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    Quali possibilità ha

    la teologia

    di essere presente

    nella cultura?

    Gianfranco Ravasi


    Sono particolarmente lieto di intervenire all’interno di un’istituzione accademica così prestigiosa come l’università di Friburgo, anche perché ho condotto buona parte della mia esistenza proprio nell’ambito dell’insegnamento nella Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale. Il mio sarà, perciò, un discorso essenziale in un’atmosfera di familiarità tra alunni e docenti ai quali va il mio saluto e augurio più affettuoso. La riflessione che propongo sarà molto semplificata perché i due poli del tema che mi è stato assegnato sono di loro natura complessi e variegati e ammetterebbero un’infinita trama di percorsi analitici.
    Da un lato, infatti, la teologia, così come il messaggio religioso, rivela molteplici fisionomie. Come scriveva Karl Barth nella sua famosa Einführung in die evangelische Theologie, «tra le scienze, la teologia è la più bella, la sola che tocchi la mente e il cuore arricchendoli, che tanto si avvicini alla realtà umana e getti uno sguardo luminoso sulla verità… Ma è anche la più difficile ed esposta a rischi; in essa è più facile cadere nella disperazione o, peggio, nell’arroganza; più di ogni altra può diventare la caricatura di se stessa». Essa, inoltre, nella società contemporanea si trova coinvolta in sfide di particolare difficoltà e originalità, a partire dall’onda lunga della secolarizzazione per approdare però anche alle nuove insorgenze del sacro che talora oscillano tra l’accesa eccitazione del fondamentalismo e dell’integralismo e la piatta confusione del sincretismo, tra il tradizionalismo devozionalistico e la conformazione inerte ai nuovi modelli di massa.
    D’altro lato, anche la cultura, concepita in passato come aristocrazia delle arti e delle scienze, si è trasformata in una categoria antropologica di indole generale che comprende trasversalmente l’intero pensare e agire sociale nelle sue più diverse elaborazioni, al punto tale da assumere tutte le forme produttive contemporanee. Si pensi solo cosa significhi l’evoluzione del linguaggio e della comunicazione con l’arrivo del digitale, di internet, della cybercultura. Similmente l’arte ha adottato nuove grammatiche espressive ben lontane da quelle classiche, mentre le culture giovanili rivelano modelli esistenziali e intellettuali del tutto inediti rispetto a quelli delle generazioni precedenti. Inoltre l’impero delle tecnoscienze si fa sempre più potente e condiziona la stessa morale comune, come è attestato nell’ambito della bioetica. Infine i fenomeni migratori e la globalizzazione hanno creato una società nella quale domina l’interculturalità, con tutti i corollari che essa comporta.
    La fede cristiana, di sua natura “incarnata”, esige necessariamente il confronto con un simile orizzonte fluido e molteplice. Per questo è da evitare ogni tentativo di arroccamento solo difensivo, ma si deve assumere la fatica del dialogo. Esso suppone innanzitutto la tutela della propria identità e la coscienza delle verità custodite, ma comporta anche il confronto e l’ascolto con l’altro lógos, con le sue tesi e verità. Certo, come indicava Maritain, il se poser nella società significa anche s’opposer, genera cioè anche un rapporto dialettico. Tuttavia il se poser non deve mai trasformarsi in imporsi, se non con l’evidenza delle argomentazioni e dei valori, deve piuttosto comporsi in un dialogo che scopra le coincidenze ma conservi in armonia anche le diversità. Al duello si deve, dunque, sostituire il duetto che in musica può coniugare in armonia tra loro un basso e un soprano che non rinunciano al timbro delle loro voci radicalmente differenti, eppure si compongono in un progetto “sin-fonico”.
    È questo il significato del “Cortile dei Gentili” che, con grande successo, su impulso di Benedetto XVI, il Pontificio Consiglio della Cultura sta attuando in una vera e propria costellazione di città e nazioni europee e americane, in attesa di approdare negli altri continenti. Credenti e non credenti si espongono sui grandi temi dell’essere e dell’esistere, sull’etica e sulla cultura, sull’immanente e sul trascendente, cercando di confrontare le rispettive opzioni, generando spesso un dialogo fecondo. In questa operazione, però, si cerca di raggiungere anche gli ambiti popolari, le esperienze giovanili, fino a creare sorprendenti e vivaci “Cortili dei bambini” di famiglie credenti, indifferenti o esplicitamente aliene da interessi religiosi.
    Proprio per la vastità di percorsi possibili ho scelto di proporre in questo tempo limitato solo un emblema del nesso e del confronto tra teologia e cultura, dedicando una riflessione molto semplificata su uno dei dialoghi più ardui e problematici, quello tra teologia e scienza.
    Partiremo dal famoso e provocatorio asserto di Einstein sulla scienza zoppa e sulla religione cieca, se esse si ignorano. Questo assioma è stato echeggiato anche dal discorso di Giovanni Paolo II proprio in occasione del centenario della nascita (1879-1979) dello stesso Einstein. Il Papa, infatti, citando il documento del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes (n. 7), ricordava: «Anche la vita religiosa è sotto l’influsso delle nuove situazioni… Un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica del mondo e dalle sopravvivenze superstiziose». Ancor più sintetico ed esplicito era stato il famoso scienziato Max Planck che, nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico (1906; 1947), affermava: «Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente».
    Da un lato, è, allora, necessario che lo scienziato lasci cadere quell’orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e quell’hybris che lo illude di dichiarare la capacità onnicomprensiva della scienza nel conoscere, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell’essere e dell’esistere, del senso e dei valori. Ma, d’altro lato, si deve vincere anche la tentazione del teologo desideroso di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. Bisogna ribadire la necessità che scienziato e teologo rimangano aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a tenere in considerazione i metodi e i risultati degli altri approcci alla realtà che entrambi prendono in esame.
    Già sant’Agostino ne era consapevole quando, nel Dibattito con Felice Manicheo, affermava che: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: Vi manderò il Paraclito che vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici». Sempre valida rimane, quindi, la linea di demarcazione tracciata proprio da Galileo Galilei nella celebre lettera all’abate benedettino Benedetto Castelli: «L’autorità dello Spirito Santo ha avuto di mira a persuader agli uomini su quelle verità che, sendo necessarie alla loro salvezza e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo essere conosciute se non per bocca dell’istesso Spirito Santo». Si delinea, così, la «verità» genuina che la Bibbia vuole comunicare, una verità non di tipo scientifico ma teologico, come ribadirà la Dei Verbum nel Concilio Vaticano II: «I libri della S. Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (n. 11).
    È, dunque, importante, proporre innanzitutto una sorta di rispetto reciproco a livello metodologico, una specie di coesistenza pacifica tra scienza e fede, lasciando alle spalle quello scontro che ha avuto un vertice nel positivismo del filosofo Auguste Comte, negatore della «legittimità di ogni interrogazione al di là della fisica». Un impulso ulteriore a questa discrasia radicale è riconoscibile anche nel neopositivismo del Novecento. Il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein (1921) dichiarava come prive di senso scientifico le proposizioni della metafisica, dell’etica e dell’estetica, perché esse non sono immagine di nessun fatto del mondo.
    Se fosse ancorata al solo orizzonte scientifico, tale affermazione sarebbe comprensibile. Tuttavia, i neopositivisti del cosiddetto «Circolo di Vienna» (Schlick, Neurath, Carnap e così via) andarono oltre e interpretarono in senso svalutativo radicale l’affermazione di Wittgenstein riguardo ai discorsi non strettamente “scientifici”. In realtà, per il filosofo viennese – che non era certo un agnostico – si trattava solo di un’“ineffabilità” insita in quelle proposizioni, per cui «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», e non certo di una loro assurdità. Anche se sopravvivono ancora ben vigorosi epigoni delle tesi del “Circolo”, come i difensori di uno scientismo a oltranza (Dawkins, Hitchens, Onfray, Odifreddi), tale impostazione viene ormai considerata anche da molti autori “laici” o “umanisti secolari” come semplificatoria.
    Infatti attualmente ci si muove sempre di più secondo un reciproco e coerente rispetto tra i due campi: la scienza si dedica ai fatti, ai dati, alla “scena”, al “come”; la metafisica e la religione si consacrano ai valori, ai significati ultimi, al “fondamento”, al “perché”, secondo specifici protocolli di ricerca. È quella che lo scienziato statunitense Stephen J. Gould, morto nel 2002, ha sistematizzato nella formula dei Non-Overlapping-Magisteria (NOMA), ossia della non-sovrapponibilità dei percorsi della conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. Essi incarnano due livelli metodologici, epistemologici, linguistici che, appartenendo a piani differenti, non possono intersecarsi, sono tra loro incommensurabili, risultano reciprocamente intraducibili e si rivelano in tal modo non conflittuali. Come scriveva già nel 1878 Nietzsche in Umano, troppo umano: «Fra religione e scienza non esistono né parentele né amicizia ma neppure inimicizia: vivono in sfere diverse».
    Riconosciuta la positività di tale impostazione, che rigetta facili concordismi sincretistici e assegna pari dignità ai diversi tracciati di analisi della realtà, bisogna però opporre una riserva che è ben evidente già a partire dalla stessa esperienza nella storia sia della scienza sia delle discipline umanistiche. Infatti, entrambe, scienza e teologia (o filosofia), hanno in comune l’oggetto della loro investigazione (l’uomo, l’essere, il cosmo) e – come ha osservato acutamente lo studioso polacco Michał Heller, nel suo saggio Nuova fisica e nuova teologia (1996) - «esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali a quello filosofico senza confondere i livelli», anzi, con esiti fecondi (si pensi al contributo che la filosofia ha offerto alla scienza riguardo alle categorie “tempo” e “spazio”).
    Inoltre, continua Heller, «la distinzione dei livelli non dovrebbe legittimare l’esclusione aprioristica della possibilità di qualsiasi sintesi». È così che ha preso vigore, accanto alla sempre valida (a livello di metodo) “teoria dei due livelli”, una sussidiaria “teoria del dialogo” propugnata da un altro studioso, Józef Tischner, che fa leva sul fatto che ogni uomo è dotato di una coscienza unificante e, quindi, ogni ricerca sulla vita umana e sul rapporto con l’universo esige una pluralità armonica di itinerari e di esiti che si intrecciano tra loro nell’unicità della persona. Non è soddisfacente, allora, per una più compiuta risposta dissociare radicalmente i contributi scientifici da quelli filosofici e viceversa, pena una perdita della vera “concretezza” della realtà e dell’autenticità della stessa conoscenza umana che non è monodica, cioè solo razionale e formale, ma anche simbolico-affettiva (le pascaliane “ragioni del cuore”).
    Questa “teoria del dialogo” – che, per altro, faceva parte dell’eredità dell’umanesimo classico – è fatta balenare anche nella Lettera che Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana: «Il dialogo [tra scienza e fede] deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento. Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l’altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando». Distinzione ma non separatezza, dunque, tra scienza e fede; esperienza e “trascendenza” sono distinte nei livelli ma non isolate e incomunicabili.
    Siamo, dunque, in presenza di due profili dello stesso volto: cancellato uno, il viso si sfigura o almeno risulta incompleto. In sintesi possiamo ribadire l’appello ai credenti perché sappiano rispettare, senza prevaricazioni “apologetiche”, dati scientifici e dati teologici, ricerca scientifica e itinerario teologico, sperimentazione e riflessione, scienza e fede. Analogamente i non credenti che operano nell’orizzonte scientifico dovrebbero riconoscere la non esauribilità dell’essere e dell’uomo ricorrendo solo a parametri di verificabilità scientifica. Ciascuno sappia custodire il proprio ambito di analisi, ma riconoscendo anche che i due terreni di ricerca non sono tra loro esclusivi né reciprocamente repellenti o repulsivi.
    È, quindi, necessario riaprire la stagione del dialogo, proprio in questo cinquantenario del Concilio Vaticano II, consapevoli delle difficoltà e delle complessità che esso comporta in una società e in una cultura così fluida e spesso lontana dalle grandi interrogazioni metafisiche e religiose. Eppure, proprio come il Lógos s’intreccia intimamente con la sarx, come la stessa S. Scrittura si è posta in confronto dinamico con le varie civiltà – dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica – e come il cristianesimo si è aperto all’inculturazione nei vari secoli della sua storia e nei vari continenti, così anche oggi la teologia deve ritornare al coraggio del confronto con la cultura contemporanea, senza reazioni integralistiche che sono segno di paura e debolezza ma anche senza minimalismi teoretici, senza rigidità identitarie ma anche senza incolori uniformismi o derive relativistiche.
    Nella sua Prima Apologia s. Giustino scriveva: «Del Lógos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Lógos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come fra i Greci Socrate ed Eraclito e altri simili a loro» (46, 2-3). La consapevolezza che il Lógos divino diffonde i suoi “semi” nel mondo delle culture deve, quindi, spingere la teologia cristiana, con la sua secolare ricchezza di elaborazione intellettuale e di testimonianza, a entrare senza imbarazzo nel vasto e multiforme areopago della modernità.


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