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    Sì alla vita eterna

    Epilogo di «Vita eterna?» di Hans Küng

     

    Perché il tutto?

    Le professioni di fede terminano con la proposizione, che tutti i compositori dei secoli cristiani hanno intrecciato trionfalmente con il grande Amen: «Credo... in vitam venturi saeculi». Una formulazione che, contro tutte le supposte fossilizzazioni e staticità, esprime dinamismo della vita eterna: «Io credo... nella vita del mondo futuro».
    Questa è una certezza che, invece che sullo studio del futuro, si fonda sulla speranza. Come abbiamo visto, il problema del fine ultimo del mondo e dell'uomo, la domanda, perché ci sia in genere qualcosa e non piuttosto nulla, si pone in ogni caso, anche indipendentemente dal problema, se il nostro universo sia spazio-temporalmente finito oppure infinito. Quí viene sollevato un interrogativo fondamentale, che trascende l'empiria del mondo spazio-temporale e la cui soluzione non può essere compito dello studioso di scienze naturali. Ma liquidarlo, per questo, come inutile o privo di senso, sarebbe in realtà un errore.
    In forma sintetica, questo interrogativo suona: Perché il tutto? Come uomo del secolo XX io ho tutti i motivi per non pormi questa domanda dal punto di vista dí una superiorità intellettuale, ma piuttosto con la massima modestia: proprio perché so più che mai quali siano i limiti della nostra facoltà conoscitiva. Non potrebbe, infatti, essere – e lo scienziato Hoimar von Ditfurth propone questo paragone, nel suo eccellente libro su scienza naturale e religione, sulla scorta dei risultati delle scienze del comportamento – [1] che, nei confronti di più ampie dimensioni della realtà, l'uomo abbia una capacità percettiva limitata come quella della zecca, dell'oca selvatica, del gallo o della scimmia antropomorfa nei confronti delle dimensioni che li trascendono? Non potrebbe esserci oggi per l'intelletto umano (nell'attuale stadio di evoluzione del cervello) qualcosa di ancora trascendente, che nei millenni futuri potrebbe divenirci immanente? Non conosciamo noi, in ogni caso, la nostra realtà – il macro – come il microcosmo – soltanto in maniera molto parziale, a grandi linee? La nostra facoltà e il nostro orizzonte conoscitivi non sono molto più limitati di quanto abbiamo ritenuto per lungo tempo: geneticamente condizionati da una millenaria storia evolutiva, come ha dimostrato lo studioso del comportamento e premio Nobel Konrad Lorenz? [2] Un processo di sviluppo millenario della realtà, che è certamente aperto in avanti ed è destinato, se l'uomo non distrugge se stesso e il proprio mondo, a incontrare nuove dimensioni del reale, ma insieme anche nuovi limiti della conoscenza...
    Hoimar von Ditfurth ha perciò ragione di concludere che è stato proprio il fatto dell'evoluzione a farci comprendere che la realtà non può finire là dove finisce la realtà da noi sperimentata: «che l'estensione del mondo reale deve superare, quantitativamente e qualitativamente, con dimensioni inimmaginabili, l'orizzonte della conoscenza a nostra disposizione allo stadio attuale della nostra evoluzione»[3] Egli ha ragione anche quando, con molti altri, ritiene che la vita non è limitata alla nostra piccola terra ai margini di una galassia e che noi, in base alle conoscenze più recenti, dobbiamo contare sulla presenza di esseri viventi, e precisamente di esseri viventi intelligenti, sia pure del tutto diversi da quelli a noi noti, anche su altri astri dello sterminato universo, per cui la fine dell'umanità non equivarrebbe ancora alla fine del mondo o anche soltanto alla fine di tutti gli individui dotati di ragione. Soltanto la «follia della posizione centrale» dell'uomo nell'universo potrebbe immaginarsi qualcosa del genere.
    Questa «follia della posizione centrale» viene sfatata appena si rifletta ai limiti della nostra conoscenza di fronte alle nuove vedute micro- e macrofisiche. Com'è noto, già i filosofi greci della natura Leucippo e Democrito (nel secolo V-IV a.C.) pensavano di aver raggiunto con l'«a-torno» (= l'«in-divisibile») l'unità indivisibile e immutabile della materia. Un errore: come si sa. Ma quando, all'inizio del nostro secolo, Ernest Rutherford e Niels Bohr formularono il modello atomico moderno, un'immagine dell'atomo simile a un piccolo sistema di pianeti – un nucleo con un mantello elettronico – si credette di aver realmente scoperto «ciò che tiene intimamente unito il mondo». Ma anche questa era una conclusione affrettata. Infatti, quanto più, a partire dagli anni Cinquanta, i fisici, con l'aiuto dei potenti acceleratori di particelle di Stanford, Ginevra, Amburgo, sono venuti scoprendo che questo nucleo atomico si compone, a sua volta, di protoni e neutroni, i quali, a loro volta, sono composti di sottounità ancora più piccole, i cosiddetti quark, gluoni (= «collante») e le forze elettrodinamiche, le quali pure possiedono forse, a loro volta, delle strutture, [4] tanto meno possiamo immaginarci quale sia realmente la materia originaria del mondo. Il che significa che, quanto più profondamente penetriamo nella materia, tanto più essa ci diventa incomprensibile, misteriosa, tanto maggiore diventa la distanza tra le teorie degli scienziati e le concezioni del cittadino non formato scientificamente, tanto più evidenti diventano anche i nostri limiti.
    Questo, a quanto mi sembra, vale anche, analogamente, per il macrocosmo. Infatti, quanto più gli astrofisici scoprono che l'universo, oltre alla realtà tridimensionale, comporta una quarta dimensione temporale (e forse anche altre dimensioni), tanto più incomprensibile ci diventa questo spazio-tempo curvo – illimitato e tuttavia finito, secondo Einstein – con i suoi sistemi stellari ancora in espansione e gli oggetti estremamente strani scoperti solo ora (come i pulsar e i quasar). E come l'affascinante mondo delle particelle elementari subatomiche, anche il non meno affascinante universo fisico può essere rappresentato solo in maniera imprecisa dai nostri concetti; in ultima analisi, lo si può descrivere soltanto con immagini, cifre e paragoni, con modelli e soprattutto con formule matematiche.
    In verità, come posso rappresentarmi i processi incredibilmente piccoli, studiati dalla fisica delle particelle elementari – nell'ordine di grandezza fino a 10 -15 cm = 1 biliardesimo dí cm = 1 per 1 milione di miliardi di cm (1 biliardo = 1 milione di miliardi!) e alla velocità di 10 22sec = 1 per 10 triliardi di sec (1 triliardo = 1 milione di biliardi!)? Qui, infatti, perdono sempre più il loro significato corrente persino parole come «parte» ed «estensione spaziale». E come posso «rappresentarmi» il mondo infinitamente grande, esplorato dall'astrofisica, nel quale un astronauta, qualora gli riuscisse di trovare la strada per raggiungere il centro della nostra galassia e fare ritorno sulla terra, ritroverebbe, egli stesso ancora in relativa giovinezza, un'umanità che nel frattempo è invecchiata di circa sessantamila anni? No, non si può nemmeno immaginare che l'uomo possa mai raggiungere le «profondità del cosmo» (o anche solo quelle della propria galassia) e come la stessa scoperta di una «formula cosmica» nel campo subatomico – così in ogni caso secondo il chimico fisico e premio Nobel Il'ja Prigogine – possa offrire la chiave universale di tutti i così vari fenomeni fisici e, quindi, come teme Friedrich Dürrenmatt nei suoi Fisici, un sapere onnipotente.[5]
    Sono perciò più che evidenti i limiti della mia conoscenza nel campo della micro- e macrofísica, e insieme anche la posizione periferica dell'uomo nella totalità del cosmo: che cosa sono, infatti, già gli anni della mia vita in confronto dell'età dell'umanità? Che cosa sono, a loro volta, centomila anni di vita dell'umanità in confronto dei tredici o più miliardi di anni di questo cosmo? E questa terra non è, a sua volta, un granello di polvere in confronto della totalità della galassia, comprendente circa cento miliardi di singole stelle, una delle quali è il sole? E questa nostra galassia non è, a sua volta, un granello di polvere in confronto delle masse di galassie («nebulosa»), ognuna delle quali contiene diecimila galassie, così che il numero delle galassie osservabili si aggira sui cento milioni? Quanto più rifletto sui sorprendenti risultati dell'astrofisica e contemplo, come da sempre hanno fatto gli uomini, il luminoso cielo notturno, non devo io chiedermi, come si è detto, in tutta modestia: che senso ha il tutto? Dove va esso? Dove va l'umanità? Dove vado io stesso?
    È quanto io mi chiedo con il massimo realismo in mezzo alla grande, sublime, e tuttavia insieme crudele, storia del cosmo con le sue catastrofi, che così spesso coinvolgono anche gli uomini: terremoti, carestie, inondazioni ed eruzioni di vulcani. Non devo io, anche in questa prospettiva, quanto più rifletto proprio su questa cosmico-globale storia di catastrofi dell'umanità, chiedermi con sempre nuovo stupore e, insieme, con terrore: che senso ha il tutto? Dove va il tutto? Verso dove va l'umanità, e io stesso?

    Fiducia o sfiducia

    La risposta della fede cristiana, così io spero, è divenuta chiara: l'uomo e il mondo sono destinati a un compimento finale, che sopravverrà loro a opera di Dio stesso. Nella vita del mondo futuro: soltanto di qui proviene un senso ultimo per la vita dell'uomo e per la storia dell'umanità. Ogni uomo, anche lo scienziato e il medico, si trova posto qui di fronte a un'alternativa esistenziale. Riassumo:
    O dico no a un fondamento e a un fine originari della vita umana, dell'intero processo cosmico: le conseguenze sono imprevedibili. A ragione, perciò, anche il premio Nobel per la biologia Jacques Monod, un ateo, evoca il Sisifo di Camus e afferma: «Se accetta questo messaggio in tutto il suo significato, l'uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell'universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini». [6]
    O dico a un fondamento e a un fine originario della vita umana, dell'intero processo cosmico. Allora posso, non certo dimostrare, ma certamente presupporre con fiducia la pienezza di senso della storia del mondo e dell'umanità. Troverebbe allora una risposta positiva il problema di un altro premio Nobel per la biologia, Manfred Eigen: «La conoscenza di connessioni non apporterà mai una risposta al problema sollevato da Leibniz: "Perché c'è qualcosa e non piuttosto nulla?" [7]. Con la fiduciosa indicazione di una realtà prima e ultima troverebbe una risposta questa come l'altra domanda: «Per qual fine c'è qualcosa, c'è il mondo, ci sono io stesso?». In una tale risposta non si devono confondere, per esempio, conoscenze scientifiche e credenze religiose. Al contrario: non si attribuirà a priori al processo evolutivo, in base a impulsi etico-religiosi (perfettamente rispettabili), l'orientamento verso un determinato punto finale Omega e, quindi, una pienezza di senso, come pensava di poter dimostrare con argomenti scientifici Pierre Teilhard de Chardin, un gesuita altamente benemerito della nuova comprensione tra teologia e scienze naturali. Questa risposta sul senso ultimo non può essere data dalle scienze naturali, ma soltanto da una fiducia: perfettamente ragionevole.

    È questa una pretesa intellettuale insostenibile per lo spirito educato scientificamente: che dobbiamo ammettere una realtà in base alla fiducia? Ma colui che è abituato ad attenersi allo scientificamente (anzi, dal punto di vista delle scienze naturali) verificabile, al mondo esterno od oggettivo attingibile empiricamente, può evitare una tale fiducia (o sfiducia)? Per esempio, l'esistenza di un oggettivo mondo esterno, indipendente dalla mia esperienza vissuta, è mai stato dimostrato in maniera rigorosamente filosofica, di fronte a un sol-ipsista filosofico, per il quale esiste «soltanto il sé», l'io, mentre tutti gli oggetti del mondo esterno e anche gli io degli altri sono soltanto contenuti di coscienza, proiezioni oniriche? La storia della critica moderna della conoscenza, da Descartes, Hume e Kant fino a Popper e Lorenz, a mio avviso, ha messo in luce: che non c'è affatto una realtà indipendente dalla nostra coscienza; essa può essere ammessa soltanto con un atto di fiducia. Ma se le cose stanno in questo modo già con la realtà del nostro mondo, alla cui visibilità e tangibilità ama rinviare l'uomo odierno nella discussione del problema di Dio, allora neppure l'esistenza di una realtà di Dio – diversa, ma non separata dal nostro mondo – può venire respinta come pura proiezione per il solo fatto che anch'essa viene accettata in base a un atto di fiducia. Pure essa, quindi, viene accettata, non in base a un semplice sentimento irrazionale, ma neppure in base a una dimostrazione razionale, bensì in virtù di una fiducia perfettamente ragionevole, che, in verità, nel caso della realtà di Dio appare sostanzialmente radicalizzata: di una fiducia in Dio nel senso più sobrio del termine, che è anche detta fede in Dio, una fede indubbiamente messa a particolare prova nelle questioni dell'inizio e della fine.
    Il processo evolutivo in quanto tale non include né esclude, dal punto di vista delle scienze naturali, un'origine prima (un Alfa e un fine-senso ultimo (un Omega). Ora però anche per lo scienziato e il medico, per lo storico e lo studioso di scienze sociali, si pone il problema esistenziale dell'origine e del fine-senso dell'intero processo, problema che neppure essi possono evitare. È una mia decisione di fiducia o di sfiducia, una mia decisione di fede: che io voglia ammettere un'assenza finale di fondamento e di senso, come fa Jacques Monod, oppure un fondamento e un fine originari di tutte le cose, secondo la linea di Manfred Eigen, o, addirittura, un Dio Creatore e un Dio che porta a compimento il processo del mondo, come ammette la predicazione cristiana.
    Un tale voto di fiducia, che indubbiamente trascende l'orizzonte della mia esperienza, non è soltanto ragionevole, ma va anche giustificato con rigorosa onestà intellettuale. Qui, anzi, non si tratta di uno di quei «misteri», che teologi e uomini di Chiesa hanno inventato in virtù delle proprie aporie, costringendosi così poi a contrabbandarli sotto questo nome. No, qui si tratta, al di là di tutte le categorie e rappresentazioni, del vero, unico, ma ovunque presente, Grande Mistero della realtà: quell'unico «mysterium stricte dictum, tremendum et fascinosum» («un mistero in senso stretto, spaventevole e insieme affascinante») che non può essere compreso da nessun concetto, espresso pienamente da nessuna asserzione, fissato da nessuna definizione; che avvolge questa nostra realtà, e tuttavia non si identifica con essa, l'inabita, e tuttavia non si dissolve in essa. Si tratta dell'indicibile, inafferrabile, insondabile Dio stesso. E solo in quanto hanno a che fare con questo grande Alfa e Omega, con il centro dei centri, anche la fine, ma già il centro e a maggior ragione l'inizio del mondo e dell'uomo meritano di venire detti un mistero, un oggetto della «mistica». E poiché nella mia decisione raggiungo quest'unico mistero, neppure essa sarà mai una decisione della ragion pura, sarà invece la decisione di me stesso in quanto persona integrale. Un rischio della fede, affine a quello dell'amore.

    Per i credenti è tutto più facile?

    Nell'ultimo capitolo dell'Homme révolté [L'Uomo in rivolta], Albert Camus, citato da Monod, descrive due decisive esperienze di fondo dell'uomo: il male e la morte. La rivolta «cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio». L'uomo «deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato». Eppure «i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta»: «Nel suo sforzo maggiore, l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma ingiustizia e sofferenza perdureranno, e, per limitate che siano, non cesseranno di essere scandalo. Il "perché" di Dimitrí Karamazov continuerà a risuonare». [8] Non c'è dubbio: «Di fronte alla morte l'uomo invoca dall'intimo la giustizia» scrive Camus, e non tutti muoiono così sereni, così sicuri di sé come il suo eroe Mersault nel romanzo L'Étranger [Lo straniero], che anche nella cella della morte si vieta ogni consolazione da parte del credente in Dio [9].
    Mersault si rivolge con ira contro il sacerdote che gli fa visita per parlare con lui della morte imminente, dei suoi peccati e della giustizia di Dio: «Aveva l'aria così sicura, vero? Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era nemmeno sicuro di essere in vita dato che viveva come un morto. Io, pareva che avessi le mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro dí lui, sicuro della mia vita e di questa morte che stava per venire. Sì, non avevo che questo. Ma perlomeno avevo in mano questa verità così come essa aveva in mano me... Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute e quel soffio uguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora nelle annate non meno irreali che stavo vivendo». [10]
    La figura di questo Mersault non dovrebbe uscirci di mente troppo presto. Qui un uomo rifiuta la consolazione religiosa, non per stupidità o superbia, ma per un senso di dignità, per rispetto della propria identità. L'autocertezza si attesta qui sull'orizzonte dell'assurdità, che non viene deprecata, ma accettata con la massima freddezza. Dopo tutto quello che in queste lezioni è stato detto sulla speranza ín una vita dopo la morte, sulla fiducia provata e realistica, libera di tutte le illusioni, veniamo rinviati ancora una volta, nel momento di concludere, all'interrogativo elementare: come credente in Dio non mi rendo troppo facili le cose con la mia speranza in un senso definitivo, in un compimento ultimo? Troppo facili, perché altrimenti non saprei come sopportare la vita nella sua durezza, brutalità, nel suo caos? La spassionata autovalutazione dell'uomo non comporterebbe che noi dobbiamo vivere per principio senza consolazione, non appartiene, anzi, alla dignità e all'orgoglio dell'uomo vietarsi, senza alcuna superbia, la consolazione della religione, che è pur sempre soltanto una consolazione? Non è più onesto, anche se certamente più duro e crudele, seppellire finalmente le speranze religiose come illusioni? Non ha scritto Sigmund Freud, in maniera esemplare per il nostro tempo, in Die Zukunft einer Illusion [L'avvenire di un'illusione], che l'uomo può vivere senza il conforto delle illusioni religiose, che anche senza di esse egli può sopportare il peso della vita, la realtà crudele? «L'uomo si troverà certamente in tal caso in una situazione difficile, dovrà confessare a se medesimo la propria totale impotenza, la propria irrilevanza nella compagine dell'universo, cesserà di essere il centro della creazione, l'oggetto della tenera sollecitudine dí una Provvidenza benigna. Sarà nella stessa situazione del bambino che ha abbandonato la casa paterna in cui si sentiva così al caldo e tanto a proprio agio. Ma l'infantilismo non è forse destinato a essere superato? L'uomo non può rimanere sempre bambino, deve alla fine avventurarsi nella "vita ostile". Questa può venir chiamata l'"educazione alla realtà"».[11]
    Eppure, può la comprensione della «grande indifferenza» del mondo, della vita, della storia (così Lo straniero), può il pathos della spassionatezza e dell'assenza di illusioni (così Freud, Monod) ridurre al silenzio il grido di Dimitri Karamazov di fronte a tutto il dolore degli innocenti: «Perché?». Questa domanda circa un perché, come ho già detto tante altre volte, trae fuori il problema di un senso ultimo e di un compimento definitivo dai campi di conflitto della nostra terra e alimenta tutte le immagini della speranza, tutte le descrizioni della nostalgia, tutte le visioni del compimento. Tuttavia questa speranza non è un'illusione a buon mercato, e il conforto che se ne ricava non è una consolazione soltanto se la speranza e il conforto sono legati a una realistica illuminazione dell'uomo su se stesso, sulle proprie illusioni di potenza e di dominio. Al sospetto di illusione, avanzato da Freud, e a ogni critica della religione io ho cercato di contrapporre la funzione di smascheramento della religione stessa, naturalmente di una religione purificata e giustificata. Il che significa che soltanto colui, al quale, nella fede nel Dio rivelatosi nella croce e resurrezione di Gesù Cristo, sono state tolte le illusioni su se stesso e dischiusa la via della sequela del Nazareno, non trasformerà la terra in un inferno, ma renderà visibile, già qui e oggi, un frammento del veniente regno di Dio. Su questa speranza non si può far scendere né il sospetto di proiezione né quello di consolazione. Nessuna fuga in avanti, ma – contro il dubbio e la disperazione, sempre in agguato – azioni di speranza. Di fronte al veniente compi mento finale, un contributo alla lotta contro le potenze avverse, che pure Ernst Bloch conosceva, contro il «male», del quale aveva parlato Camus, insomma contro le potenze dell'ingiustizia e dell'illibertà, della miseria: per una maggiore giustizia e vita.
    No, chi prende sul serio ciò, non si rende davvero le cose «piùEpilogo: Sì alla vita eterna 295
    facili». Chi, nei campi di conflitto della nostra terra, nei quali si trova inserito, si attiene anche praticamente alla speranza nella vita eterna di Dio, al di là della sopravvalutazione di se stesso e della disperazione rassegnata, non ha scelto a priori la parte più facile. E chi, in questo modo, non soltanto persevera nella propria speranza in una vita in Dio, ma, credendo fiduciosamente, si affida, nel momento della morte, a questo suo Dío come a Signore e Giudice, è consapevole della serietà e responsabilità della sua decisione, la quale non ha nulla in comune con le illusioni a buon mercato e con il conforto troppo rapido. Se, pertanto, ogni fede nella vita eterna, che rimanga senza conseguenze pratiche, cade sotto il sospetto di illusione e di consolazione, allora attende, tanto più urgente, una risposta la domanda: che cosa cambierebbe se...

    Che cosa cambierebbe, se...

    Sì, che cosa cambierebbe se ci fosse per davvero questo compimento finale nella vita eterna? Alla luce dei progetti filosofici contemporanei, da noi tenuti spesso presenti in queste lezioni, si potrebbe dire: Se c'è il compimento finale in una vita eterna,
    allora io ho la fondata speranza che, contro i timori ateistici di Sigmund Freud, i «desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità» non siano delle illusioni, ma vengano alla fine appagati;
    allora il pensiero, che la morte sia l'ultima realtà in senso assoluto, pensiero che Theodor W. Adorno, nella Dialettica negativa, trovava impensabile, è in realtà impensabile, perché non vero;
    allora mi è reso possibile già ora – in maniera, certo, fondamentalmente diversa da quella intesa da Marcuse – un superamento, un trascendimento liberatorio dell'«uomo a una dimensione» dentro una dimensione realmente altra, un'alternativa reale, come richiede Herbert Marcuse;
    allora neppure la sofferenza inevitabile, che secondo i rappresentanti della teoria critica non si lascia superare concettualmente, neppure la sventura, il dolore, la vecchiaia e la morte del singolo, ma neppure il minaccioso eschaton della noia di un mondo totalmente amministrato, morto, sono la realtà ultima, ma possono rimandare a un Totalmente Altro;
    allora la speranza di Max Horkheimer e di innumerevoli altri uomini in una giustizia perfetta, in un senso incondizionato e in una verità eterna, non è irreale, ma, in fondo, finalmente realizzabile, realizzabile infinitamente;
    allora la nostalgia infinita dell'uomo, che, secondo Ernst Bloch, è inquieto, incompiuto, mai soddisfatto, sempre in cammino, desideroso di conoscere e di raggiungere cose sempre nuove, continuamente proteso verso il diverso e il nuovo, ha un senso, e niente finisce nel vuoto; allora anche il grande Peut-étre del morente Rabelais, che per Bloch è rimasto l'estrema possibilità della presa di posizione, ma definitivamente riscattabile, invece che a qualcosa di indeterminato e di incerto, rinvia a una realtà totalmente altra, nuova.
    Anzi, se la speranza in un Dio in cielo è giustificata, allora per questa terra si può comprendere, legittimare e motivare:
    perché l'uomo porti una responsabilità per questa terra, che egli stesso non ha creato, per la natura, che non è certamente più oggetto di un fervore romantico-religioso, ma il fondamento della sua vita, con il quale egli deve comportarsi in maniera razionale;
    perché noi non dobbiamo preoccuparci soltanto della nostra generazione, ma anche delle generazioni future; perché, quindi, anche le future generazioni hanno un legittimo interesse a una terra abitata, a delle risorse naturali non sprecate dagli armamenti, a un indebitamento finanziario ancora sopportabile;
    perché, quindi, non ogni «crescita» economica è già anche «sviluppo», «progresso»: perché ci si deve sempre interrogare, non soltanto sulla quantità, ma anche sulla qualità della produzione e dei consumi, sulla qualità della crescita, sul fine dello sviluppo e del progresso.

    In summa

    Che cosa significa credere ín un compimento finale nella vita eterna a opera del Dio, che si è rivelato in Gesù di Nazareth?
    Credere in una vita eterna significa convincersi, con ragionevole fiducia, con fede illuminata e speranza provata, che un giorno io sarò pienamente compreso, liberato dalla colpa e definitivamente accettato, potrò essere me stesso senza paura; che la mia esistenza opaca e ambivalente, come in generale la storia umana profondamente lacerata, diventerà definitivamente comprensibile e la domanda circa il senso della storia troverà finalmente una risposta. Perciò io non ho bisogno di credere, con Karl Marx, al regno della libertà soltanto qui sulla terra o, con Friedrich Nietzsche, all'eterno ritorno del sempre uguale. Ma non ho neppure bisogno di considerare, con Jacob Burckhardt, la storia con distacco stoico-epicureo, come farebbe uno scettico pessimista. E a maggior ragione non ho bisogno di piangere, con Oswald Spengler, lacrime di critica della cultura sul tramonto dell'Occidente o sulla nostra propria esistenza.
    No, se credo in una vita eterna, io posso lavorare in tutta sobrietà e realismo, senza cadere vittima del terrore diffuso dai violenti «benefattori del popolo», per un futuro e una società migliori, e anche per una Chiesa migliore, in pace, libertà e giustizia: e insieme so, senza illusioni, che tutto ciò, dall'uomo può soltanto venire desiderato, ma mai pienamente realizzato.
    Se credo in una vita eterna, io so che questo mondo non è la realtà ultima, i rapporti non rimangono così in eterno, tutto ciò che esiste – comprese le istituzioni e le gerarchie sia politiche che religiose – ha un carattere provvisorio; provvisoria rimane la divisione ín classi e razze, poveri e ricchi, dominanti e dominati; il mondo è mutevole e modificabile.
    Se credo in una vita eterna, allora mi diventa possibile scoprire continuamente un senso nella mia vita e in quella degli altri. All'inarrestabile evoluzione del cosmo è dato un senso in base alla speranza che soltanto con la gloria di Dio si giungerà al vero compimento finale dell'individuo e della società umana, anzi, alla liberazione e glorificazione della creazione, sulla quale gravano le ombre della caducità. Solo allora verranno superati i conflitti e le sofferenze della natura e i suoi desideri saranno appagati. Sì «ogni piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità», il canto di Nietzsche nello Zarathustra trova qui, e soltanto qui, il suo vero posto. Istruito dall'apostolo Paolo, io so che anche la natura parteciperà alla gloria di Dio: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». [12]

    Ma nella fede nel Dio che si è rivelato Gesù di Nazareth devo partire dalla convinzione che un vero compimento finale e una vera felicità dell'umanità possono esserci soltanto se vi avrà parte, non soltanto l'ultima generazione, ma anche la moltitudine di coloro che in passato hanno sofferto, pianto e sanguinato. Non un regno umano, ma soltanto il regno di Dio è il regno del compimento finale: è il regno della salvezza definitiva, della giustizia realizzata, della libertà perfetta, della verità senza ombre, della pace universale, dell'amore infinito, della gioia straripante, appunto, della vita eterna.
    Vita eterna significa liberazione senza nuove forme di schiavitù. Il mio soffrire, il dolore dell'uomo, è eliminato, e comparsa la morte della morte: «Un canto nuovo, un canto migliore» (Heine) verrà allora cantato. E la storia avrà raggiunto il suo fine: l'umanizzazione dell'uomo sarà conclusa. Allora, come Marx sperava, lo Stato e il diritto, ma anche la scienza, l'arte e persino la teologia diventeranno realmente superflui. Questa è l'autentica trascendenza (Bloch), la «dimensione realmente altra» (Marcuse), ma la vera «vita alternativa»:
    Non dominerà più il «Tu devi», la morale, ma il «Tu sei», l'essere.
    Non sarà più la relazione a distanza, la religione, a determinare il rapporto Dio-uomo, ma la rivelata unità di Dio e uomo, sognata dalla mistica.
    Non sarà più in vigore la sovranità di Cristo, che, sotto il segno della croce e nella fede, caratterizza il tempo intermedio della Chiesa, bensì, direttamente e soltanto, per il bene di una nuova umanità, la sovranità di Dio. Sì, Dio stesso governerà nel suo regno, al quale si subordinerà e sottometterà anche Gesù Cristo, il Figlio, secondo la grande parola di Paolo: «Quando tutto gli (al Figlio) sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutto». [13]

    Dio tutto in tutto: io posso abbandonarmi alla speranza che, nell'eschaton, nel tempo veramente ultimo, nel regno di Dio, venga eliminata l'estraneazione tra creatore e creatura, uomo e natura, logos e kosmos, la frattura tra aldiqua e aldilà, sopra e sotto, soggetto e oggetto. Dio, allora, non sarà più soltanto in tutto, come già ora. Ma veramente tutto in tutto, perché è lui – trasformando tutto in sé – a rendere tutti partecipi della sua vita eterna in una pienezza illimitata, infinita. «Poiché» dichiara Paolo nella Lettera ai Romani [14] «da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli.»
    Dio tutto in tutto: è quanto, in grande forma poetica – fusione di liturgia cosmica, di esultanza sponsale e di silenziosa felicità – viene espresso dal veggente, in maniera per me insuperata, nelle ultime pagine del Nuovo Testamento, alla fine della misteriosa Apocalisse, con frasi di promessa e di speranza, alle quali vorrei affidare il compito di chiudere questa serie di lezioni sulla vita eterna: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare (luogo del caos) non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate». [15] Non ci sarà più, quindi, soltanto una vita nella luce dell'Eterno, ma la luce dell'Eterno sarà la nostra vita e la sua signoria la nostra signoria: «Essi vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli».[16]

    NOTE

    1. H. von Ditfurth, Wir sind nicht nur von dieser Welt. Naturwissenschaft, Religion un die Zukunft des Menschen, Hamburg 1981; (trad. it., Non siamo solo di questo mondo, Longanesi, Milano 1982).
    2. K. Lorenz, Die Rückseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, München-Zürich 1973; (trad. it., L'altra faccia dello specchio, Adelphi, Milano 19772).
    3. H. von Ditfurth, op. cit., p. 189.
    4. Un'introduzione di facile comprensione alla ricerca più recente si trova in H. Fritzsch, Quarks. Urstoff unserer Welt, Müchen-Zürich 1981.
    5. I. Prigogine-I. Stengers, Dialog mit der Natur, Neue Wege naturwissenschaftlichen Denkens, München-Zürich 1980, p. 10: «È una storia drammatica. Ci furono in realtà momenti nei quali sembrava che questo programma orgoglioso stesse per realizzarsi. Uno di questi momenti fu, per esempio, la formazione del celebre modello atomico di Bohr, che riduceva la materia a semplici sistemi planetari di elettroni e protoni. Un altro momento di grande tensione è legato al tentativo di Einstein di condensare tutte le leggi della fisica in un'unica "unitaria teoria di campo". Questo gigantesco sogno è oggi fallito. Da qualunque parte guardiamo, non scopriamo che evoluzione, diversificazione e instabilità. E interessante che ciò valga per tutti i piani fondamentali: nell'ambito delle particelle elementari, nella biologia e nell'astrofisica, che ci mostra un universo in espansione e l'evoluzione delle stelle, culminante nella formazione di buchi neri».
    Il risultato più importante della discussione sull'instabilità e irreversibilità dei processi («la comune freccia del tempo») è visto da Prigogine nel fatto che il futuro sia contenuto nel presente e che perciò, nella scienza della natura, sia giunta «la fine dell'ideale classico dell'onniscienza» (e ciò anche teoreticamente): «Le scienze naturali si sono quindi liberate, sia sul piano macroscopico che su quello microscopico, di una concezione della realtà oggettiva che credeva di dover negare il nuovo e il molteplice in nome di una legge universale immutabile. Esse si sono liberate di un incantesimo, che ci faceva apparire la razionalità come qualcosa di chiuso e la conoscenza come qualcosa di conclusivo. In tal modo esse si sono aperte all'inatteso, che non spiegano più come il risultato di una conoscenza imperfetta odi un controllo insufficiente. Si sono aperte al dialogo con una natura, il cui contenuto non può più venire esaurito da una razionalità che tutto domina. Ci avviamo a un dialogo con un mondo aperto, nella cui costruzione noi stessi svolgiamo un ruolo» (p. 284).
    6. J. Monod, Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne; (trad. it., Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna, Mondadori, Milano 1970, p. 138).
    7. M. Eigen-R. Winlder, Das Spiel. Naturgesetze steuern den Zufall, München 1975, pp. 190sg.
    8. A. Camus, L'Homme révolté, Paris 1951; (trad. it., L'uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1976, p. 338).
    9. A. Camus, L'Étranger, Paris 1953; (trad. it., Lo straniero, Bompiani, Milano 1980).
    10. Ibid., pp. 147sg.
    11. S. Freud, Die Zukunft einer Illusion, 1927, in Studienausgabe, Frankfurt 1974, vol. IX, p. 182; (trad. it., L'avvenire di un'illusione, in Il disagio della civiltà e altri saggi, cit., p. 189).
    12. Rm 8,19-23.
    13. 1 Cor 15,28.
    14. Rm 11,36.
    15. Ap 21,1-4.
    16. Ap 22,4sg.

    (Mondadori 1983, pp. 286-299 e (note) pp 334-335)


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