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    Ripensare

    la comunicazione

    della fede

    Claudio Bucciarelli

    I pericoli più grandi per la fede
    non vengono dalla secolarizzazione o dall'ateismo,
    ma dai suoi predicatori.
    (D. Garrone)


    Precedentemente si è cercato di liberare l'idea di un Dio tappabuchi, derivata da un'incauta lettura provvidenzialistica della storia e veicolata anche da una certa malaccorta tradizione cristiana, fino a rispecchiarsi nel detto popolare: «Non si muove foglia che Dio non voglia». In realtà, come si è già accennato, la potenza di Dio non è come noi ci figuriamo la sua onnipotenza, ma essa «si manifesta pienamente nella debolezza», come dice Paolo (2Cor 12,9). In ciò sta il suo amore. La natura non è il «sacro» e Dio non gioca a scatenare terremoti o ad agitare le acque per un eventuale tsunami. Semmai siamo noi, con i nostri comportamenti immaturi e le nostre scelte politiche insensate, che stiamo rischiando di aprire le porte alle acque. Il Dio di Gesù Cristo non gioca con il destino degli esseri umani. Come diceva Albert Einstein per celebrare la sua scienza esatta, nella quale tutto ha una ragione, Dio non gioca a dadi. Perché, allora, si parla tanto di una profonda crisi di fede nel nostro occidente, ricercando nelle molteplici variabili della secolarizzazione la causa di questa constatazione? Perché in questo caso si fa della secolarizzazione un capro espiatorio, senza invece vedere in essa anche un evento provvidenziale per purificare una «"fede sacrale-magica», a volte ingenua e a volte tribale, che sovente ha ben poco a che fare con l'essenza del messaggio evangelico? Forse, con onestà intellettuale, dovremmo ammettere che, al di là delle buone intenzioni, è la nostra evangelizzazione che ha fatto e fa acqua da molte parti.
    Perché su di una buona parte della cosiddetta «gente» non fa presa l'evangelizzazione della Chiesa? Perché molti individui della nostra epoca non ascoltano la parola ecclesiale o fanno finta di accettarla per secondi fini e di ascoltarla per pura convenienza? Esiste ancora il cristianesimo convenzionale? La cosiddetta evangelizzazione della comunità cristiana è tale o si tratta soltanto di catechesi indottrinante o di trasmissione di segni, gesti, parole contrassegnati da una patina abitudinaria di religiosità? In che cosa devono cambiare i cristiani per farsi ascoltare, per essere credibili quando annunciano e testimoniano con la parola e i comportamenti il messaggio evangelico? Sono domande queste alle quali non è certamente facile e semplice dare una risposta soddisfacente, né si pretende di preconfezionarla. Il messaggio evangelico arriverà a interiorizzarsi nella coscienza degli esseri umani, a patto che essi scoprano «il realismo di una fede che coglie la presenza e lo sguardo di Dio nel cuore dell'esistenza umana e di tutte le realtà che la vita comporta» (Carlo M. Martini). La fede evangelica, infatti, non è un dono che possa inserirsi nel vuoto; essa intristisce su di una natura mal costruita o si gonfia come un intonaco appoggiato su una parete inadatta, e alla prima avvisaglia di umidità si scrosta. Allora, come rendere fluida e funzionale, in una traiettoria di «andata e ritorno», la comunicazione tra messaggio evangelico e soggettività umana? Sta proprio qui il nodo che preoccupa l'azione evangelizzatrice e la cui portata investe tutta la Chiesa ministeriale nella varietà dei suoi ministeri e dei suoi carismi.
    Volutamente, nelle prossime considerazioni, si userà il termine comunicazione e non trasmissione per mettere in luce quanto siano importanti per il linguaggio della fede i criteri scientifici della «scienza della comunicazione» anche in rapporto alla trasmissione della fede tra generazioni. Se da un lato questo problema tocca direttamente i cristiani e la loro comunità ecclesiale, da un altro lato non c'è alcun dubbio che esso ha una notevole ricaduta anche quando si tratta di dialogo tra culture religiose diverse. Se è vero, com'è vero, che il Dio di Gesù Cristo, come abbiamo visto, non è il colonizzatore di popoli diversi né di diverse religioni, allora bisogna convincerci che nessun ecumenismo, nessun dialogo interreligioso, nessun incontro di civiltà diverse può avere per oggetto l'imposizione di una verità sulle altre. È necessario che questa novità di Dio emerga in ciascuna tradizione anche e proprio in virtù del dialogo comunicativo tra le diverse religioni e tradizioni culturali. Parlare, quindi, di inculturazione della fede in una società sempre più multiculturale e multireligiosa, presuppone che a monte il problema dell'evangelizzazione tra i cristiani sia posto in termini corretti sia nei confronti della comunità cristiana, sia in relazione ad altri e diversi gruppi religiosi. Di questa problematica se ne parlerà nei capitoli finali, per il momento la riflessione si limiterà ad alcune considerazioni che hanno un particolare riferimento soltanto alla nostra comunità cristiano-cattolica.

    Il problema dell'informazione e del messaggio

    Occorre rendersi conto e darsene una ragione che soprattutto i paesi occidentali, ma in definitiva ormai tutti i paesi del mondo a causa della globalizzazione, stanno entrando sempre più nella spirale delle cosiddette società complesse e policentriche, in quel tipo di società, cioè, caratterizzato innanzitutto da un «sistema senza centro interpretativo», perché plurimi sono i centri ideologici-culturali-sociali, le relazioni, i messaggi, gli scambi; di conseguenza, da un sistema frammentato e differenziato dove le molteplici soggettività vedono aumentare i propri ruoli e si caratterizzano per le tante e differenziate appartenenze, magari tra loro in conflitto e non sempre integrabili. In questo tipo di società produrre non significa semplicemente trasformare le risorse naturali e umane in merci per lo scambio commerciale, ma significa invece sempre più controllare sistemi complessi e immateriali di informazioni, di simboli, di relazioni sociali, di reti informative. Anche il «mercato» non funziona semplicemente come luogo di circolazione delle merci, ma sempre più come sistema veicolato da simboli o in cui si scambiano gli stessi simboli. Non per niente uno dei termini più in voga per definire la società di oggi è il seguente: la società dell'informazione.
    Non bisogna dimenticare, inoltre, che oggi una società dell'informazione accentua volutamente caratteristiche particolari della vita sociale e soprattutto il suo carattere riflessivo, artificiale, costruito. L'informazione è, in una parola, una risorsa di natura simbolica, cioè immateriale, riflessiva; è un bene che per essere prodotto e scambiato esige capacità (virtualità) di simbolizzazione, di codificazione e di decodificazione, che non solo danno per scontata l'acquisizione di una base materiale, ma anche la capacità di costruire universi simbolici dotati di autonomia, e quindi richiamano l'esigenza di strutture biologiche, mediatiche e motivazioni umane adeguate. Una società di apparati relazionali di natura economica-sociale-politica come la nostra, impone strutturalmente profili di identità, definendo il senso e gli orientamenti dell'azione individuale attraverso processi capillari, differenziati, puntuali di diffusione di modelli simbolici. Ciò che importa, infatti, è di ottenere identificazione, magari attraverso molti bisogni indotti, di plasmare cioè identità funzionali, adattabili, fungibili.
    Ora, in questo contesto, fedeli all'obiettivo che ci si pone, che è quello cioè dell'innesto tra la realtà storica e il messaggio evangelico, sorgono alcune fondamentali domande: che tipo di rapporto c'è tra parola di Dio e linguaggio umano? Com'è possibile creare, esplicitamente e implicitamente, le condizioni affinché la parola di Dio abbia la possibilità di parlare all'uomo nella lingua degli esseri umani, la sola che costoro possono comprendere? Da questi interrogativi, sorge un problema importante per la comunità cristiana, perché comunicare significa rendere partecipe, rendere comune e ciò si realizza attraverso l'interscambio di informazioni di cui, in uno stesso contesto di vita (e non parallelo), si codificano e si decodificano il significato e il senso degli eventi, dei comportamenti, degli atteggiamenti. La Chiesa, in tutte le sue variegate componenti, è entrata in questa logica comunicativa? Prima di pensare o di preoccuparsi per elaborare proprie strutture schierate e autonome, la Chiesa-istituzione, in questa problematica sollecitata dalla società dell'informazione e dell'immagine, è seriamente abilitata all'uso delle tecniche massmediatiche e all'interpretazione dei loro messaggi subliminali, simbolici, immateriali, a volte significativi e a volte ambigui, superficiali, inesatti? La comunità cristiana, nell'impegno generoso di annunciare le virtualità divine e umane della parola di Dio, è sufficientemente abilitata al linguaggio della comunicazione massmediatica senza svilire o strumentalizzare il significato e il senso della parola evangelica e dei simboli religiosi?
    Se per comprendere qualunque parola è necessario essere mentalmente aperti al suo significato, per comprendere la parola di Dio come tale bisogna essere sinceramente disponibili e aperti al suo messaggio, significativo e significante, per tutti gli esseri umani e di tutti i tempi. Le scienze della comunicazione però ci ricordano che se lo scarto semantico tra emittente e ricevente (nella doppia direzione di andata-ritorno della comunicazione) è molto elevato, non c'è messaggio! Il messaggio è insignificante, appunto perché la sovrapposizione è ridotta o nulla. E abbastanza logico, a questo punto, riflettere sul dialogo o, meglio, sulla comunicazione tra l'evangelizzazione delle nostre comunità ecclesiali e l'uomo moderno, partendo da questa premessa. Infatti, l'esperienza cristiana è sempre acculturata: nei codici simbolici di una cultura si esprime la proposta dell'evento di Dio che si fa appello e la risposta dell'essere umano che dovrebbe inverarsi, risposta a questo dono interpellante. Ora, in un tempo di radicale trapasso culturale e di diffuso pluralismo, com'è il nostro, si può formulare l'ipotesi secondo la quale l'evangelizzazione sia per molti individui una evangelizzazione-senza-messaggio, una inautentica e superficiale comunicazione unidirezionale, sia in andata che in ritorno. A questo proposito tornano in mente le severe parole di K. Rahner che, a proposito di una certa «predicazione cristiana» dalla monotona ripetitività, la definì «una pia inautenticità di fronte a un popolo inoffensivo».
    Come giustificare tale ipotesi? Due considerazioni sembrano importanti a questo riguardo: da una parte, infatti, molti codici linguistico-simbolici impiegati per inculturare il messaggio evangelico, essendo costruiti in una cultura diversa dall'attuale, risultano spesso indecifrabili per molti uomini di oggi. Essi hanno l'impressione di trovarsi in un paese straniero, dove si parla una lingua straniera. Da un'altra parte, invece, anche molti di coloro che hanno accolto questo messaggio, quando reagiscono all'informazione, cercando di tradurre l'esperienza di fede in un'esperienza etica o in un progetto di vita, lo fanno attraverso i loro codici simbolici che spesso risentono del clima di soggettività espansa, di frammentazione, di società del benessere e dello spettacolo, e ciò spesso non permette ai responsabili delle comunità ecclesiali di percepire correttamente la loro risposta. A volte è possibile imbattersi in una ricchezza «selvaggia» di domanda-di-significato, di protagonismo gratuito, da parte di alcuni settori della popolazione, ma la risposta e/o l'offerta da parte della Chiesa istituzionale e anche delle singole comunità ecclesiali risulta spesso essere assai povera e scarna. Ci si trova così di fronte all'ipotesi abbozzata all'inizio: l'evangelizzazione da parte della Chiesa-istituzione è spesso una comunicazione molto disturbata. L'innesto funzionale dei «fattori» per una efficace comunicazione della fede evangelica non è cosa semplice. Presuppone preparazione e competenza sia dal versante biblico-teologico sia dal versante della comunicazione verbale e non-verbale, e relativi strumenti.

    Il linguaggio umano come mediazione della parola di Dio

    Il primo interrogativo che ci si deve porre, allora, è d'obbligo che sia questo: che tipo di rapporto c'è tra parola di Dio e linguaggio umano? In una visione sacrale del mondo vi era dicotomia tra queste due realtà. Infatti, l'espressione «parola di Dio» indicava prevalentemente i contenuti che la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) e la tradizione ecclesiale offrivano, contenuti che erano considerati come rivelati da Dio nella loro oggettività. Il linguaggio era assunto soltanto come strumento per l'annuncio, per cui aveva soltanto una mediazione riduttiva: il linguaggio umano non riusciva a tradurre completamente la verità divina, ma ciò che esprimeva era esattamente vero, come veniva espresso (si noti che tale concezione condusse al dramma di Galileo e, nel corso della storia, ad altre numerose incomprensioni tra Chiesa e mondo, tra fede e scienza... fino ai nostri giorni). L'insorgere della coscienza storica, l'analisi linguistica e l'ermeneutica moderna, componenti fondamentali dell'atteggiamento «secolare», hanno reso insostenibile una concezione di questo tipo. E così cambiato lo statuto dell'esegesi biblica e della ricerca teologica e quindi la condizione di ogni discorso religioso nel nostro tempo. Man mano che la riflessione dell'uomo moderno si approfondisce nell'ambito della cultura secolarizzata, consapevole cioè dell'autonomia del creato e della storia (cf. GS 36abc: EV 1/1430ss), ci si rende sempre più conto della tensione «trascendente» di ogni discorso umano o dell'orizzonte globale di ogni problema della vita: all'inizio, in itinere e al termine. Così il linguaggio religioso si è trovato a esercitare il ruolo di mediatore del messaggio fondamentale dell'esistenza umana: La vita ha un senso? E quale deve avere? E per realizzare appunto tale funzione il linguaggio della fede nella comunità cristiana ha dovuto ricorrere alla «parola», alla «formula», alla «prescrizione», al «documento».
    La parola di Dio, però, nei confronti delle molteplici parole umane non è un paradigma di contenuti da travasare in altri contenitori e neppure un sistema noto da tradurre in moduli diversi. La parola di Dio è una parola che non patisce usura, che non si ripete, ma che sempre sorprende chi l'ascolta e l'intende. Una Parola che semplifica l'esistenza, perché in grado di ricondurre tutte le parole dell'uomo al «sì» e al «no» essenziali del messaggio evangelico. È una Parola che ama, che salva, che fa vivere. Per questo essa è limpida e non inganna mai, perché è tersa e luminosa come Dio che la pronuncia. Essa non sottovaluta confronti, ma sa discernere, discriminare, giudicare. Essa è per tutti, ma non è esclusivamente di nessuno. Appartiene a Dio in cui tutte le nostre parole si riflettono per non perdersi e guadagnare così il loro piccolo ma sicuro significato. Essa semplifica la vita, ma penetrando nell'esistenza dell'essere umano in qualche modo la sconvolge, la rende più complessa perché la sollecita, la turba, la provoca. Essa è una Parola esigente, che essendo verità è anche vita. Essa non è mai pronunciata invano: fa ciò che dice, mantiene ciò che promette, genera una speranza certa. Essa è presente nel Libro e nella Storia! In questo modo l'uomo è sollecitato a un doppio impegno: deve conoscerla perché è una Parola d'appello e di confronto, ma insieme deve conoscere anche tutte le parole degli uomini, la loro cultura, la loro storia, l'esperienza concreta con tutte le sue voci, per sottoporle al suo giudizio. In questo modo l'uomo fa un lavoro di sintesi e di mediazione, sempre ancorato al significato profondo della parola di Dio, ma anche sempre aperto all'intelligenza di essa attraverso il variare continuo delle parole con cui gli esseri umani conducono ed esprimono le loro ricerche ed esperienze essenziali. Una vita creduta e una fede vissuta! Da qui nasce, tra l'altro, il vero senso della «preghiera cristiana»: infatti, non è tanto Dio che deve ascoltare noi, ma siamo soprattutto noi che dobbiamo ascoltare Dio.
    Questa Parola, in definitiva, non resta mai all'esterno della vicenda umana, chiede invece di attraversarla ed è attenta a tutte le parole che l'uomo pronuncia, a tutte le domande che egli formula, a tutte le risposte che egli raggiunge, affinché esse siano l'eco in cui essa si rifrange per dire, per spiegare, per proporre, per convincere. La parola di Dio è davvero l'incognita che dà senso globale a tutta l'espressione della vita e della storia. Per questo evangelizzare non significa tanto annunciare una dottrina in tutto e per tutto compiuta, trasmettere meccanicamente un prontuario di verità ben articolato nella sua forma concettuale, sempre fisso e sempre uguale, da veicolare da contenitori a successivi contenitori, da sminuzzare agli esseri umani nella varietà dei tempi e dei luoghi. Evangelizzare - detto in termini descrittivi - significa invece annunciare e testimoniare il messaggio vivente di una Persona, il cui senso, i cui significati, i cui contenuti, i cui orientamenti esistenziali vanno sempre interpretati e realizzati all'interno dell'incontro con l'essere umano nella storia. In poche parole, l'evangelizzazione non è «indottrinamento», non è trasmissione unilaterale di una verità concettuale o sperimentale, essa è comunicazione bilaterale vera e cosciente; l'obiettivo fondante dell'evangelizzazione non è la conoscenza mnemonica delle informazioni trasmesse, ma la decisione vitale di lasciarsi incontrare dall'evento evangelizzato, nell'obbedienza (ob-audire!) del messaggio in esso contenuto. L'essere cristiano, allora, non è tanto il risultato di un'assimilazione o di un'accoglienza di una «dottrina» quanto un incontro con una Persona e il suo messaggio. In questa luce vanno lette le parole che Paolo VI affida alla Chiesa: «L'evangelizzazione è l'annuncio e la testimonianza resi al vangelo da parte della Chiesa, attraverso tutto quello che essa è, fa e dice» (EN 14: EV 5/1601). In definitiva e in sintesi, si potrebbe dire che evangelizzare significa educare ogni essere umano a saper guardare il mondo con gli occhi del suo Creatore, che, in forza del suo Verbo, sono molto più umani dei nostri.

    Il linguaggio della fede e il problema ermeneutico

    A questo punto, è consequenziale e logico, dopo le premesse poste, porci alcuni interrogativi riferiti al linguaggio che tenta di reinterpretare e di riesprimere la fede. Come interpretare, allora, le formule di fede del passato? Quale senso e significato delle formulazioni di fede del passato dobbiamo ricercare e ritenere? Come conciliare la fedeltà alla tradizione con l'esigenza della sintonia culturale con il nostro tempo storico? Questi interrogativi possono valere e avere importanza sia per i «documenti» di fede del passato, sia per i «documenti» attuali posti dalla parola di Dio e proposti dal magistero ecclesiale. Di qui l'importanza dell'ermeneutica, che possiamo così descrivere con parole semplici: la scienza e la tecnica dell'interpretazione. Compito principale, quindi, dell'ermeneutica è quello di decodificare un messaggio per ricodificarlo in un altro linguaggio; il suo metodo passa attraverso una buona conoscenza e uno stretto confronto dei due codici, cioè di due linguaggi. Per esempio, i tentativi di ricerca teologica che sono apparsi soprattutto dopo il concilio Vaticano II: la teologia «politica», la teologia della «liberazione», la teologia «nera», la teologia «al femminile» ecc., possono essere visti come tentativi di risposta a una problematica che può essere globalmente definita di natura ermeneutica. Tentativi, infatti, che hanno cercato di «rileggere» il messaggio della parola di Dio, contenuta nel Libro e nei segni dei tempi, alla luce delle nuove situazioni ed esperienze storico-culturali, affinché tale messaggio fosse significativo e significante per l'essere umano di oggi. Tentativi di reinterpretazione e di riespressione del linguaggio della fede, a cui la stessa comunità cristiana, almeno nei suoi elementi più disposti e preparati, deve essere abilitata attraverso la formazione dei formatori (ministri ordinati, catechisti laici, animatori della socializzazione religiosa e della liturgia, operatori di servizi di accoglienza fraterna ecc.).

    Ma, sul piano della metodologia e della tecnica, come si fa l'ermeneutica? A livello schematico e didascalico, anche un semplice credente, intenzionato però a realizzare un percorso che ha come obiettivo la maturità religiosa, dovrebbe riflettere sui seguenti momenti essenziali:
    – si leggono con attenzione i testi, i documenti, le formule. La lettura deve essere attenta e rispettosa per coglierne i contenuti oggettivi. Una lettura quindi non solo in dimensione diacronica (fatti considerati secondo la successione del tempo), ma anche in dimensione sincronica (rapporto tra gli elementi costitutivi di questo sistema di fatti). La prima ragione di questa esigenza sta nel fatto che le nostre «formule» derivano i loro significati dal passato, esse appartengono più alla storia passata che a noi, quindi solo distanziandoci da noi stessi riusciamo a oggettivarle .e a cogliere i significati che tali formule volevano o desideravano esprimere.
    – Si pone attenzione a tre livelli di significato. In ogni formula di fede dotata di senso è possibile rilevare: il livello verbale, legato al sistema linguistico dal quale vengono tratte le parole; il livello globale, collegato al contesto vitale e storico in cui la formula viene pronunciata; il livello profondo, che non viene inteso dal parlante ma che solitamente emerge quando la formula di fede viene pronunciata in un'altra situazione vitale, confrontata cioè con un'altra esperienza.
    – La ricerca del senso profondo è sollecitata dalla Gaudium et spes. In questa costituzione del Vaticano II, infatti, si legge testualmente: «Altro è il deposito e le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo» (GS 62: EV 1/1527). Facciamo un esempio ipotetico per non complicare i riferimenti storici. Se in una prospettiva tolemaica un cristiano avesse negato che Cristo è salito in cielo come prima ne era disceso, non avrebbe potuto affermare la sua trascendenza e la sua glorificazione. Ma se un cristiano oggi negasse che Cristo sia salito per raggiungere il Padre, o che sia disceso, non negherebbe necessariamente il mistero trascendente di Cristo, perché la fede nell'incarnazione e nella glorificazione non è necessariamente legata alla dimensione geografica della formulazione antica. «Se sosteniamo che una formula è vera per il suo significato profondo, non vi è alcuna difficoltà ad ammettere che la sua verità sta molto più in ciò che non riesce a dire, ma che potrà esprimere in un'altra situazione culturale» (Carlo Molari).
    – L'obiettivo finale è il discernimento sapienziale. Una corretta ermeneutica ci insegna che i «misteri della fede» non sono da interpretarsi né come intoccabili commi giuridici, né come realtà da manipolare a nostro piacimento. Coniugare la saggia tradizione con l'attenta ricerca teologica ci porta a quel «discernimento sapienziale» che con profondo connubio la Scrittura definisce l'intelligenza del cuore (mens cordis). Certo, non è facile ruminare la parola di Dio in relazione alla storia e ai segni del tempo, come non è facile acquisire un discernimento dello spirito che, evitando di muoversi in mezzo a certezze squadrate, diventi un atteggiamento profondo che sappia fare sintesi tra l'atto di amare e l'atto del giudicare. È in questo confronto che l'amore in quanto eros avverte il proprio limite e supera se stesso nell'agape. È da qui che nasce la grazia della parresìa evangelica, quel parlar chiaro e con franchezza cioè proprio della profezia, che si rifà al «sì sì, no no» dell'evangelo, perché se delle nostre parole di troppo dobbiamo rendere conto al tribunale della storia, dei nostri silenzi omertosi dovremo rendere conto al tribunale di Dio.

    Per correttezza va fatta una precisazione: nel fare una riflessione teologica in chiave ermeneutica può sembrare di privilegiare il criterio dell'ortoprassi, ma questo non significa sottovalutare i principi tradizionali dell'ortodossia e neppure significa soltanto dire che la credibilità di un enunciato di fede è legata alla testimonianza della vita di chi lo proclama. Si tratta piuttosto di far passare l'ortodossia stessa a una ulteriore verifica di approfondimento, che è in perfetta consonanza con il carattere creativo e liberatore della parola di Dio. Fedele, quindi, al problema ermeneutico, l'evangelizzazione è impegnata ad arrivare a una riformulazione del «messaggio» con un linguaggio capace di riagganciarlo alla vita, alle esperienze storiche e alle attese dell'essere umano di oggi, e di restituirgli così efficacia e capacità di contagio significativo e significante. L'ermeneutica della parola di Dio permette a Dio di riparlare qui e ora! Il messaggio della parola di Dio, racchiuso nella Bibbia e nella Storia, custodito dal magistero della Tradizione e della Chiesa, non si esaurisce mai nelle formule morte di un testo, ma è annuncio sempre vivente dello Spirito nella vita della Chiesa. Il problema ermeneutico, in conclusione, a ogni operatore dell'evangelizzazione, a seconda del suo ministero o carisma, richiede un atteggiamento di disponibilità, di ascolto e di approfondimento, in cui entrano in circolo fra loro parola di Dio, formule di fede, vita della comunità umana, vita della comunità ecclesiale: in questo contesto Dio si fa sempre «segno dei tempi» e lancia a tutti gli esseri umani il suo incessante appello di salvezza. Paradossalmente possiamo dire che sono le stesse Scritture che ci invitano a rovesciare le Scritture: la testimonianza della parola viva di Gesù invita a seguire una logica secondo la quale le Scritture sono fatte per l'umanità e non l'umanità per le Scritture.

    Dal messaggio al metamessaggio

    Un essere umano, allora, che decide di fare un graduale e cosciente cammino alla luce della fede evangelica, interiorizza certamente tante cose, di cui una soprattutto è essenziale: comunque egli si applichi alla conoscenza della parola di Dio, questa la trascende sempre, in modo che egli non cederà mai alla tentazione di crederla esaurita, detta tutta, ormai esplorata. Solo da ripetere. Ben presto, se il suo percorso di fede sarà sincero, egli si convincerà che essa è sempre da reinterpretare e da riesprimere, che essa è sempre nuova e continuamente «mai udita prima»; sorprendente e demitizzante, non si sporca se si incontra con le parole dell'uomo, anzi deve incontrarle per dimostrare tutta la sua vitalità salvifica. In questo senso, come è stato più volte ribadito, la fede evangelica cresce soltanto nel vivo del suo humus: la storia, il mondo. Credere alla parola di Dio per un cristiano non significa allora fuggire dal mondo, ma camminare con il mondo verso un futuro, che è il futuro di Cristo. Credere è coinvolgere il mondo e la storia in questa ferma speranza in Cristo, per il quale ciò che era impossibile è diventato possibile e la vita di ogni essere umano è diventata realtà degna di essere vissuta.
    Queste affermazioni risapute e forse scontate da chi avverte responsabilmente la propria missione evangelizzatrice, rivestono un'occasione educativa della massima importanza, quando sono rapportate nella comunità cristiana al linguaggio catechistico o al linguaggio dell'insegnamento religioso, che per essere efficace non può prescindere dalle comuni leggi della comunicazione educativa. Esemplificando: il messaggio è un'informazione o un insieme di informazioni che costituisce il contenuto di una comunicazione. Esso viene espresso da un «mittente» e ricevuto da un «destinatario», attraverso vari «canali»; tale messaggio poi ha bisogno di essere capito e interpretato. La descrizione invece del metamessaggio attiene a due precisi livelli: il primo è di carattere denotativo e consiste nel contenuto esplicito o letterale dello stesso messaggio; il secondo è di carattere metacomunicativo e consiste nell'insieme dei mezzi (culturali, strutturali...) con cui il messaggio è veicolato. Ora, quando vi è congruenza fra questi due livelli, quando cioè il contenuto esplicito del messaggio è in sintonia con il contesto metacomunicativo, la comunicazione è efficiente, efficace e funzionale; i problemi e le disfunzioni sorgono quando fra i due livelli vi è incongruenza, se non addirittura incompatibilità. In quest'ultimo caso è prudente osservare una saggia «ecologia della parola», non cedere cioè al multiloquio verboso o a parole a effetto retorico-declamato- rio. E assai meglio imparare la lezione del «silenzio».
    Occorre quindi prendere atto che in ogni comunicazione esistono vari contesti, alcuni legati alle caratteristiche esistenziali o educative implicite della persona o del gruppo che vuol comunicare o attraverso i quali si vuole comunicare un messaggio; altri sono collegati alle connotazioni più o meno esplicite del messaggio stesso. Affinché, allora, il messaggio evangelico possa essere significativo e significante per l'essere umano di ogni contesto culturale, non può prescindere da questi criteri fondamentali della comunicazione umana. La «grazia» come la «natura» non facit saltus. In questo senso, l'uomo è religioso non tanto quando trova una Realtà oltre le realtà, ma quando coglie la condizione per cui tutte le realtà sono significative, cioè hanno valore. La ricerca religiosa così non termina a un oggetto o a una persona tra le altre, ma alla «ragione» per cui tutti gli oggetti sono sensati; al «senso» che dà senso a tutte le cose, per dirla con Tillich. Il linguaggio della formazione religiosa, nel contesto di un'autentica evangelizzazione, ha il compito di strutturare ed esprimere l'esperienza religiosa, ma in quanto tale non ha altri contenuti se non quello di «inverare» e di rendere significativi tutti i contenuti vitali dell'esistenza umana. La funzione comunicativa del linguaggio, infatti, è intimamente legata alla funzione vitale. È assai logico, allora, che in una prospettiva del genere, di ricomposizione dell'esperienza della fede nell'uomo moderno, risulti desueto e superato un certo tipo di linguaggio religioso convenzionale la cui «forza evocativa» è decisamente vanificata. Inoltre, in questa ottica perde assolutamente di credibilità e legittimità anche quella dimensione di «neutralità dualistica» spesso giustapposta o incollata alla realtà sociale da un certo tipo di catechesi: infatti non esistono, di per sé, problemi umani e problemi cristiani, ma soltanto problemi umani interpretati alla luce della fede evangelica. Nelle nostre comunità cristiane il linguaggio catechistico, allora, deve farsi necessariamente profano e umano, senza per questo cessare di essere evangelico.
    A questo punto sorge un problema di significativa rilevanza: quello delle strutture ecclesiali in rapporto alla comunicazione della fede evangelica. Infatti, non di rado, le strutture ecclesiali di mediazione si manifestano o si esauriscono in forme di puro consumismo religioso o devozionismo emotivo. Ci si trova dinanzi a tratti di una religiosità che in pratica serve come meccanismo di securizzazione psicologica o di evasione perbenista che, conseguentemente, alimenta l'eventuale livello di alienazione religiosa. Si fa urgente, perciò, nella Chiesa-istituzione il problema delle strutture di mediazione e di comunicazione. Dando uno sguardo in generale, ci si accorge che oggi non sono poche le strutture intermedie di mediazione formativa che sono entrate in crisi, e anche le «comunità ecclesiali» partecipano marcatamente di questa crisi mostrando la loro inadeguatezza e insignificanza, soprattutto se ci si riferisce alle problematiche di alcuni settori generazionali o di categoria professionale: la realtà giovanile, il mondo del lavoro ecc. Intendiamoci, non si tratta di un cambiamento legato soltanto alle cosiddette strutture hard (tecniche o tecnologiche), come si direbbe oggi, ma di un cambiamento soprattutto legato alle strutture soft (cambiamento culturale). In altri termini, nel caso precipuo dell'evangelizzazione, le «comunità ecclesiali», pur apprezzando le nuove tecnologie informatiche, devono essere innanzitutto abilitate a rimettere in discussione un certo «linguaggio religioso», ripetitivo e asettico, in cui si sono comodamente adagiate, e rielaborare creativamente un nuovo «linguaggio della fede». Comunità ecclesiali cioè che dimostrino di avere profondamente interiorizzato il loro riferimento a una Chiesa che non ama il segno del potere economico, culturale, morale, ma ama fortemente il «potere» di alcuni suoi segni poveri e semplici, ma fortemente significativi per tutti gli esseri umani: amore fraterno, comunione, condivisione, speranza, perdono, preghiera, invocazione, solidarietà, servizio, dialogo, misericordia ecc. Insomma, urgono «comunità ecclesiali» capaci di farsi luogo di produzione di senso, umano e umanizzante, aperto al trascendente e alimentato continuamente dal contesto in cui esso è (o dovrebbe essere) innestato: l'humus fecondo della profezia evangelica.

    Il passaggio dal non-senso a un «senso» per la vita

    Allora, produrre senso alla propria esistenza cosa significa? Non occorrono complicate elucubrazioni filosofiche per dare una risposta a questo interrogativo: produrre «senso» significa avere una «ragione» per vivere nell'oggi e per sperare nel domani. Infatti, solitamente, l'uomo moderno, secolarizzato e globalizzato, elabora o fa riferimento a una gamma di «valori» o a suo «sistema-di-significato», da cui deduce una sua autonoma capacità di vivere e di progettare, producendo così la propria «sensatezza o... insensatezza». Ieri (passato recente o remoto) si era più facilmente disponibili ad accogliere proposte di senso, maturate al di fuori della propria esperienza; oggi, invece, una risorgente e forte soggettività accentua una propria autonomia personale, che è vissuta come un'istanza imprescindibile dell'uomo moderno: la «domanda» che affiora non è tanto quella del «senso» (che senso ha?), ma quella dell'«utilità» (a che cosa serve?). Infatti, è assai difficile, per gli esseri umani della civiltà dell'informazione e della tecnica, essere disposti ad accogliere offerte di senso preconfezionate e che provengono dall'esterno. Ora, con questa nuova sensibilità si imbatte inevitabilmente l'evangelizzazione. Di qui, allora, la necessità di approfondire tale fenomenologia ed evidenziare le caratteristiche più importanti della transizione antropologica in atto, che determina un nuovo modo di interpretare la produzione di senso, anche se, nella civiltà tecnologica, hanno sempre una certa incidenza le antiche domande fondamentali dell'esistenza umana: da dove vengo? perché vivo? dove vado?
    Più di ieri, infatti, viviamo nell'alone dell'immaterialità e della crescita del simbolico, fattori questi rilevabili nell'accresciuta rete comunicativa che le nuove tecnologie ci offrono, nella rilevante quantità e rapidità di informazioni, nella dilagante e ambivalente qualità – reale e virtuale – dell'immaginario collettivo, nell'aumento delle opportunità e della varietà dei servizi disponibili. Ebbene, oggi si ha la netta sensazione che questa diffusa atmosfera di immaterialità e di simbolico sia qualcosa da vivere nell'esperienza diretta, nel vissuto di ciascuno e non da giocare soltanto nel messaggio eterodiretto, nelle dichiarazioni di principio precostituite o, peggio, nel fantasmatico. Per le persone superficiali può forse bastare il «virtuale», ma la tendenza ineludibile per l'uomo moderno responsabile è che la ricerca del «senso» della vita non è tanto qualcosa da comprendere cognitivamente, quanto da sperimentare e da vivere: l'attenzione così sembra spostarsi dalla pura sfera cognitiva alla dimensione esperienziale. Il «senso», in definitiva, non dovrebbe venire proposto alle persone in maniera esplicitamente deduttiva, ma come dato da scoprire e da accogliere: esso, cioè, non dovrebbe essere tanto un a priori calato dall'alto, quanto una realtà che viene prodotta, momento per momento, nel frammento di vita che' esprimiamo e sperimentiamo. È in atto, insomma, il passaggio dal tradizionale confronto con i valori intesi come indicatori del senso oggettivo del reale, alla ricerca di valorizzazioni intese come espressioni soggettive di quello che una persona valuta importante per sé.
    Ora, in un'epoca in cui l'essere umano è inebriato dalla sua capacità autocreatrice e partecipativa alla costruzione della storia e del futuro – tendenze che hanno certamente in sé valenze positive –non è comunque facile ricercare, scoprire e accogliere il «valore fondante» che sta alla base dell'esistenza umana. L'ipotesi della «società del segmento», evidenziata dai sociologi della conoscenza, ritiene infatti che uno dei fenomeni più rilevanti che connota la società complessa si manifesta in una segmentazione del vissuto individuale, che si traduce nell'incapacità di trovare da parte degli esseri umani un «perno unitario» (valori condivisi) a cui collegare e dare «senso globale» alla propria esperienza quotidiana. Accanto a questa interpretazione sociologica, però, se ne può aggiungere un'altra: quella cioè che non si tratti tanto di incapacità potenziale, quanto di volontà intenzionale a non voler ricercare e trovare tale «perno fondante» dato che l'uomo tecnologico, risentendo molto dell'eccedenza di opportunità offerte dalla società complessa, sembra riluttante a investire definitivamente le proprie risorse esistenziali su una sola opportunità valoriale o ipotesi di progetto-di-vita. Partendo però da queste considerazioni di analisi interpretativa del vissuto moderno, evidenziate giustamente dagli studiosi della vita sociale, occorre aggiungere un'altra considerazione decisamente sostanziale in merito all'obiettivo della nostra riflessione: l'innesto cioè tra il vissuto storico e il messaggio evangelico. Ora, da parte della fede evangelica e quindi della proposta cristiana non è né auspicabile né possibile costruire un'esistenza evangelizzata, se nell'uomo moderno non sorge una «domanda» di un plus qualitativo capace di dare un significato fondativo dell'esistenza. Tale plus è un «senso» per la vita.
    Certo, riprendendo l'approccio di analisi interpretativa relativa alla produzione-di-senso accennata dianzi, non è facile descrivere con termini semplici e comprensibili da tutti che cosa significa l'espressione «senso della vita». Senza ricorrere a ragionamenti filosofici, però, una sua descrizione è forse possibile coglierla evidenziando soprattutto gli effetti che il senso stesso postula e provoca. Il «senso», infatti, produce attese, aspirazioni, domande; suscita speranze e rende capace di amore o di disamore; stimola un'utopia capace di impegno continuativo e capacità costruttiva; suscita fedeltà e senso del rischio; sostiene la tenacia e la perseveranza attraverso i giorni e le stagioni dell'esistenza umana. Quando manca un «senso» tutta la vita diventa insensata, tutte le cose che si fanno rischiano di perdere i loro significati e i loro contorni precisi; si arriva al non-senso dei rapporti umani e gli avvenimenti perdono la loro possibile qualità; la libertà si paralizza e spesso si traduce in pigra ripetitività o indifferenza; i progetti hanno la durata storica di una ubriacante evasione; la vita si frantuma e si disperde in mille rivoli e in momenti sconclusionati e senza senso: si ricerca una felicità effimera carica di virtualità e aliena a coniugare utopia e realismo storico; si vive cioè per delega e, più che vivere alla giornata, sarebbe più giusto dire che in questo caso si «muore alla giornata». Cosa fare, allora? Una proposta di base, pensando a questo proposito al necessario e sostanziale fondamento postulato dall'evangelizzazione, può essere senz'altro il seguente punto di partenza: affinché la vita abbia senso occorre credere in «qualcosa» o in «qualcuno». Sì, il senso della vita nasce innanzitutto da un atto di fede – non necessariamente intesa in questo caso come fede religiosa –, atteggiamento di fede visto come un atto mediante il quale l'essere umano si affida «a valori e a speranze», dei quali forse non è ancora in grado di mostrare la pienezza e possibilità di realizzazione oppure l'attitudine a saziare la vita, ma che sono concretamente percepiti come «valori» in grado di costituire quel qualcosa o quel qualcuno per cui la vita ha un significato, è «sensata», è insomma degna di essere vissuta.

    Ricollocare la fede evangelica in rapporto al «senso»

    La vera difficoltà che può disturbare questa comunicazione tra l'uomo di oggi e il messaggio evangelico, riguarda allora la collocazione della fede in relazione alla produzione di senso, che ogni essere umano elabora. Una comunicazione, infatti, è significativa e significante quando afferma un quid su qualche cosa o su qualcuno. L'evangelizzazione è (o dovrebbe essere) proposta di senso all'esistenza umana, interpretata nelle sue istanze immanenti e trascendenti. Perciò è la stessa natura dell'evangelizzazione che postula una sua collocazione nel cuore dell'umana ricerca e produzione di senso: la esige, la stimola, la soddisfa. Certo, l'evangelizzazione propone eventi caratterizzati da uno spessore di verità oggettiva, che non possono essere «ridotti» o «manipolati» a piacimento dalle tendenze soggettive, ed è qui che può nascere un conflitto tra la giusta esigenza di un'autonoma e responsabile soggettività e l'oggettiva forza evocativa e profetica del messaggio evangelico. Tale ipotetica difficoltà non può essere superata e risolta inventando artificialmente una specie di «spazio neutro e protetto» nel cui contesto i due interlocutori ridimensionano in modo accomodante le loro reciproche esigenze. L'uomo moderno non può e non deve rinunciare all'esercizio della sua autonoma e responsabile libertà, d'altra parte il messaggio evangelico può essere accolto e vissuto in pienezza solo da chi, con libertà e responsabilità, è signore della propria esistenza. L'evangelizzazione, infatti, non può passare accanto agli uomini e alle donne, come se il messaggio che annuncia non riguardasse la loro vita quotidiana e trattasse solo di eventi astratti e remoti nel tempo.
    Dal rapporto tra «senso offerto» da un lato e «senso ricercato o prodotto» dall'altro, nasce l'urgenza di ricollocare la fede evangelica in stretto rapporto al «senso» della vita. Ed è proprio la vita quotidiana il luogo della realizzazione del senso, ma non perché sia già innato in essa o lo produca in forza di se stessa. La vita quotidiana è collegata al senso, perché è dentro di essa che ne sorge la richiesta, la ricerca, la postulazione. Che a questa istanza vi sia una risposta adeguata, la vita quotidiana non può dirlo da se stessa; ma, se questa risposta c'è, non potrà manifestarsi che nella vita quotidiana; se il senso si dà, non potrà che darsi dentro di essa. A questo punto, allora, non è difficile capire quale relazione di affinità elettiva leghi tra di loro «parola di Dio e vita quotidiana». La parola di Dio, avendo come contenuto centrale e qualificante la salvezza dell'uomo, può far breccia soltanto lì dove si manifesta il bisogno di salvezza, lì dove l'essere umano sia alla ricerca di un «bene» che non riguardi tanto questo o quel suo bisogno settoriale, ma la totalità del soggetto umano. Questo bene – o salvezza – non è che un altro nome di ciò che abbiamo chiamato il «senso». E la stessa fede evangelica va in questa direzione, perché essa non è regno monolitico di certezze, ma campo di conversione, stimolo di ricerca e di confronto.
    In questo contesto, esemplificando, anche nella religione cristiano-cattolica si assiste a volte al possibile contrasto tra il «vescovo» e il «profeta». Il primo difende ciò che la Chiesa-istituzione ha interpretato come parola di Dio nel passato, mentre il secondo sfida la comunità cristiana ad ascoltare la nuova parola che Dio pronuncia nel presente: i segni dei tempi! Il ruolo del profeta è sempre scomodo e talvolta pericoloso per l'istituzione. Ma qual è il problema: la conservazione dell'istituzione ecclesiastica che interpreta a volte se stessa come unica via intermediaria tra l'uomo e Dio, o la conversione della coscienza? La parola viva di un'esperienza autenticamente vissuta, o la lettera morta della legge scritta? Rifacendosi al pensiero di Mouhier, che sollecita il cristianesimo al ritorno del duplice rigore della trascendenza e dell'incarnazione, Giorgio Campanini sembra dare una risposta storicamente appropriata a quest'ultimo interrogativo: «La trascendenza come silenzio, l'incarnazione come parola: da questo incontro, e da questa necessaria mediazione, dovrà nascere la nuova proposta di fede, sempre meno dipendente dalle strutture e sempre più radicata nelle coscienze».
    L'annuncio evangelico, se è fedele alla propria originaria autenticità, dovrebbe sempre suscitare il «bisogno» o la «domanda» di cui si è accennato, ma purtroppo l'esperienza insegna che non è sempre così. In troppi modelli di evangelizzazione della prassi ecclesiale, infatti, la proposta di fede ha praticamente smarrito la sua forza interpellante e spesso si è ridotta a semplice acritica risignificazione globale di un progetto che l'uomo ha elaborato o con saccente presunzione e autonomia o con gli automatismi rassicuranti del solo linguaggio religioso, che non di rado è cosa diversa dal linguaggio della fede. Ci siamo infatti accorti che la riduzione profetica della fede non ha prodotto né senso né esiti sperati: la speranza evangelica smontata di radicalità ci ha lasciato con le nostre superficialità e le nostre angosce. E molti hanno abbandonato la «sequela cristiana» affascinati da equivoci maestri delle cose penultime. Sarebbe comunque ingiusto affermare che oggi la situazione è completamente allo sbando, c'è «un'economia sommersa» di bontà e di domanda di bene e di onestà nella società civile che è incredibile; in verità e di pari passo stanno crescendo in qualità anche non poche comunità ecclesiali, gruppi di base, in cui si avverte la responsabilità di produrre un'evangelizzazione significativa e significante, nella quale la gratuità della fede sa offrirsi come reinterpretazione e riespressione della ricerca di senso alla luce del messaggio evangelico. Si tratta forse di minoranze, ma sono minoranze qualificate che nascono «dal basso» con piena coscienza e responsabilità, e questo è quello che conta!
    Strettamente collegato alle cose dette resta il mistero di quel quid più volte evocato e che dovrebbe costituire, tra l'altro, la qualità dell'annuncio evangelico. Cos'è questo quid? Si tratta di un evento che non è di poco conto, anche se è ovvia e semplice la sua formulazione: infatti, solitamente se vogliamo conoscere un autore studiamo tutti i documenti che lo riguardano e che in qualche modo lo rendono presente. Esiste un «documento» in cui l'uomo di oggi può trovare e realizzare il suo progetto di esistenza cristiana come proposta di senso? I documenti scritti, sul piano oggettivo e soggettivo, esistono. Il «documento», però, nel caso dell'evangelizzazione che rappresenta quel quid di cui si è parlato, non è tanto una realtà cartacea o un messaggio scritto pur importante (ad es.: un libro, un catechismo, una lettera pastorale, una dichiarazione del magistero...), quanto soprattutto l'esperienza viva della persona credente e della comunità dei credenti che si fa messaggio. Cioè, il «documento» che qualifica l'evangelizzazione, è l'esperienza autenticamente evangelica che si fa messaggio. Ciò che sottolinea l'affermazione fatta all'inizio: l'evangelizzazione non ha tanto come obiettivo la conoscenza delle informazioni trasmesse, quanto la decisione vitale di lasciarsi incontrare dall'evento evangelizzato, nell'obbedienza del messaggio in esso contenuto. «Bisogna annunciare e testimoniare il Dio che risponde alla questione del senso come colui che fa saltare i conti della nostra vita» (D. Bonhoeffer).

    (da: Nessuno è uguale, nessuno è diverso... e i cristiani?, EDB 2008, pp. 153-169)


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