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    Reincarnarsi?

    Un bluff intellettuale

    Fabrice Hadjadj

     

    Cindy crede alla reincarnazione, ha letto cose stupefacenti su una rivista mentre era dal parrucchiere. Ne hanno discusso varie volte insieme nel tempo necessario a perfezionare la permanente. Lui, Fernand, è persuaso di essere stato una «chanteuse» nel periodo tra le due guerre, forse Lucienne Delyle, perché ogni volta che sente la sua voce cantare «Mon amant de Saint-Jean» le forbici si inceppano, l’asciugacapelli gli sfugge di mano, e gli arrivano immagini di cabaret e di uomini con il monocolo che affluiscono da un al di là della memoria. Cindy, da parte sua, immagina di essere stata una principessa russa all’epoca di Pietro il Grande.
    Spesso vede se stessa con i suoi valletti attraversare pianure innevate in una troika con i sonagli, e quando sente il nome «San Pietroburgo» il cuore accelera. È un peccato che, in generale, nelle nostre presupposte reincarnazioni, la poesia non si estenda oltre uno o due fantasmi romanzeschi. Nessuno sostiene di essere stato uno scarafaggio in un’altra vita, un pangolino gigante, un pesce abissale del Pacifico, un tuco-tuco, detto anche ratto a pettine della Patagonia, un macaco indiano o una salamandra cieca del Texas. Un tizio infelice in amore mi spiegò che nella vita precedente aveva vissuto come marito monco di una donna-tronco di un circo svedese ma vi sfido a trovare qualcuno che affermi perentoriamente di essere stato il bisnonno del suo portiere o, essendo democratico, di essere la reincarnazione di un realista della Vandea; se ebreo, di aver fatto parte dell’Inquisizione spagnola; o, se un tempo è stato un grande capitalista sfruttatore delle miniere del nord, oggi per punizione è militante di Forza Operaia.
    Alcuni, a cui la teoria della metempsicosi appare ancora troppo pesante, si accontentano di confondere la decomposizione e l’estasi. Continueranno a vivere nell’aria, la terra, le piante e gli insetti fecondati dal loro cadavere. Il signor Le Clézio intende la cosa solo in questo modo: «Quando sarò morto, non avrò lasciato niente. Quanto avrò reso il mio respiro al freddo, quando avrò reso la mia carne alla terra, quando avrò restituito la mia anima al mondo, non avrò lasciato niente. Non sarò partito. Non sarò in pace. Avrò smesso di sapere, ma in fondo niente sarà cambiato. Sarò sempre vivo, sparso nel mondo senza orizzonte, sarò sempre, qui o là, nella lotta per la vita. [....] Avrò aperto il sacco della mia autonomia, allora avrà luogo il movimento soave e sereno dell’osmosi. Mi spanderò».
    Questa serie di proposizioni contraddittorie affermano al tempo stesso la permanenza e la dissoluzione dell’io. Il pensiero di Le Clézio ha anche lati buffi; sostiene comicamente che la Venere di Milo non sarebbe meno bella se ridotta in blocchi di pietra; che il nonno nel forno crematorio ha acquistato leggerezza e ampiezza; e infine che lo stesso libro di Le Clézio ridotto in ceneri valga altrettanto, o forse più, di quando era leggibile (l’ultimo esempio è particolarmente vero). Tuttavia basta prendere un momento sul serio tale pensiero, nella sua mistica del bio-degradabile, per capire la sua barbara stupidità. Lo spiritualismo disprezza la materia, il materialismo disprezza lo spirito, entrambi trascurano la consistenza della persona umana, corpo e anima, il valore della sua storia unica, il peso dell’acrobazia senza rete della sua responsabilità.
    La tesi della reincarnazione vorrebbe sfuggire allo stesso tempo all’angoscia e all’ebbrezza di sapere che si vive e si muore una sola volta. Contiene tuttavia intuizioni corrette: il legame di ciascun individuo con la storia nel suo insieme, la risonanza del suo corpo con l’intero cosmo, la comunione della sua anima non con alcune ma con tutte le anime, ciascuna delle quali deve subire e sostenere le altre. È vero che ho un legame con il marito monco della donna-tronco; è vero che il nuoto subacqueo del pesce abissale o il rosicchiare patagone del tuco-tuco non sono privi di rapporto con la mia vita; è vero che porto qui e ora le conseguenze dell’imperatore Tang Gaozong, di Torquemada, di Jean Jaurès o di Philippe Pétain.
    Ma la tesi della reincarnazione si rifiuta di riconoscere in quale misura tutto ciò mi spetta in modo insostituibile, che l’esistenza non è una prima prova, che non c’è una seconda possibilità, non c’è rivincita né ripescaggio dopo il trapasso. Cindy sogna ciò che sarebbe potuta essere anziché darsi da fare per diventare ciò che è. La credenza nella reincarnazione porta a una vera e propria disincarnazione; immagina di essere mediocremente principessa invece di accettare regalmente i propri compiti di segretaria. Ci si inventano più vite e più morti per non vedere più la propria vita e la propria morte, gravide di tutta l’avventura umana.


    T e r z a
    p a g i n A


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