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    Sfide intellettuali

    per il cristianesimo odierno

    Hans Joas

     


    Le sfide, a cui il cristianesimo si vede posto di fronte nel nostro tempo, sono molto diverse fra di loro. Per farcene un'idea possiamo suddividerle provvisoriamente in due tipi: sfide che provengono dal cambiamento sociale, e sfide che provengono dai cambiamenti culturali. Del primo tipo si è occupato il capitolo precedente. In questo capitolo bisognerà seguire prevalentemente un'altra traccia. Si tratta infatti qui di sfide intellettuali che provengono anche dalla cultura occidentale. A tal fine mi ispiro a un articolo di Ernst Troeltsch, pubblicato oltre un secolo fa, perché esso ci offre l'occasione per identificare cambiamenti verificatisi nel secolo passato, nonché sfide permanenti e nuove. Ernst Troeltsch pubblicò nel 1910 sulla rivista Logos – che aveva appena fondato insieme ad altri grandi intellettuali come Weber, Edmund Husserl e Georg Simmel –un saggio su «Le possibilità di futuro del cristianesimo» [1]. In questo saggio egli si domandava se in Europa non ci si trovasse alla vigilia della comparsa di fenomeni religiosi nuovi e ancora sconosciuti o di un futuro areligioso, oppure se non si stesse assistendo alla «incipiente dissoluzione della cultura europea in generale, dissoluzione che non sarà in grado di produrre alcun nuovo elemento religioso vitale, ma che non potrà neppure farne a meno» [2]. Contro tutti questi scenari – pessimistici dal punto di vista cristiano – egli persistette nel dichiararsi in favore almeno della possibilità di un nuovo appello alle energie religiose del presente e di una profonda riforma dell'organizzazione dei cristiani. Come aveva già spiegato un anno prima in una delle sue opere principali [3], egli si immaginava tale appello come un'unificazione delle forme sociologiche fondamentali del cristianesimo (chiesa, sette, mistica), in una compenetrazione reciproca di questi tipi di organizzazione e di conciliazione dei motivi che ne stanno alla base. Le sfide intellettuali principali che si ponevano al cristianesimo consistevano a suo giudizio nella crescente incapacità di comprendere quattro contenuti essenziali del messaggio cristiano: (1) l'éthos dell'amore, (2) l'idea della persona, (3) il carattere comunitario del culto e (4) la concentrazione di tutta la spiritualità in Gesù Cristo. Tali sfide scaturiscono pertanto – nel mio linguaggio, non in quello di Troeltsch – (1) dall'egemonia intellettuale di valori e assunti cognitivi, che fanno diventare sempre più incomprensibile l'éthos dell'amore, (2) da un'immagine dell'uomo che contesta lo status eccezionale della personalità umana, (3) da una concezione sempre più individualistica della spiritualità e (4) dalla perdita dell'idea della trascendenza, perché senza di essa rimane precluso l'accesso alla comprensione del Figlio di Dio come mediatore fra immanenza e trascendenza. A proposito di ciascuno di questi quattro punti proporrò adesso alcune considerazioni più specifiche, prestando ogni volta una particolare attenzione alla situazione intellettuale del nostro tempo.

    Éthos dell'amore

    Sono due le forme di individualismo che hanno svolto un ruolo egemonico in tutto il mondo occidentale, nel corso degli ultimi cinquant'anni. Definisco la prima individualismo "utilitaristico", cioè un atteggiamento verso la vita che mira sempre a ricavare dei profitti, che si concentra sull'acquisizione immediata di vantaggi, il più delle volte materiali, e sulla scelta razionale di strategie di azione capaci di raggiungere tali scopi. La seconda forma egemonica di individualismo la chiamo "espressiva", un aggettivo con cui voglio indicare il fatto che l'individuo tende a esprimere se stesso, a realizzare se stesso e a soddisfare i propri bisogni emotivi. Sulla scia di Robert Bellah, il grande sociologo americano della religione, e dei suoi collaboratori, che con l'influente libro Habits of the Heart [4], pubblicato nel 1985, hanno contribuito a rendere popolari questi concetti, si può sostenere che a queste due forme di individualismo corrispondono due tipi sociali, che sono culturalmente dominanti negli USA, ma non solo là: il manager che corrisponde alla forma individualistica, il terapeuta che corrisponde a quella espressiva.
    Tra queste due forme di individualismo si possono creare forti tensioni, come è successo per esempio negli anni Sessanta e Settanta con la rivolta della controcultura giovanile espressivistica contro il mondo orientato al profitto dei padri, il mondo degli organization men. Possono però esserci anche tentativi di non scegliere esistenzialmente tra le due alternative, ma di creare fra di esse un rapporto armonico. Mi sembra che questa sia la caratteristica distintiva della cosiddetta cultura yuppie, nella quale gli uomini nella loro vita professionale danno una preferenza illimitata ai processi del perseguimento dell'utile, ma annettono nello stesso tempo un grandissimo valore al loro tempo libero e alla loro auto-realizzazione estetica [5]. Questo porta alle più diverse forme di consumo dimostrativo (culinaria, conoscenza dei vini) e alla produzione e commercializzazione delle opere d'arte. L'equilibrio fra queste due forme di individualismo è sempre labile e assume forme estremamente diverse a seconda della nazione. A me sembra chiaro che, nel corso degli ultimi decenni, l'egemonia intellettuale dell'individualismo utilitaristico, per esempio la reputazione del paradigma microeconomico della "scelta razionale", sia stata molto più grande negli USA e in parte in Gran Bretagna di quanto non lo sia stata nell'Europa continentale. Per un breve periodo, allorché è scoppiata la grande crisi finanziaria, danneggiando gravemente il prestigio dei banchieri, ma anche di una disciplina economica, che si era dimostrata incapace di prevedere tale crisi, e quando il movente dell'avidità", che era stato giustificato proprio nel nome della sua utilità sociale, è caduto di nuovo in discredito, è sembrato che la situazione stesse cambiando sotto questo aspetto. Ma la diffusa speranza che la crisi fosse già passata e che non avesse in fondo provocato grandi danni ha fatto rifiorire in fretta la fiducia degli utilitaristi in se stessi.
    Particolarmente importante è il fatto che queste due forme di individualismo egocentrico sono distinguibili da altre tradizioni valoriali, che possono essere a loro volta definite "individualistiche", anche se nel loro caso questo aggettivo non significa egoismo o narcisismo, bensì presa in considerazione del valore di tutti gli individui. Per il caso americano, Bellah e i suoi coautori menzionavano due di tali tradizioni: quella repubblicana e quella biblica. Qui il termine "repubblicano" non ha nulla da spartire con il partito politico omonimo, ma si riferisce a una tradizione politica, che risale alla polis democratica ateniese, alla repubblica romana e alle città-stato italiane del tardo Medioevo, e nella quale le comunità sono caratterizzate dal fatto che i loro cittadini svolgono un ruolo attivo nella vita politica e hanno voce in capitolo quando si tratta di dare forma alla vita comune. Dai cittadini ci si attende che agiscano in modo virtuoso, il che non significa altro che questo: il bene comune deve essere per essi più importante del loro utile individuale o della loro autorealizzazione individuale. A dispetto dell'importanza di questa tradizione, è innegabile che essa ha sempre corso il pericolo di porre il bene comune, così come esso era inteso da una repubblica particolare, contro il bene comune di altre collettività. Proprio per questo l'altra tradizione è ancora più importante dal punto di vista etico. La definisco "biblica", perché essa deve abbracciare espressamente, accanto alla tradizione cristiana, anche quella ebraica. In questa tradizione è d'importanza cruciale il decentramento morale: secondo questa concezione gli uomini sono moralmente obbligati a non tener conto, nelle loro decisioni, solo degli altri individui che appartengono alla loro stessa famiglia, repubblica, nazione, religione o classe, ma a tener conto di tutti, di tutti gli uomini, incluse le future generazioni. Un simile orientamento universalistico è stato al centro delle riflessioni di filosofi come Kant, Rawls e Habermas, che l'hanno elaborato sino ai minimi dettagli basandosi sullo studio della sua forma logica. Tuttavia, in tali imponenti sistemi di pensiero rimane insoluta una questione: perché gli uomini devono essere motivati a riflettere in questo modo, quando si tratta della condotta morale della loro vita? Resta perciò oscuro il motivo per cui si dovrebbe essere sensibili alla sofferenza altrui, dal momento che l'esistenza di un dovere del genere non si può dimostrare con una argomentazione razionale [6].
    Ma proprio in ciò consiste la superiorità dell'éthos cristiano dell'amore nei confronti di tutte le varianti universalisti-che di filosofia morale e soprattutto, naturalmente, nei confronti di quelle che ho qui denominato forme egocentriche di individualismo. Per il cristianesimo la sfida intellettuale consiste pertanto oggi nell'indicare i limiti dell'individualismo utilitaristico ed espressivo, nell'evidenziare il carattere non universalistico dell'idea repubblicana e nel criticare le forme razionalisticamente limitate di universalismo morale. In questo contesto occorre poi chiarire il rapporto esistente fra la "giustizia", quale concetto centrale dell'universalismo morale e giuridico, e l'"amore", quale concetto chiave dell'éthos cristiano. Sebbene la fede cristiana in un Dio che ama incondizionatamente gli uomini possa renderci a nostra volta capaci di amare incondizionatamente, essa non contiene però ancora in quanto tale alcuna istruzione completa a proposito del modo in cui dovrebbero essere conciliati fra di loro l'"amore" e la "giustizia", due dimensioni di grandissima importanza per qualsiasi etica politica. I cristiani non sono semplicemente, per dirla con le parole di Max Weber, rappresentanti di un éthos "acosmistico" dell'amore. Essi credono anche nella giustizia, ma si spingono al di là di questa fede in quanto noi chiudono alla necessità di relativizzare di continuo, mediante l'éthos dell'amore, i principi della giustizia indispensabili per l'ordine sociale e politico.

    Personalità

    Per molti la sfida intellettuale più spettacolare per il cristianesimo sta altrove, cioè nel campo di un rinato "naturalismo" riduzionistico. Studiosi del cervello che contestano il senso stesso del concetto di "libero arbitrio"; genetisti, i quali credono che le loro analisi permettano di spiegare già oggi o permetteranno comunque di spiegare in futuro tutto il comportamento umano; sociobiologi che concepiscono l'agire umano come la semplice esecuzione di tendenze insite in geni egoisti; tutti costoro attirano sorprendentemente l'attenzione di vasti settori dell'opinione pubblica, e precisamente non tanto fra gli scienziati, quanto piuttosto fra coloro che Richard Rorty ha definito «science watchers – spettatori della scienza», vale a dire individui che si interessano della scienza soprattutto perché sperano che essa li possa aiutare a sorreggere un'immagine non religiosa nel mondo.
    Ho definito "sorprendente" questa diffusa attenzione, perché a mio giudizio la maggior parte degli argomenti che oggi vengono presentati come ammantati del prestigio di un progresso inaudito nel campo delle scienze naturali, erano già noti nella seconda metà del XIX secolo e in parte anche prima. Già allora essi furono confutati in modo dettagliato, per esempio dai pragmatisti e dai fenomenologi, che accettarono questa sfida, e confutati precisamente mediante chiarificazioni di quel che distingue l'agire umano dal comportamento animale, di ciò che intendiamo propriamente dire quando parliamo di libero arbitrio, del modo in cui la vita istintuale umana, la percezione del mondo e il controllo dei movimenti sono mediati da simboli [7]. Potremmo perciò anche dire che in questo ambito gli argomenti favorevoli e gli argomenti contrari sono stati già avanzati così spesso che risulta difficile parlare di un'autentica sfida intellettuale.
    Con questa osservazione non intendo però affatto dire che non sia importante prestare attenzione ai nuovi tratti del naturalismo riduzionistico e reagire a essi, articolando in modo nuovo il personalismo cristiano. Meno chiara mi sembra l'idea che la difesa della concezione della personalità, la cui importanza per il cristianesimo è fuori discussione, debba avvenire contemporaneamente su questo fronte e su un altro fronte, al centro del quale vi dovrebbe essere l'analisi storica di quella che io chiamo la "sacralizzazione della persona". Anche se i cristiani fossero convinti che la tradizione biblica e in modo particolare i vangeli sono profondamente permeati dalla concezione di un nucleo sacro di ogni essere umano ed esprimessero tale convinzione mediante idee quali quelle di un'anima immortale, della somiglianza dell'essere umano con Dio o della sua figliolanza divina, ciò non significherebbe che essi possano affermare che nella storia del cristianesimo tali idee abbiano sempre svolto una funzione di guida nella soluzione delle questioni relative a una giusta strutturazione della comunità politica. C'è invece voluto molto tempo prima che, anche in stati nominalmente cristiani, da questa idea della dignità di tutte le persone fossero tratte conseguenze in fatto di democrazia e diritti umani. In questo ambito, il ruolo delle chiese cristiane non è stato affatto sempre quello di un battistrada. A mio giudizio solo il XVIII secolo, con le dichiarazioni dei diritti dell'uomo proclamate in Nord America e in Francia, diede il via a sviluppi che perdurano anche oggi e che non si sono ancora affatto pienamente imposti su scala mondiale. Per il cristianesimo la sfida intellettuale consiste perciò soprattutto nel verificare senza illusioni e in modo autocritico i nessi esistenti fra il cristianesimo e la "sacralizzazione della persona". Quale ruolo hanno svolto e svolgono i cristiani, le chiese cristiane o i raggruppamenti religiosi nella storia dei diritti dell'uomo, nell'abolizione della tortura, nell'abolizione della schiavitù, nel superamento della discriminazione delle donne o delle minoranze sessuali? Non hanno forse fornito e forniscono ancora, per esempio, giustificazioni per il mantenimento di condizioni ingiustificabili dal punto di vista di una dignità universale dell'uomo? Questa sfida impone anche di non fraintendere in modo relativistico la consapevolezza del fatto che i valori hanno conosciuto e conoscono uno sviluppo storico, come se la loro genesi storica fosse una prova del fatto che la loro pretesa di essere validi per sempre è insostenibile e che sia possibile perciò sbarazzarsi dalle loro pretese, dando così ragione a Nietzsche e Foucault [8].

    Spiritualità

    Molti nostri contemporanei ammettono oggi francamente di avere dei bisogni e delle esperienze "spirituali", per esempio nell'ambito dell'arte o dell'éros o anche quando sono posti di fronte a crisi esistenziali provocate da una grave malattia, dalla paura della morte o dalla perdita di persone care. Mossi da simili bisogni spirituali essi si interessano spesso a tradizioni religiose esotiche e cercano di esercitarsi in pratiche spirituali. Questo bisogno non si traduce però, se non raramente, nell'esigenza di avvicinarsi alla chiesa, perché essi partono dall'idea che la spiritualità sia qualcosa che può essere sviluppato solo in maniera puramente individuale. Di conseguenza, vedono la chiesa più come un ostacolo che come una risorsa per lo sviluppo della loro personalità.
    Viceversa, tutti i cristiani che appartengono a una chiesa – soprattutto i cattolici – incontrano l'incomprensione dei loro contemporanei, quando manifestano preoccupazioni, dubbi e irritazione a proposito della loro chiesa, senza però mettere in discussione la loro appartenenza. Questa incomprensione è il risultato di una concezione oggi diventata una ovvietà indiscussa: l'idea, cioè, che un'organizzazione sociale dovrebbe nascere sempre e ovunque dalla libera unione dei suoi membri e che bisognerebbe pertanto respingere la tesi che un'organizzazione possa essere preordinata o sovraordinata a tale principio della libera adesione. In questo senso, l'idea che la chiesa sarebbe in possesso di uno status del genere e che solo lei abiliterebbe gli individui a credere e a diventare chiesa contraddice profondamente le tendenze individualistiche del nostro tempo.
    Ernst Troeltsch adoperò un'espressione polemica per descrivere questa incapacità individualistica di concepire la chiesa come una comunità che rende possibile l'individualità. Egli parlò in questo caso della riduzione della chiesa a una "associazione cultuale", a una semplice associazione dedita a compiere in maniera comunitaria dei riti, priva, però, di qualsiasi carattere sovrapersonale. Qui la situazione è particolarmente complicata, perché la concezione della giusta organizzazione sociale dei cristiani non è affatto univoca all'interno del cristianesimo. I cattolici e, fino a un certo punto, anche gli anglicani, gli ortodossi e i luterani hanno un forte concetto di chiesa, mentre versioni più radicali del protestantesimo si scandalizzarono precisamente di questo fatto e considerarono più adeguate le forme congregazionalistiche e altre forme puramente volontarie di appartenenza ecclesiale. Quando si tratta della concezione della chiesa non possiamo perciò parlare semplicemente di una sfida intellettuale per tutto il cristianesimo. Già all'interno della sola chiesa cattolica sono stati compiuti diversi tentativi di elaborare una concezione della chiesa che non la degradi al rango di associazione cultuale. A tal fine, sono state proposte forme che vanno da quelle autoritarie, gerarchiche ed esageratamente centralistiche, quali quelle proposte dalla chiesa cattolica in modo particolare nel XIX secolo, fino all'idea della chiesa come "trama dell'agapé". Il cardinale Lehmann [9] ha delineato molto bene, sulla falsariga delle quattro proprietà della chiesa menzionate nella professione di fede (una, sancta, catholica et apostolica), una concezione della chiesa che la presenta come una ma non uniforme, santa ma anche peccatrice e, quindi, sempre bisognosa di essere riformata, missionaria come gli apostoli, a cui essa si richiama, e cattolica nel senso di un universalismo concreto, che supera tutti gli elementi nazionali e culturali particolari. In questa prospettiva l'elemento cristiano comune deve sempre precedere la distinzione confessionale. Nel suo libro L'età secolare Charles Taylor ha coniato, sulla base degli scritti dei grandi teologi francesi Henri de Lubac e Yves Congar, l'espressione "trama dell'agape" e ha cercato di affermare con essa una specifica modernità dell'idea di "chiesa", non ovviamente della sua realtà effettiva, che spesso si discosta da tale idea: «La linfa della nuova relazione è l'agape, che non potrà mai essere compresa semplicemente nei termini di un insieme di regole, bensì come l'estensione di un certo tipo di relazione, che si dirama come una specie di rete. In questo senso la chiesa è essenzialmente una rete sociale, ancorché unica nel suo genere, in quanto le relazioni non sono mediate dalle forme storicamente determinate di dipendenza parentale, lealtà a un capo ecc. Essa le trascende tutte, non sfociando però in una società categorica fondata sulla somiglianza tra i propri membri, come per esempio la cittadinanza, bensì in una trama di relazioni sempre differenti di agapé [10].
    Per Troeltsch, comunque, «l'autonomia della coscienziosa convinzione personale non può significare qui, così come non può significare neppure altrove, la totale assenza di tradizioni e la piena istantanea spontaneità» [11]. Non si tratta infatti di sostituire il tesoro storico di esperienze istituzionali con immagini del mondo e pratiche autoprodotte, ma solo di «assimilare e continuare a sviluppare personalmente in modo vivo» l'«elaborazione e l'interiorizzazione delle potenze storiche» [12].

    Trascendenza

    All'inizio ho riformulato l'idea di Troeltsch, secondo la quale sarebbe diventato più difficile comprendere la concentrazione della spiritualità su Gesù Cristo, dicendo che si tratta di una tendenza alla perdita di una comprensione della trascendenza. Ciò può sembrare a prima vista un po' enigmatico. Con tale riformulazione, però, non mi riferisco a quell'accezione annacquata di "trascendenza", nel senso di una qualsiasi forma di superamento della realtà quotidiana, che spesso ricorre oggi nei dibattiti sulla religione. Mi riferisco, piuttosto, a una concezione alta della trascendenza, come per esempio quella sviluppata dall'ebraismo, e non solo da esso, durante la cosiddetta epoca assiale, e che può essere interpretata come una desacralizzazione radicale di tutte le strutture della sovranità politica e della disuguaglianza sociale, insomma la concezione della trascendenza di cui parlano i profeti biblici. E le parti costitutive centrali della fede cristiana (l'incarnazione, la dottrina della Trinità) presuppongono tutte questa concezione "profetica" della trascendenza. Senza di essa non è affatto possibile comprendere la mediazione specificamente cristiana tra trascendenza e immanenza in tutta la sua intensità. Nel dialogo interreligioso tra le religioni "abramitiche" questo punto costituisce un'importante sfida intellettuale. Ma altrettanto importante è il confronto battagliero con i tentativi compiuti scientemente dalla filosofia, cultura e politica novecentesca di ignorare la richiesta fatta dalla trascendenza di relativizzare tutta la realtà terrena. Io vedo in pensatori come Martin Heidegger e Georges Bataille, nonché in molti loro seguaci postmoderni, dei sostenitori di una simile "detrascendentalizzazione", così come li vedo, naturalmente in altre forme, "nelle religioni politiche" del secolo passato, per esempio nei tentativi del nazionalsocialismo di rivitalizzare la religione germanica o nell'autosacralizzazione staliniana dell'ordine post-rivoluzionario e del suo leader politico. Per tutti coloro che potrebbero essere definiti cristiani post-totalitari, quindi per un cristianesimo passato attraverso la repressione totalitaria e che ha anche sperimentato sulla propria pelle o su quella dei padri la tentazione totalitaria, il confronto con l'ostilità verso la trascendenza e con la perdita della trascendenza rappresenta una delle sfide più importanti del presente [13].
    D'importanza centrale a tal fine è l'analisi storica della nascita dell'idea di trascendenza e dei motivi della sua scomparsa. Questa idea è nata nel periodo storico che va dall'800 al 200 avanti Cristo, e Karl Jaspers ha notoriamente sintetizzato un'idea che circolava già da lungo tempo, e che ricorreva anche in Max Weber, con l'espressione «epoca assiale» [14]. Negli ultimi decenni il potenziale politico-morale dell'idea di trascendenza rispetto alla critica dell'ordinamento terreno è stato messo in luce in maniera più chiara di quanto non avvenisse in Weber e Jaspers mediante strumenti concreti di matrice storico-sociologica. Nel corso di questo lavoro sono state evidenziate anche le somiglianze esistenti, sotto questo aspetto, fra tutte le religioni nate nell'epoca assiale, per esempio fra le religioni abramitiche e il buddhismo e il confucianesimo. In contrasto con quanto sostenuto dai teorici dell'inevitabile scontro delle civiltà, c'è qui la possibilità di una riscoperta di elementi comuni a tutte le religioni postassiali [15] e di un'alleanza fra tutti gli universalisti, non importa se religiosi o secolari, contro le vecchie e nuove forme di antiuniversalismo, come per esempio il sempre più virulento anti-islamismo.
    In questo modo penso d'avere illustrato a sufficienza le quattro principali sfide intellettuali con cui il cristianesimo è chiamato a fare i conti. Questo elenco delle sfide non è ovviamente completo. Mi sono limitato infatti a quelle concernenti il nucleo del messaggio cristiano. Il discorso non mi pare che possa essere esteso, d'emblée, al caso dei processi di cambiamento del nostro tempo che riguardano più da vicino le questioni politiche. Dicendo così non intendo minimizzare l'urgenza di occuparsi dei pericoli ecologici, dei pericoli giganteschi provocati dai mercati finanziari non regolati, del problema della fame mondiale o degli spostamenti che si verificano nel sistema delle potenze mondiali. Ma questi sono compiti che riguardano in egual modo tutte le correnti di pensiero e i sistemi di valori contemporanei, e non sono sfide speciali lanciate alla fede cristiana. Qualcuno noterà tuttavia con sorpresa che nel mio elenco mancano due punti, che molti si sarebbero aspettati di trovare al primo posto. Prima di concludere devo perciò spiegare perché li ho tralasciati.
    Da un lato, ho rinunciato a classificare i problemi della morale sessuale come un'importante sfida intellettuale. Mi sembra infatti chiaro che la dottrina cristiana debba desumere qui tutte le sue proposizioni dall'éthos dell'amore. I problemi emergono solo se si perde di vista questo punto e si deducono le dottrine non dall'éthos dell'amore, ma da problematici assunti antropologici o giusnaturalistici. Solo allora, sul terreno della contraccezione, viene attribuita un'erronea precedenza al punto di vista della procreazione dei figli rispetto all'espressione dell'amore corporeo. Solo allora, quando si tratta di giudicare le relazioni omosessuali, l'omosessualità viene dichiarata un problema, anziché rimettere al centro la questione di come debba essere vissuto l'amore tra due esseri umani. Solo allora il significato del celibato dei sacerdoti diventa incomprensibile al di fuori della chiesa, in quanto è percepito come un ulteriore sintomo di ostilità nei confronti del sesso, anziché essere visto come il segno di un'ascesi liberante, cui molti volontariamente e non coercitivamente si sottopongono, per potersi dedicare pienamente al servizio degli altri. Qui non mi pare che siamo di fronte a una sfida intellettuale di prima grandezza, perché si tratta in fondo soltanto di permettere al nucleo del messaggio cristiano dell'amore di estrinsecarsi in maniera (definitivamente) libera.
    Manca anche la sfida lanciata ai cristiani da una presunta «dittatura del relativismo» (Joseph Ratzinger). A parte il fatto che il termine "dittatura" è un termine troppo forte per indicare una battaglia che si svolge nell'arena dell'opinione pubblica, e che esso non andrebbe usato per attaccare una posizione maggioritaria o egemonica, neppure il termine "relativismo" è adatto per caratterizzare le opinioni dominanti nella vita pubblica generale o nella vita accademica delle società occidentali. In fondo, è molto piccolo il numero di coloro che, in questioni epistemologiche o di filosofia morale, si dichiarano esplicitamente in favore di un atteggiamento relativistico. Non si può certo dire che costoro costituiscano una maggioranza o addirittura una minoranza che impone la propria dittatura. Più giusto sarebbe partire da un pluralismo di dottrine filosofiche e di atteggiamenti prefilosofici. Di norma, il confronto avviene, dunque, tra pretese di verità concorrenti, non tra una pretesa di verità e la sua negazione relativistica. In particolare, la chiesa cattolica ha oggi buoni motivi per confrontarsi in maniera autocritica con la propria tradizione di un'errata concezione della verità. Sia nel Medioevo e sia in particolare nel XIX secolo e all'inizio del XX secolo la verità è stata spesso trattata come se essa fosse indipendente dalle esperienze degli individui, risiedesse in un campo proprio amministrato dalla chiesa e demandato alla sua protezione, cui gli individui dovrebbero obbedientemente e docilmente sottoporsi. Ma senza un riconoscimento della multiprospetticità di tutti i processi conoscitivi e soprattutto della possibilità di molteplici articolazioni delle esperienze religiose, non è possibile un cristianesimo contemporaneo post-totalitario nel senso qui inteso.
    Soprattutto nel XIX secolo è stata imboccata la via sbagliata della giuridificazione della concezione della fede come un atto di obbedienza da prestare a dottrine ecclesiali. Qui siamo di fronte a una concezione della chiesa che vede in essa un "quasi-stato". Questa via è già sbagliata per il semplice motivo che, nel caso della chiesa – e a differenza dello stato – le persone possono sempre anche optare per la fuoriuscita da essa. Come quasi-stato la chiesa è poi deficitaria anche dal punto di vista giuridico statale: non trasparente, burocraticamente prolissa, senza una tutela incorporata di diritti soggettivi e senza meccanismi di autoriforma organizzativa [17]. Questa via sbagliata diventa particolarmente pericolosa quando le strutture istituzionali si accompagnano ad attese in fatto di lealtà. Ernst-Wolfgang Böckenförde ha convincentemente individuato in un modo di pensare secondo le categorie di una specie di "ragion di stato", cioè in questo caso di una "ragion di chiesa", il fattore per lungo tempo responsabile dell'incapacità della chiesa di scoprire e perseguire i casi di abusi". In questo modo, però, un'istituzione finisce per sacralizzare se stessa, anziché misurarsi e lasciarsi misurare con la pretesa di santità del suo concetto di Dio. Essa corre così il pericolo di essere vissuta come attraente per falsi motivi, «come una grandiosa rovina o un pezzo di antiquariato sicuramente autentico» [18], e non invece in grazia del suo messaggio cristiano.
    Nei confronti delle quattro sfide esaminate qui più a fondo mi pare che il cristianesimo sia, in linea di principio, ben equipaggiato. Esso deve però uscire dalla posizione difensiva a cui è stato relegato nel corso di decenni di progressiva secolarizzazione, soprattutto in Europa, o in cui si è spontaneamente ritirato, e dimostrare la sua capacità di articolare in modo nuovo e convincente il proprio messaggio nei confronti di tali sfide. Solo allora non sarà più percepito come una minoranza in fondo irrilevante. La filosofia e la teologia sono necessarie per una simile nuova articolazione, ma non sono di per sé sufficienti. Senza la storia e senza le scienze sociali la necessaria riarticolazione di quel che intendiamo dire quando parliamo di sacro o di trascendenza, redenzione, profeti e Messia, non può riuscire appieno. Senza di esse non è cioè possibile far comprendere nel nostro mondo che cosa significhi superare la dinamica del sacrificio con l'auto-sacrificio di Dio, che si è fatto carne in un uomo.

     

    NOTE

    1 ERNST TR0ELTSCH, Die Zukunftsmöglichkeiten des Christentums, in Logos 1 (1910/11) 165-185.
    2 Ibid., 168.
    3 ERNST TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, Tübingen 1912, soprattutto 965ss. [trad. it., Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, La Nuova Italia, Firenze 19492].
    4 ROBERT BELLAH et alii, Habits of the Heart. Individualism and Commitment in American Life, Berkeley 1985 [trad. it., Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Armando, Roma 1996].
    5 Al riguardo HANS JOAS, Die Kreativität des Handelns, Frankfurt a. M. 1992, 368ss.
    6 PAUL RICEUR, Liebe und Gerechtigkeit, Tübingen 1990 [ed. it., Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000]; HANS JOAS, Die Entstehung der Werte, Frankfurt a. M. 1997, 265ss.
    7 Uno studio eccellente al riguardo è adesso MATTHIAS JUNG, Der bewusste Ausdruck. Anthropologie der Artikulation, Berlin 2009.
    8 Di questo tema mi sono occupato in HANS JOAS, Die Sakralität der Person. Eine neue Genealogie der Menschenrechte, Berlin 2011, soprattutto 90ss. [trad. it., La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani, Franco Angeli, Milano, in corso di stampa].
    9 KARL KARDINAL LEHMANN, Das katholische Christentum, HANS JOAS - KLAUS WIEGANDT (edd.), Säkularisierung und die Weltreligionen, Frankfurt a. M. 2007, 44-77.
    10 CHARLES TAYLOR, Ein säkulares Zeitalter, Frankfurt a. M. 2009, 480 [ed. it., L'età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, 361].
    11 ERNST TROELTSCH, Die Zukunftsmöglichkeiten des Christentums, cit., 181.
    12 Ibid.
    13 Su questo punto Charles Taylor ha contribuito più di qualsiasi altro pensatore contemporaneo a sviluppare alternative teoriche al passo con i tempi e a formulare un "umanesimo incarnato" di matrice cristiana. Cf. CHARLES TAYLOR, Ein säkulares Zeitalter, cit., 1028ss. [ed. it. cit., 775ss.].
    14 KARL JASPERS, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Zürich 1949 [trad. it., Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1965].
    15 Qui devo rimandare in modo particolare a lavori di Shmuel Eisenstadt e Robert Bellah. Cf per esempio SHMUEL EISENSTADT, Die Achsenzeit in der Weltgeschichte, in HANS JOAS - KLAUS WIEGANDT (edd.), Die kulturellen Werte Europas, Frankfurt a. M. 2005, 40-68; ROBERT N. BELLAH, What is Axial about the Axial Age?, in Archives européennes de sociologie 46 (2005) 69-90. Adesso però soprattutto ROBERT N. BELLAH, Religion in Human Evolution, Cambridge/MA 2011; e ROBERT N. BELLAH - HANS JOAS (edd.), The Axial Age and Its Consequences, Cambridge/MA 2012.
    16 FRANZ X-A KAUFMANN, Kirchenkrise. Wie überlebt das Christentum?, Freiburg 2011.
    17 ERNST-WOLFGANG BÖCKENFÖRDE, Das unselige Handeln nach Kirchen-raison, in Süddeutsche Zeitung (29.04.2010) 2.
    18 CARL SCHMITT, Römischer Katholizismus und politische Form (1912), Berlin 2008, 20 [trad. it., Cattolicesimo romano e forma politica, in ID., Cattolicesimo romano e forma politica; La visibilità della Chiesa: una riflessione scolastica, Giuffrè, Milano 1986, 40].


    (FONTE: La fede come opzione. Possibilità di futuro per il cristianesimo, Queriniana 2013, pp. 227-245)


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