecnologico, culturale o spirituale! Anche la ricerca della santità può essere figura di autoaffermazione; cf l'esperienza di Lutero!); la seconda sulla spogliazione di questo autos, sul depotenziamento delle sue pretese e delle sue rivendicazioni padronali per farsi pura trasparenza e ricezione dell'intenzionalità divina. E in questo senso che la conversione è vera autorealizzazione: nel senso che essa dà accesso alla vera identità dell'io, identità nella quale all'uomo è dato veramente sentirsi realizzato e alla cui luce tutte le altre identità e le altre autorealizzazioni si rivelano ambigue o false. L'autorealizzazione della conversione passa attraverso la caduta di pseudorealizzazioni che si rivelano come simulacri o come idoli. Questo discorso dell'autorealizzazione che nasce dall'autospogliazione è particolarmente importante a proposito della santità. Essere santi non vuol dire essere perfetti o eroi ma l'esatto contrario. La vera santità (che è somma autorealizzazione) passa attraverso la rinuncia alla santità come autoaffermazione: ogni conversione all'esistenza autenticamente spirituale inizia con la rinuncia a diventare santi. Non è detto che quest'inizio sia cronologicamente databile e significhi una svolta clamorosa: può anche maturare nel silenzio della più profonda coscienza, al di là dello stesso sguardo indiscreto dell'introspezione. Ma, improvviso o lento, traumatico o sereno, deve avvenire quel rovesciamento per cui la tensione dell'anima verso la perfezione per farsi accogliere da Dio lascia il posto alla fede di essere perdonati e accolti così come si è. Soltanto su questo fondamento la tensione può riprendere; come risposta e non come conquista, come disinteressata volontà di bene e non come ricerca del proprio bene.

    3.2. La riconciliazione con gli altri
    Oltre che riconciliazione con il proprio io, la conversione è riconciliazione con l'altro; questo, da omogeneo ai propri bisogni o - qualora non lo sia più - da rivale, si fa presenza autonoma, libera e interpellante. La conversione ci introduce alla vera alterità dell'altro, non più «immagine e somiglianza» dell'io, ma denuncia e fine delle sue pretese e della sua signoria. Cosa vuol dire più in concreto riconciliarsi con l'altro, con la sua alterità autonoma e interpellante? In primo luogo significa scoprire l'altro da oggetto per me a soggetto per sé; l'altro non come oggetto del mio desiderio o dei miei fini - per quanto nobili, fossero pure religiosi - ma come fine in sé, partecipe - con me e come me - dello stesso fine, della stessa agape. Si potrebbe anche parlare della scoperta dell'altro come persona, a condizione di intendere correttamente questo termine. Dire che l'altro è persona significa affermare la sua irriducibilità al mio ego, al mio eros, al mio bisogno. Definire l'altro come persona significa in realtà rinunciare a se stessi come principio ispiratore dell'essere e dell'agire. La definizione dell'altro come «persona», prima che una qualifica dell'altro, è il ridimensionamento del mio io rispetto all'altro. In secondo luogo riconciliarsi con l'altro significa scoprirlo da soggetto in sé a istanza per me. L'altro non solo è fine in sé ma - appunto perché fine sé - diventa per me appello; nella sua alterità si media l'appello di Dio. L'altro non come contenuto, non come idea, non come tematizzazione ma - per usare un termine caro ad uno dei massimi filosofi ebrei viventi, E. Lévinas - come «volto». In termini biblici l'altro scoperto come appello viene chiamato «povero»: il povero che, quale voce di Dio, chiama e giudica, condanna e giustifica. Si ricordi la pagina matteana sul giudizio universale (Mt 25,31-46) in cui i poveri sono identificati al Cristo nel giudizio escatologico.
    In terzo luogo riconciliarsi con l'altro significa passare dall'immagine dell'altro come nemico all'immagine dell'altro ccime. ontologicamente amico. Tutti i nostri rapporti interpersonalie sociali, come pure la politica e l'economia, si basano sull'assunzione dell'altro come nostro nemico che mette in crisi la nostra sicurezza, il nostro vivere e il nostro potere. La più grande scoperta di riconciliazione con l'altro è di vederlo non più cattivo, ma amico. Certo, l'altro può farci del male, può esserci rivale. La conversione non fa chiudere gli occhi sul tragico spessore del male che sfigura il volto di tutti. Anzi acuisce ancor più l'insofferenza per il male. Ma l'altro «cattivo», portatore di male, non è più colto come irrimediabilmente e ontologicamente tale (è cattivo) ma - come indica il termine latino captivus - come prigioniero, come schiavo, come sfigurato, come handicappato, che, prima che il nostro giudizio di condanna, invoca il nostro sentimento di compassione e di solidarietà. La conversione fa dono della scoperta dell'altro come ontologicamente amico (al di là dei suoi stessi travestimenti di malvagità) [4].
    Infine riconciliarsi con l'altro significa porsi di fronte a lui prima che come presenza da amare come presenza da perdonare. L'altro che incontriamo sul nostro cammino e sta al nostro fianco - sia esso l'amico, la madre, il padre, il figlio, il coniuge o il compagno di lavoro... - è segnato dal peccato che non lo rende amabile ma al contrario - una volta infrantosi il fragile equilibrio della reciprocità delle aspettative e dei bisogni - lontano, estraneo, indifferente, odioso, ecc. Il peccato non lascia indenne nessuna realtà e il volto segnato dal peccato è come un volto deforme, sfigurato, in cui la bellezza originaria prima che essere fruita va intuita, ricercata, attesa, ricostruita. Il volto dell'altro è come un quadro imbrattato che prima di essere contemplato va restaurato. Riconciliarsi con l'altro significa allora superare nei suoi confronti sia lo spontaneismo dell'attrazione - quando si è gratificati - che l'istinto dell'aggressività - quando l'altro con la sua immagine diviene frustrante - e collocarsi nella terza posizione, al di là del rifiuto e dell'attrazione, che è il perdono. E solo dopo essere stato ricreato dal nostro perdono che l'altro può divenire presenza amabile in cui - come nel primo Adamo e nella prima Eva dell'Eden - potersi rispecchiare e sentirsi spontaneamente e pienamente attratti. Analogamente a quanto avviene per un quadro coperto di fango, che solo dopo essere stato restaura-
    to può tornare ad essere ammirato e fruito. Riconciliarsi con l'altro come presenza da perdonare è il vertice della riconciliazione; anzi: è la riconciliazione. Ed è accedere a quel segreto ultimo del reale che è il segreto stesso di Dio; il segreto del perdono sul quale si sostiene e di cui si alimenta l'attuale ordine di creazione e senza il quale esso precipiterebbe nel nulla. Perdonare l'altro è avere accesso all'intenzionalità ultima del creato assecondando la quale il mondo torna ad essere edenico mentre senza di questa esso resta nel caos.
    Per chi è capace di perdono, l'altro - al di là del suo stesso volto sfigurato - diviene veramente compagno e amico e il mondo una casa di fratelli, un coro di voci, un canto sinfonico. L'immagine del banchetto eucaristico - immagine centrale ed essenziale della tradizione cristiana - è la ritrascrizione rituale del mondo così come appare all'occhio che vede non più nemici ma amici. Nel banchetto eucaristico l'altro mi è radicalmente fratello e amico, non perché io ne ignori ingenuamente l'ambiguità e l'egoismo, ma perché io scorgo quei tratti al di là della sua stessa inimicizia. Ed è il vederlo amico al di là della sua stessa inimicizia che diviene per ambedue possibilità e fruizione di amicizia.

    3.3. La riconciliazione con la terra e con il futuro
    Oltre che con sé e con l'altro, la conversione è riconciliazione con la terra, intesa come l'insieme dei beni che costituiscono il nostro mondo. Riconciliarsi con la terra significa in primo luogo vivere l'esperienza terrena non come carcere da cui evadere, ma come casa amica in cui sentirsi a proprio agio. Siamo così abituati - dal pensiero greco-platonico - a concepire il mondo negativamente che ci è difficile immaginare il contrario. Anche se il cristianesimo non ha mai sposato fino in fondo il dualismo platonico è indubbio che questo è però rimasto nell'inconscio collettivo, per cui la vera «patria» non è questo mondo ma il mondo da venire, non questa terra ma una «nuova» terra, un «nuovo» cielo che seguiranno alla nostra morte. Le cose non cambiano di molto con la rettifica aristotelica. È vero che per Aristotele/Tommaso il mondo non è un carcere ma partecipazione all'essere, di cui riflette l'ordine, la bellezza, ecc. Si tratta di partecipazione, ma la vera «fonte» è altrove ed è a questa che si orienta con tutte le sue forze l'anima credente e l'anima cristiana. Non è questa la visione biblica della terra come Eden, da accogliere con gioia e riconoscenza dalle mani di Dio creatore che la dona agli uomini.
    Riconciliarsi con la terra come patria ospitale è però possibile solo se questa conserva il suo statuto originario, che è quello del dono. Per questo, riconciliarsi con il mondo significa, in profondità - ed è questo il secondo dato - tornare a vivere il mondo come dono, secondo il disegno creatore. Il mondo non è né un oggetto solo strumentale, di cui l'uomo può fare quello che vuole, né un oggetto estetico, di cui ammirare la bellezza, ma un dono in cui, come in ogni dono, si cela un'intenzionalità di benevolenza. Cogliere questa intenzionalità di benevolenza che sottostà ad ogni cosa e assecondarla è la suprema riconciliazione, è la pace, è la ricomposizione dell'Eden. Il significato e l'importanza delle benedizioni risiedono proprio qui: nell'affermazione delle cose del mondo come dono e nella volontà di restare in tale orizzonte di gratuità. Come è noto, secondo la tradizione ebraica non ci si può né ci si deve servire di alcuna cosa della terra -come, per es., mangiare un frutto o guardare una montagna - o partecipare a un qualsiasi evento - come incontrare un amico o leggere il libro della Bibbia - senza prima interporre tra il proprio io e la cosa di cui ci si serve o l'evento cui si partecipa una preghiera di benedizione. La formula semplice e più nota è quella che accompagna l'atto del mangiare, per cui l'ebreo credente, prima di nutrirsi del pane, prega: «benedetto sei tu Signore, nostro Dio re dell'universo, che estrai il pane dalla terra». Con una preghiera così semplice l'ebreo credente sottrae la cosa/evento al suo potere e ne riferisce la proprietà a Dio; cioè ne afferma lo statuto di dono. Le cose, per struttura interna e per costituzione ontologica sono «dono»: cioè realtà non dell'uomo ma di Dio e che Dio, per amore, offre all'uomo perché questi viva e sia felice. Vivere il mondo come dono è vivere nell'orizzonte della gratuità, è vivere - come gli apostoli della chiesa delle origini -avendo tutto senza possedere nulla («nihil habentes et omnia possidentes» 2Cor 6,10), è collocarsi al di là della ricchezza come avere e della povertà come penuria e situarsi nello spazio della condivisione radicale e fraterna.
    L'affermazione del mondo come dono non va presa come innocente immagine il cui contenuto si esaurisce nelle mute pareti dell'interiorità o della soggettività individualistica ma - intesa biblicamente - porta iscritta al suo interno l'esigenza della suprema responsabilità intesa come giustizia. Di qui il terzo dato in cui si riassumono e completano i due precedenti: riconciliarsi con il mondo significa vivere con giustizia. La giustizia biblica, prima che essere distributiva (dare a ciascuno il suo) o punitiva (ristabilire la giustizia lesa), è l'oggettivazione di quel mondo buono e riuscito così com'è voluto da Dio, è l'instaurarsi di quell'ordine che non è né quello soggettivo (l'ordine del potere dell'uomo sull'uomo) né oggettivo (l'ordine delle cose o delle istituzioni sul singolo), ma quello trans-oggettivo, immesso e voluto da Dio, l'ordine del dono, della gratuità che si fa legge, della benevolenza che si fa norma. Vivere il mondo con giustizia significa cogliere e assecondare il dinamismo interno del mondo che è quello del dono. Se, con una immagine, il mondo è come una immensa «torta» preparata da Dio per la gioia dei suoi figli, vivere con giustizia significa non accaparrarsene - come dei bambini egoisti - ma acconsentire - rinunciando alla propria volontà di potenza e di possesso - alla sua destinazione universale; significa rinunciare alla logica del «mio» - la logica assurda del peccato che spezza l'incanto dell'Eden per trasformarlo in inferno - per entrare in quella del dono dove non esiste né il mio né il nostro, ma ciò che è di tutti in forza di una benevolenza superiore dalla quale si è avvolti e dentro la quale - con sorpresa e con gioia - ci si scopre; in una parola significa sostituire alla logica dei. dovuto - che ci fa padroni e signori - quella del gratuito - che ci rende destinatari e fruitori responsabili.
    La conversione fa dono della riconciliazione anche con il futuro cronologico e escatologico. Riconciliarsi con il futuro cronologico significa depotenziarlo radicalmente non caricandolo eccessivamente né di attesa né di minaccia. Chi si accetta e vive gli altri come compagni e la terra come dono è già in un frammento di Eden. Questo non è dono del futuro cronologicamente o evoluzionisticamente inteso - secondo una lettura storicistica dominante - ma una possibilità sempre a portata di mano in ogni istante, in ogni «presente». Riconciliarsi infine con il futuro escatologico - con la morte - significa non farsi angosciare né dalla fine della nostra vita né da quello che ci attenderà dopo morte. L'importante è sapere che siamo radicati sull'amore di Dio e che questo non potrà mai tradirci anche se noi o anche quando noi l'avessimo già tradito. La sostanza della fede è tutta qui: nel rinunciare all'angoscia dell'autofondazione per affidarsi alla parola fondante e perdonante di Dio. Per il cristiano l'importante non è sapere cosa gli riserva il domani, ma su chi fonda il suo oggi. Se lo fonda sul proprio «io» il futuro non potrà non apparirgli minaccioso, ma se lo fonda su Dio non avrà particolari motivi per temere. Perché lo stesso Dio che oggi lo nutre e lo accompagna - chiedendo in cambio l'obbedienza alla sua parola e l'abbandono alla sua volontà - continuerà ugualmente ad accoglierlo e nutrirlo nel domani, sia cronologico che escatologico. Riconciliarsi con il futuro significa allora riconciliarsi con il segreto e la sostanza dell'esistenza: l'incontro tra l'amore gratuito di Dio e la risposta adulta dell'uomo. Un incontro sempre possibile, non legato a tappe cronologiche. Un incontro che, una volta avvenuto, ci fa accedere all'Eden.

    NOTE

    1 A.J. HESCHEL, Dio alla ricerca dell'uomo. Una filosofia dell'ebraismo, Borla, Torino 1969, 438.
    2 A. RIZZI, Il credente come soggetto di storia, Borla, Roma 1978, 87-88.
    3 Ib., 87.
    4 M. BUBER, La fede dei profeti, Marietti, Torino 1985, 111-125.

     

    (FONTE: Rassegna di teologia, 30 (1989), pp. 299-317)


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