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    Storia dell’amore di Dio

    o il «mistero della Trinità» /1

    Il  Padre:

    rivelazione di Dio

    come amore

    Carmine Di Sante

     

     

    Il racconto biblico 

    La bibbia testimonia di una Presenza stra-ordinaria che è il Mistero stesso e che non è dicibile da parte dell’uomo, come vuole l’etimo del termine «mistero» che rimanda alla chiusura delle labbra, trattandosi di ciò di cui l’io non può parlare ma solo accogliere, come si accoglie uno straniero o l’ospite. Da questa Presenza misteriosa e indicibile Israele prima e le comunità cristiane dopo si sentono come «possedute» e «invase»: anche se di una «possessione» e di una «invasione» del tutto paradossale che non cancellano la responsabilità dell’uomo ma la instaurano, e non si impongono alla sua libertà ma la suscitano, sospendendosi e arrestandosi di fronte ad essa.

    La bibbia è il racconto di questa Presenza misteriosa irresistibile e impotente. Irresistibile perché nulla può resistere alla sua potenza e alla sua forza, come ricorda il profeta Isaia: «Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare /e ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo?/ Chi ha misurato con il moggio la polvere della terra,/ ha pesato con la stadera le montagne/ e i colli con la bilancia?» (Is 40,12). Ma nello stesso tempo impotente: perché il Dio alla cui onnipotenza non resistono né le acque del mare né l’estensione dei cieli né le montagne della terra si arresta di fronte alla libertà dell’uomo e consegna ad essa il potere inaudito di decidersi per la vita o per la morte: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore Dio tuo, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi…» (Dt 30, 15-16). 

     

    Il «Tu eterno» 

    Storia di questa Presenza misteriosa stra-ordinaria e impotente, la bibbia è soprattutto il racconto di come questa Presenza entra nell’esistenza umana e la rigenera: non come Potenza, Forza o Energia che, come quella del sole, si espande e si effonde nelle forme molteplici e inesauribili degli esistenti, bensì come Tu che si rapporta all’io nella sua unicità e singolarità costituendolo come relazione e istituendolo come suo partner o «tu». Presenza quindi il cui tratto originario è di essere il «Tu eterno», il «Tu» che costituisce l’uomo come suo «tu», secondo la formula felice coniata da Martin Buber: 

    «Ogni formulazione conduce in errore. Tuttavia, se ne è mai trovata una migliore che il «Tu eterno»? Come diventa privo di significato vicino a essa l’’Essere stesso’ e persino il ‘Fondamento dell’essere’ di Paul Tillich! Il Dio di Abramo, di Isacco e di Israele non era l’‘Essere stesso’, e nemmeno fu il ‘Fondamento dell’essere’ colui che ordinò ad Abramo di abbandonare la casa di suo padre, o colui che ordinò all’uomo: ‘Voi dovete diventare santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo’, o colui al quale il salmista – e, secondo due evangelisti, anche Gesù – gridò: ‘Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?’. Se una parola come il Tu eterno noi non la consideriamo un concetto, ma la capiamo in ciò che essa cerca chiaramente di esprimere, questa è certo la proposta più feconda sul significato della parola Dio che mai un uomo abbia osato fare» (W. Kaufmann, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 111). 

     

    La paternità divina 

    Racconto del «Tu eterno» che istituisce l’uomo come suo «tu», la bibbia – soprattutto la bibbia cristiana, cioè il Nuovo Testamento – privilegia un termine per narrare e celebrare la storia dell’amore tra Dio e l’uomo: il termine padre che, come ha scritto M. Eliade, resta forse non solo il simbolo più universale con il quale le religioni hanno espresso e tematizzato il loro rapporto con il Mistero (o, forse, sarebbe meglio dire: il rapporto del Mistero con gli umani), ma anche il più originario, in quanto il linguaggio primo e il più importante anteriore e sotteso ad ogni altro. Anche se a privilegiare questo termine è stato Gesù, il quale ha osato chiamare Dio «abba», che letteralmente vuol dire «papà», il termine con cui i bambini chiamavano affettuosamente il loro padre; e anche se a fare di questo simbolo il simbolo fondamentale è stata la tradizione cristiana che nel «credo» proclama la propria fede in «Dio padre onnipotente creatore e signore del cielo e della terra», esso comunque è già presente nelle scritture ebraiche. Ad esempio in Is 64,7 si legge questo bellissimo testo: «Signore, Tu sei nostro Padre; noi siamo argilla e Tu colui che ci dà forma»; mentre in Os 11,1 il profeta mette sulla bocca di Dio questa toccante confidenza: «Era fanciullo Israele e io l’amavo. Fin dall’Egitto lo chiamai mio figlio».

    Questo testo di Osea è particolarmente importante non solo perché presenta Israele come «figlio di Dio», ma soprattutto perché in esso viene detto, in modo essenziale e allusivo, in che cosa consiste questa figliolanza e quale è il luogo dove essa si costituisce: nell’uscita d’Israele dall’Egitto. Come è noto, il racconto esodico non è, nella bibbia, uno tra i tanti, ma il racconto fondativo e rivelativo per eccellenza. Narrando degli ebrei schiavi in Egitto e che Dio libera dalla schiavitù «con mano forte e con braccio disteso», la bibbia narra come Israele viene costituito suo figlio e in che cosa consiste questa figliolanza: nell’essere oggetto di un amore straordinario e nell’essere chiamato a diventare soggetto dello stesso amore straordinario. Parlare del Dio biblico come Dio dell’amore può sembrare un’ovvietà che può rasentare la banalità; ma in realtà si tratta di un’affermazione inaudita di cui bisogna tornare a cogliere lo spessore e le ragioni. Racconto dell’amore di Dio, la bibbia è soprattutto il racconto di questo «inaudito» dal quale Israele è stato «colto» e «sorpreso» e che, nella storia delle culture umane, rappresenta una novità assoluta.

    Per cogliere il senso di questa novità assoluta o unicum bisogna riscoprire la categoria del monoteismo, secondo cui il Dio biblico si rivela come monos, che vuole dire sia «uno», nel senso di uno solo, a differenza delle concezioni politeistiche per le quali le divinità sono plurime, che «unico», nel senso di una identità totalmente altra, irriducibile a qualsiasi altra realtà pensabile e rappresentabile dalla mente umana; ma è necessario attingere soprattutto al racconto esodico che della bibbia è il fondamento stesso.

    Di questo racconto, che narrativamente occupa i primi cinque libri della bibbia, ricorderemo solo alcuni versetti che ne sono come l’antefatto e un mirabile concentrato: 

    «Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (Es 2, 22-24). 

     

    L’amore come relazione gratuita 

    Nella sua apparente semplicità, questo frammento narrativo in cui si condensa tutto il racconto esodico contiene un qualcosa di inaudito che nessuna cultura umana ha mai osato pensare con la stessa radicalità e insistenza, e che ancora oggi, a distanza di millenni, è ancora difficile pensare e tematizzare: una relazione tra Dio e l’uomo e, quindi, tra uomo e uomo (perché il modo di rapportarsi a Dio definisce, per la bibbia, il modo di rapportarsi all’altro!) non più istituita sul fondamento della identità bensì sull’evento della gratuità.

    La relazione basata sul fondamento della identità è quella dove l’andare incontro all’altro, cioè l’amarlo e il prendersi cura della sua sorte, è motivato da una ragione che nasce dall’io e torna all’io: dove l’io, se esce da se stesso, ne esce per tornarvi, come l’Ulisse omerico il quale, dopo mille peripezie, desidera e si riporta allo stesso punto di partenza. Questo movimento per cui amare è partire dal proprio io ma per tornarvi necessariamente è stato tematizzato dalla filosofia greca come la definizione stessa dell’amore e ha trovato la sua pagina immortale nel Simposio di Platone, il quale ne dà la spiegazione attraverso il racconto del mito androgino (termine che vuol dire essere contemporaneamente «uomo» e «donna») secondo il quale in illo tempore, «all’inizio», l’uomo era una unità o sfera risultante dall’insieme del maschile e del femminile e, per questo, non mancava di nulla, autosufficiente e onnipotente come gli dèi dei quali era concorrente. Fu per questo che Zeus, per vendetta, divise in due l’essere umano separandolo in maschio e femmina. Di qui, per il mito, la ragione dell’amore, del tendere dell’uno verso l’altro: per ricomporre l’unità perduta e ritrovare la beatitudine originaria, come vuole Agatone nel Simposio: «È eros che produce fra gli uomini pace, sul mare quiete/ cessare del vento, riposo e sonno quando si è nell’angoscia».

    Il divino, per Platone, è il nome stesso di questa unità e di questa beatitudine originaria il cui tratto costitutivo è di essere auto-sufficiente, non bisognoso di nulla che non sia se stesso e sempre uguale a se stesso e, per questo, eterno: «l’essere sempre in tutto il medesimo, come ciò che è divino» (208 A-B). Per questa ragione, coerentemente, il dio greco poteva essere amato ma non amare, essendo l’uomo ad avere bisogno di Dio ma non Dio dell’uomo.

    Narrando di un Dio che «ascolta il lamento» degli ebrei schiavi in Egitto, il testo biblico mette in scena un divino il cui tratto originario non è più la relazione di sé a sé e, quindi, la sua beatitudine e autosufficienza, bensì la sua relazione da sé all’altro dove l’altro è amato nella sua irriducibile alterità. Quando il testo biblico afferma che «gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù e alzarono grida di lamento», è questa irriducibile alterità che mette in luce. Si tratta di «israeliti che gemono» e il cui gemito si perde nel vuoto senza un tu o volto al quale rivolgersi: come il lamento del neonato gettato nel cassonetto della spazzatura che non è né può essere invocazione a un «tu», ignorandone perfino l’esistenza, ma nuda voce di abbandono il cui unico significato è che non si è nessuno e non si ha nessuno. Il Dio biblico si rivela come quel Dio che si prende cura di chi «è nessuno» e «ha nessuno».

    Ma perché Dio si prende cura degli ebrei schiavi in Egitto che non sono «nessuno» e non hanno «nessuno»? Per quale ragione esce dalla propria autosufficienza e dalla propria beatitudine per andare ad incontrarli nella loro alterità? Se si risponde a questa domanda dicendo: «per amore», si offre una risposta biblicamente corretta, ma ambigua se non la si integra con la consapevolezza che il termine in questo caso si riveste di un senso del tutto differente. Anche il dio babilonese, infatti, «amava» i babilonesi, allo stesso modo che il dio degli egiziani gli egiziani, il dio dei fenici i fenici, il dio dei moabiti i moabiti, e così via. Ma l’amore del Dio biblico è altro dall’amore di queste divinità o dèi: non per la sua maggiore potenza, come lascerebbe supporre la lettura superficiale del racconto esodico dove il Dio d’Israele trionfa sul Faraone mostrando la sua superiorità e gettandone in mare «cavalli e cavalieri»; in realtà per la sua irriducibile diversità che consiste nel fatto che ama di un amore che non si identifica con l’appartenenza, l’identità e la necessità, e dischiude un al di là dell’appartenenza, dell’identità e della necessità che è l’evento della libertà buona o grazia. 

     

    I tratti della relazione gratuita 

    «Grazia» è il termine più bello e appropriato del linguaggio biblico, ma è diventato anche il più ambiguo: non solo per l’uso continuato (i linguisti ricordano che le parole sono come i coltelli che, più vengono usati, meno «incidono», perdono cioè di espressività), ma soprattutto per la sua interpretazione che si è imposta nella tradizione cristiana, per la quale «la grazia» è diventata sinonimo di «forza» o «energia» divina o soprannaturale. Se si prova a chiedersi o a chiedere (ad esempio ad un gruppo di adolescenti) cosa è la «grazia» per la bibbia, la risposta più comune è quella che la identifica con la «forza» che aiuta superare una difficoltà o un ostacolo, come nella frase: «stavo per morire e Dio mi ha fatto la ‘grazia’ di guarire», oppure: «ero senza fede; ma Dio mi ha fatto la ‘grazia’ e mi ha aperto gli occhi e adesso credo». Inteso così naturalisticamente, con la metafora della forza o energia, il termine «grazia» occulta quello che, per la bibbia, è il suo aspetto più profondo e irriducibile: la relazione gratuita tra Dio e l’uomo. La grazia, per la bibbia, è la relazione gratuita che Dio istituisce nei confronti dell’uomo e, se relazione gratuita, essa non appartiene all’ordine della necessità ma all’ordine dell’evento, e all’ordine dell’evento interpersonale dove il Tu di Dio istituisce il tu dell’uomo come amante. Alla luce di questa relazione gratuita o grazia, l’uomo si scopre come l’amato che, amato gratuitamente, è chiamato a sua volta ad amare gratuitamente, vivendo non più per sé ma per l’altro.

    Della grazia come relazione gratuita che Dio istituisce nei confronti degli «ebrei schiavi», cioè nei confronti dell’altro in quanto altro, il racconto biblico sottolinea tre aspetti para-dossali che, come vuole il termine, sono la messa in crisi della doxa non solo comune ma anche scientifica e filosofica. 

    * Il primo è quello della sua incondizionatezza. L’affermazione che Dio ama l’uomo gratuitamente è l’istituzione di una relazione che non si lascia motivare dal se (se portatore di valore, di bellezza, di attrazione o desiderabilità, ecc.) e dal perché (perché dello stesso sangue, terra, cultura, religione o ideologia, ecc.), ma li abolisce contestandoli e smascherandoli come irrilevanti. Il rivelarsi di Dio ad Israele è l’apparire e svelarsi nella storia di questa relazione senza se e senza perché, e che, abolendo il se e il perché, sostituisce all’amore d’identità, dove l’altro è amato come alter ego speculare, l’amore di alterità, dove l’altro è amato nella sua alterità irriducibile e inassimilabile. L’idea di una relazione incondizionata, in cui è infranta e sospesa la logica del se e del perché, è impensabile nel pensiero occidentale e la stessa tradizione cristiana ha tentato di «correggerla», come ad esempio nella colletta («orazione») della XXVI domenica del tempo ordinario, dove la comunità celebrante si rivolge a Dio pregando: «O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori, appena si dispongono a pentirsi…». In realtà per il racconto neotestamentario il pentimento dei pubblicani e dei peccatori non è la condizione per farsi accogliere da Dio, bensì il frutto del loro essere già stati accolti da lui quando ancora erano tali: «Dio dimostra il suo amore verso di noi, mentre eravamo ancora peccatori» (Rm 5,8). Reintroducendo l’amore di Dio nello spazio della condizionatezza, il testo liturgico tradisce quanto sia difficile accettare l’esistenza della relazione gratuita che, se veramente tale, non può non abolire al suo interno il se e il perché. 

    * Il secondo tratto della relazione gratuita instaurata dal Dio biblico è il suo essere senza ritorno. Senza ritorno è quella relazione dove l’andare all’altro non è motivato dal proprio bisogno che, attraverso l’altro, si soddisfa, ma dal bisogno dell’altro che, col suo bisogno, mette in discussione e relativizza il proprio, elevando l’io da essere di bisogno a essere responsabile. Senza ritorno è quella relazione dove l’io, uscendo da sé e andando all’altro, non lo prende per riportarlo a sé, come la mano che si allunga per catturare la preda e portarla a sé, ma si arresta di fronte alla sua alterità, sospendendosi come mano di prensione e convertendola in mano di donazione. Per il nostro psichismo e per le nostre filosofie (siano queste premoderne, moderne o postmoderne) l’idea di una relazione senza ritorno è ancora più impensabile della relazione incondizionata, perché per essi ogni movimento di uscita da sé all’altro è come il movimento di uscita della pietra verso l’alto che la forza della gravità riconduce sempre e necessariamente allo stesso punto di partenza. Narrando di un Dio che si rivela ad un gruppo di stranieri schiavi in Egitto e con i quali, sul monte Sinai, stipula un patto affidandosi e consegnandosi alla loro libertà e responsabilità, è soprattutto questo amore senza ritorno che il racconto biblico svela e istituisce: un amore dove Dio, invece di affermare la sua onnipotenza (se per onnipotenza si intende l’onnipotenza della forza), la mette da parte, per lasciare spazio all’uomo e renderlo soggetto della sua storia.

    È certamente vero che, per la bibbia, Dio è onnipotente, ma, per essa, la sua non è l’onnipotenza della forza cui nulla può resistere (questo è innegabile, ma non è questo per la bibbia ciò che fa di Dio il suo essere ultimalmente Dio), bensì l’onnipotenza dell’amore che consiste nel rinunciare alla forza e dischiudere un al di là della forza che è l’amore come bontà e come disinteressamento. L’amore di bontà o gratuità è l’amore dove l’io, invece di ricondurre l’altro a sé per compiersi e realizzarsi con la sua presenza, si arresta e si depone alla sua presenza per farsene servizio e diaconia. Il racconto biblico, dalla prima all’ultima delle sue pagine, è il racconto dell’amore – dell’amore di Dio per l’uomo e dell’amore dell’uomo all’altro uomo – come bontà e come disinteressamento che il Nuovo Testamento chiama agape e l’apostolo Paolo come svuotamento o kenosis (il termine paolino per svuotamento), ed è l’annuncio che l’umano accede alla pienezza del suo senso solo là dove si eleva all’altezza della bontà o santità. Questa – la santità – è il termine biblico per eccellenza per indicare la relazione di bontà che parte dall’io ma non torna all’io. Etimologicamente il termine rimanda ad una radice ebraica che vuol dire separare. La santità o bontà è il movimento di amore con cui l’io si separa definitivamente da se stesso e, liberandosi dall’incatenamento di sé a sé – vero miracolo ed evento – incontra l’altro nella sua alterità e, al di là dell’angoscia del suo essere per la morte, scopre il senso del suo esserci. 

    * Il terzo tratto della relazione gratuita disvelata e istituita dal Dio biblico è la sua esigitività: intendendo con questo termine il fatto che Dio, andando incontro all’uomo gratuitamente, gli va incontro chiedendogli qualcosa ed esigendola imperativamente. All’apparenza l’amore gratuito di Dio sembrerebbe inconciliabile con la sua dimensione esigitiva e imperativa. Ma all’apparenza, perché per la bibbia l’esigitività – il fatto che Dio esige ed esige imperativamente – non solo non si oppone alla gratuità ma ne è la modalità più impensabilmente alta: perché Dio ama di quell’amore che non lascia l’uomo oggetto del suo amore ma lo eleva ad essere soggetto dello stesso amore.

    Immaginiamo un Beethoven redivivo che invece di produrre la musica per i suoi alunni rendesse ognuno capace di produrre una musica come la sua.

    Il Dio biblico è un Dio la cui «musica» – il suo amore gratuito o relazione incondizionata e senza ritorno – non lascia l’uomo nella passività, ma lo rende soggetto di una soggettività destinata a produrre le stesse note.


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