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    Teologia della liberazione

    per l'Europa

    Armido Rizzi

    1. Se non si vuol coltivare della storia una lettura manichea, si deve riconoscere che l'Europa è stata, sotto più di un punto di vista, la terra natale della liberazione. Liberazione dal bisogno attraverso la vittoria (scienza e tecnica) nella millenaria lotta tra uomo e natura; liberazione da schiavitù politiche, attraverso un complesso di ordinamenti che garantiscono l'uguaglianza degli individui in quanto cittadini di uno Stato; liberazione della coscienza del singolo dalla subordinazione ad autorità considerate depositarie del potere divino; liberazione complessiva sul piano antropologico-culturale: nelle relazioni tra i sessi, tra le età, tra le classi...
    Ma, anche senza contare i risvolti pesantemente negativi di questo processo (dal dominio coloniale ai due conflitti mondiali, dalle sanguinose dittature fasciste e comuniste alla spietata logica del mercato, irrispettosa della dignità umana e degli equilibri naturali), si deve riconoscere un limite intrinseco alla concezione europea della libertà e, dunque, al dispiegarsi delle sue promesse di liberazione. La modernità- europea è stata la grande scoperta dell'individuo come io, cioè come soggettività. Il significato di questa scoperta può essere condensato in una duplice auto-relazione: l'individuo come principio di sé e come fine di sé.
    Principio di sé. La grande visione classica della natura, che anche il pensiero cristiano aveva fatto propria, era centrata sull'idea di finalità: intesa sia come principio immanente di sviluppo di ogni cosa verso il proprio compimento, sia come ordinamento dinamico di ogni cosa all'interno della totalità cosmica. Ora, il grande gesto della modernità consiste nel trasferire la finalità dal mondo all'io, dal dinamismo della natura al dinamismo proprio della volontà umana, dove la finalità diventa progettualità, capacità di prassi «formatrice», cioè forgiatrice. Questa prassi si esplica in due campi: sulla natura, che, ormai privata della finalità sua propria, viene letta in chiave meccanicistica e diventa luogo dell'intervento lavorativo, della tecnologia; sullo stesso materiale umano, cioè sul popolo, su cui interviene l'azione educativa. Nel primo caso si delinea la figura del borghese, nel secondo la figura dell'intellettuale illuminista: le due espressioni principali dell'individuo come progettualità.
    Fine di sé. In quanto soggetto dotato di intrinseca finalità attiva, l'individuo è anche il valore ultimo, che non può essere subordinato né agli interessi del gruppo né a ideologie politiche o religiose. La ragione di questa assolutezza è, ancora una volta, il carattere di soggettività che dell'individuo umano è costitutivo, così che nulla può avere valore più alto della sua realizzazione.
    Se in quanto progettualità l'individuo è potere, in quanto fine è diritto: è su questa base che la Rivoluzione Francese proclama i «diritti dell'uomo», cioè dell'individuo umano; ed è per questa ragione che essi sono i diritti dell'io, cioè dell'individuo in quanto soggettività: teorica (l'intellettuale) e pratica (il borghese). Si noti bene che, se questa centralità dell'individuo permette di parlare di «individualismo» a proposito della concezione moderna del soggetto umano, si tratta comunque di individualismo razionale, non selvaggio, perché mediato dall'idea universale: l'io, che è presente in me e dà valore alla individualità, è presente anche negli altri, che sono perciò dotati - di principio - dello stesso potere e detentori degli stessi diritti.

    2. Guardando in retrospettiva ai duecento anni di storia dei «diritti dell'uomo», non possiamo non scorgervi un duplice e antitetico movimento. Da un lato, vi ravvisiamo quella che Balducci chiamava la «lunga marcia» da essi compiuta: nel senso di una progressiva estensione dei soggetti cui sono stati riconosciuti (dai proprietari a tutti i lavoratori, dai soli maschi all'inclusione delle donne, dai bianchi alle altre razze e culture, ai bambini, agli handicappati, ai carcerati...) e, contestualmente, dei contenuti (dai diritti civili ai diritti sociali: lavoro, istruzione, pari opportunità ecc.). Dall'altro, la marcia si è andata tramutando in una «deriva», cioè nella perdita della dimensione di universalità dell'io per lasciar posto a un sentimento di affermazione dei miei diritti individuali e dei nostri diritti corporativi, senza mediazioni ideali; accettando, al più, compromessi e transazioni, negoziati comandati dall'esclusivo interesse di parte. Il paradosso del presente, figlio dell'Europa moderna ma ormai trapassato nell'Occidente postmoderno, è di congiungere una altezza di coscienza istituzionale quale mai il passato aveva raggiunto, dove i diritti di ogni uomo campeggiano come principio indiscutibile, e una palude di coscienza vissuta, dove a comandare è l'imposizione sorniona o declamata dei «miei sacrosanti diritti».

    3. Che apporto può dare a questa situazione problematica una «teologia della liberazione»? O, detto in altri termini, che senso può avere una teologia europea della liberazione?
    La mia tesi è la seguente: essa può offrire il contributo di una diversa concezione dell'individuo, di un diverso modo di intendere la soggettività; un modo che dia dignità di pensiero (e dunque permetta coerenza di pratica) alla lunga marcia dei diritti dell'uomo superando l'ambiguità déi diritti dell'io ed evitandone, di conseguenza, la deriva.
    Non penso a un ritorno alla concezione classico-medievale di «natura umana», per quanto riveduta e aggiornata. Penso a una rilettura del racconto ebraico-cristiano in quanto vi si viene svelando e svolgendo una inedita idea di soggetto umano: inedita rispetto alle idee precedenti, quali si profilano nelle religioni preed extra-bibliche, e inedita anche rispetto allo sviluppo del logos occidentale, sia nella figura classica - della «natura umana», appunto - sia in quella moderna - sopra descritta - dell'«io». Uno degli aspetti del pensiero ermeneutico, che sembra il tratto più saliente della filosofia del Nocecento, è l'ascolto di quelle parole di senso e di verità che sono contenute nei discorsi di statuto non filosofico: l'eloquenza del simbolo, la ricchezza del mito, il magistero della parola di sapienza o di profezia o di storia della salvezza. Considerate a torto dalla mentalità illuminista forme infantili - quando non addirittura alienate - di pensiero, queste parole stanno riacquistando credito come possibilità rivelative (nell'accezione non confessionale del termine) dell'umano, soprattutto di quelle dimensioni dell'umano che la vittoria della modernità europea (o, già prima, la vittoria del logos greco) aveva rimosso o volutamente represso.

    4. Porterò come esempio della diversa concezione dell'uomo annidata tra le pagine della Bibbia un simbolo. Si tratta dunque di una parte minima della ricchezza antropologica del testo biblico; ma è una parte che, come cellula originaria, contiene in miniatura il tutto.
    Un simbolo fondamentale della presenza di Dio all'esistenza dell'uomo è, nelle religioni, quello dello sguardo; simbolo che, nel racconto biblico, viene a configurarsi in un intreccio di straordinaria importanza per la definizione sia di Dio che dell'uomo. Il senso abituale dell'«occhio di Dio» nel testo biblico è quello di uno sguardo che misura e giudica l'agire dell'uomo: sguardo dotato a un tempo di infallibile verità e di irresistibile efficacia (vedi per esempio Sal 139, 1-4, 11-12; 94, 8-9; 5,6; ecc.). Ma c'è anche un altro sguardo di Dio, al quale l'uomo rivolge il proprio desiderio e la propria attesa: è quello che si piega sulla miseria umana per soccorrerla (vedi per esempio Sal 33, 18-19; 113, 5-9; ecc.).
    In che rapporto stanno lo sguardo di Dio che giudica e quello che protegge? Essi possono certo rivolgersi anche allo stesso individuo in situazioni diverse; ma, osservando con maggiore attenzione, ci si avvede che i due sguardi di Dio sono come l'articolazione di uno solo: lo sguardo che giudica è lo stesso che protegge, perché l'oggetto del giudizio divino è il comportamento dell'uomo verso l'altro uomo, verso il povero. La protezione che Dio dà al povero diventa giudizio su colui che opprime il povero. Potremmo dire: Dio ha un occhio su Abele (protezione: Dio della vita) e uno su Caino (giudizio: Dio della giustizia); ma essi sono un unico sguardo rivolto alla storia degli uomini. È, lo sguardo creatore, sotto il quale ognuno di noi è fin dal primo istante di vita il povero affidato alla cura altrui e il futuro soggetto responsabile dell'altro.
    Dicevo: i due occhi definiscono Dio nella sua relazione con l'uomo; ma proprio perciò definiscono radicalmente l'uomo, ne disegnano l'identità più profonda: il soggetto umano è ultimamente ciò che è sotto lo sguardo di Dio. È dunque, ultimamente, essere di bisogno affidato alla cura altrui ed essere responsabile, chiamato a prendersi cura del bisogno altrui. L'essere umano non è l'io che costruisce se stesso, principio e fine di sé, ma l'incontro tra l'io e l'altro: l'io come responsabile dell'altro come povero.
    Si noti bene: non basta dire che l'individualità non è solitudine ma relazione. La relazione può essere reciprocità di coscienza, scambio alla pari, rispecchiamento dell'uno nell'altro; ma allora l'altro non è veramente «altro», è momento interno al mondo dell'io: è quell'alterità assorbita nell'identità di cui Hegel ha disegnato in termini sovrani e forse insuperabili l'architettura. La responsabilità è invece l'assunzione dell'altro in quanto altro, è il superamento della distanza costitutiva che fa di ognuno degli umani un centro di bisogni e di interessi, dove l'incontro con bisogni e interessi altrui è sempre teso tra il conflitto fino alla morte dell'altro e l'interessata convergenza. Nella logica congenita all'individuo, infatti, l'altro o entra nel mio mondo (come partner o come nemico) o rimane nell'infinita distanza che genera indifferenza: tertium non datur. Il tertium della responsabilità è aldilà di questa logica; è un'individualità costituita non come dato ma come vocazione, non come essere ma come appello ad essere. E il ponte gettato tra l'io e l'altro, così che da indifferenza l'alterità si fa incalzante domanda di intervento: una domanda che ha insieme la debolezza dell'implorazione e la forza dell'imperativo.

    5. Il linguaggio biblico chiama Dio - occhio, voce, parola di Dio - questa forza imperativa che inabita l'implorazione dell'altro nel suo bisogno. E la teologia della liberazione è stata ed è, nella sua sostanza più propriamente teologica, la riscoperta di questa originaria connivenza tra Dio e l'altro nel suo bisogno, cioè tra Dio e il povero, tra l'implorazione del povero e la giustizia di Dio che la investe e mi investe costituendomi responsabile nei suoi confronti.
    La coscienza laica vuol rinunciare a Dio come referente ultimo del proprio pensare e agire; ma nella sua versione moderno-europea essa l'ha fatto sostituendogli l'uomo in quanto io, in quanto individuo principio e fine di sé. La deriva postmoderna sta ampiamente dimostrando l'impraticabilità - anzi, la contraddittorietà - di questa impresa titanica nel suo intento di compiuta umanizzazione dell'uomo. La sfida di una teologia della liberazione per l'Europa è allora quella di riproporre la visione dell'individuo in quanto responsabilità per l'altro; di riproporla nella figura religiosa che a ogni teologia è propria, ma come capace di suggerire una sostanziale conversione di rotta anche nella visione laica dell'umano. Il dono di senso che il testo biblico contiene e propone, e a cui il credente aderisce come al mistero di Dio nel mondo, può offrire al noncredente una possibilità di ripensare daccapo il mistero dell'uomo (o, se si preferisce, il suo paradosso): che ognuno è se stesso soltanto nell'essere per l'altro, e che al di fuori di questa costituzione solidale non c'è senso né salvezza per l'esistere umano nella storia.

    (Testimonianze 389, 11/96)


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