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    Storia dell’amore di Dio

    o il «mistero della Trinità»

    Carmine Di Sante 

     


    Gustare Dio 

    In una delle poesie più belle della bibbia il salmista, avendo fatto esperienza profonda della prossimità di Dio in un momento di grande angoscia (secondo la tradizione si sarebbe trattato di Davide quando, per salvarsi dal re di Gath, si finse pazzo componendo, per l’occasione, questo testo), così si esprime: 

    «L’angelo del Signore si accampa
    attorno a quelli che lo temono e li salva.
    Gustate e vedete
    quanto è buono il Signore» (Sal 34, 9). 

    Nel momento della minaccia il poeta non si è sentito solo, ma ha avvertito la presenza di una «forza» – la «forza» di Dio – espressa con l’immagine degli angeli che gli «si accampano» intorno come fanno i soldati per proteggere la città dagli assalti esterni: «L’angelo del Signore (nell’originale ebraico al posto del singolare c’è però il plurale) si accampa intorno a quelli che lo temono e li salva».
    Questa esperienza di protezione è così profonda che il poeta sente il bisogno di gridarla ai quattro venti invitando il lettore a fare la stessa esperienza: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore». «Gustate»: come si gusta il cibo in bocca, come si assapora il gelato con il palato. «Gustate»: e una volta che avete gustato avrete accesso al vedere, a quel vedere che dischiude la fonte del sapere.
    Scrive R. A. Alvès nel bellissimo libro intitolato Parole da mangiare (Qiqajon, 1998): 

    «Il latino testimonia un’intuizione che sembra assente in molte lingue moderne: le parole che indicano ‘sapere’ e ‘gustare’ hanno la medesima radice: sapere. Qualcosa è rimasto nell’italiano: ‘sapere’ e ‘sapore’. Mangiare e conoscere hanno la stessa origine. Conoscere qualche cosa è gustarne il sapore, sentirne l’effetto sul corpo. Le cose non sono nulla in se stesse. Kant lo sapeva bene, anche se non si fidava abbastanza del corpo per arrivare fino alla cucina. La realtà non è il crudo, ‘la cosa in sé’. La realtà è il risultato di una trasformazione mediante l’alchimia del fuoco, è il cibo che il mio corpo assume. La realtà è l’incontro tra la bocca e il cibo, tra il desiderio e il suo oggetto. Come suggerisce Martin Buber, non è qui e nemmeno là: è nella ‘relazione tra’. Ma questa ‘relazione tra’ non può essere neppure nominata. Il piacere non può essere descritto. Non è un oggetto per il tipo di sapere che si trova nell’aula di scuola. È la fine dell’epistemologia. L’epistemologia è legata a un sapere che esiste solo nella differenza della separazione, quando gli oggetti sono eternamente separati, collegati solo dalla distanza della vista. Ma quando gli occhi sono chiusi, ciechi, quando la bocca gusta il cibo, ogni dubbio scompare. ‘Mangio, dunque sono’. ‘Gustate e vedete quanto è buono il Signore’ (Sal 34,9). Mettete in bocca il Signore (Dio deve essere mangiato!) e vedrete com’è delizioso il suo gusto» (pp. 118.119). 

    Conoscere Dio, per la bibbia, vuol dire «gustarlo»: «gustarlo» come si gusta un cibo e un piatto prelibato. Tutto ciò che di lui si può sapere e dire ha senso se nasce dal «gustarlo», senza il quale il discorso su di lui diviene esercizio razionale, per chi crede nei poteri ultimali della ragione, o gioco retorico, per chi, come Wittgenstein, ritiene che dell’ineffabile si può solo parlare non parlandone, cioè tacendo. La bibbia è il racconto di «chi ha gustato Dio» e di come si può vivere nel mondo «gustandolo» e «rigustandolo» ogni giorno.
    Per quanto strano, il linguaggio teologico è esso stesso, nella storia, la continuazione di questo racconto: perché ogni generazione abbia la possibilità di «gustare» Dio. Anche se, per motivi vari, il linguaggio teologico è diventato prevalentemente «dogmatico» e «razionale», mosso dalla preoccupazione di chiarire e di definire, il suo senso è comunque di porsi a servizio del racconto biblico da tramandare, interpretare e approfondire.

    Il mistero trinitario 

    Questa osservazione vale anche per il «mistero trinitario», con cui la chiesa riconosce e adora Dio come Padre, come Figlio e come Spirito, e che Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, ha riproposto all’attenzione della chiesa come il modo più adeguato per la celebrazione del Grande Giubileo 2000 che si sta concludendo: 

    «Soprattutto in questa fase, la fase celebrativa, l’obiettivo sarà la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia. A questo mistero guardano i tre anni di preparazione immediata: da Cristo e per Cristo, nello Spirito Santo, al Padre. In questo senso la celebrazione giubilare attualizza e insieme anticipa la meta e il compimento della vita del cristiano e della Chiesa in Dio uno e trino» (n. 55). 

    E nella bolla di indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, intitolata Incarnationis mysterium, facendo sue le parole di un grande teologo dei primi secoli della Chiesa, il papa scrive: 

    «L’anno santo dunque dovrà essere un unico, ininterrotto canto di lode alla Trinità, Sommo Dio. Vengono in nostro aiuto le parole poetiche di san Gregorio Nazianzeno, il Teologo:
    Gloria a Dio Padre e al Figlio,
    re dell’universo.
    Gloria allo Spirito, degno di lode
    e tutto santo.
    La Trinità è un solo Dio
    che creò e riempì ogni cosa:
    il cielo di esseri celesti
    e la terra di terrestri,
    il mare, il fiume e le fonti
    egli riempì di acquatici,
    ogni cosa vivificando con il suo Spirito,
    affinché ogni creatura
    inneggi al suo saggio Creatore,
    causa unica del vivere e del durare.
    Più di ogni altra la creatura ragionevole
    sempre lo celebri
    come grande Re e Padre buono» (n. 3). 

    Il dossier che segue vuole essere un aiuto a comprendere e ricomprendere il mistero trinitario alla luce del racconto biblico che, dalla prima all’ultima delle sue pagine, è celebrazione e canto dell’amore di Dio, di cui il mistero trinitario è la ripresa e l’approfondimento, anche se con un linguaggio che, derivato dalla filosofia greca, resta estraneo alla mentalità moderna e, per questo, più di ogni altro chiede di essere reinterpretato. Georg Baudler, partendo dallo studio e dalla analisi dei testi prodotti dai giovani nelle scuole, giunge a questa conclusione: «La Trinità appare…, nella maggior parte dei compiti degli alunni, come una specie di cruciverba teologico, che non ha alcuna importanza per la vita» (cf G. Greshake, La fede nel Dio trinitario, Queriniana, Brescia 1999, p. 6). E il teologo K. Rahner ha perfino scritto: 

    «Si potrà… rischiare l’affermazione che, se si dovesse sopprimere come falsa la dottrina della Trinità, pure dopo un tale intervento gran parte della letteratura religiosa potrebbe rimanere inalterata. A ciò non si può nemmeno obiettare che la dottrina sull’incarnazione sia teologicamente e religiosamente così centrale per i cristiani al punto che, muovendo di là, la Trinità sia sempre e dappertutto inseparabilmente ‘presente’ nella loro vita religiosa… Si può avere il sospetto che, per il catechismo della mente e del cuore (a differenza del catechismo stampato) la rappresentazione dell’incarnazione da parte del cristiano non dovrebbe punto mutare, qualora non vi fosse la Trinità. Dio allora si sarebbe appunto fatto uomo come (l’unica) persona» (ivi). 

    Queste pagine vogliono contribuire a modificare questo modo di pensare e aiutare a capire che il linguaggio trinitario non è né un rompicapo che mette in discussione la logica matematica («come è possibile che Dio sia contemporaneamente ‘uno’ e ‘trino’»?) né una cosa insignificante come voleva Kant, per il quale la dottrina della Trinità sotto il profilo pratico «era del tutto inutile», ma un modo – per la tradizione della Chiesa un modo dogmaticamente vincolante – di narrare il mistero dell’amore divino nel quale e dal quale l’uomo è ospitato.


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