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    Narrare Dio

    Bruno Forte


    Arcivescovo di Chieti-Vasto


    1. Da un incontro d’amore, il bisogno di narrare Dio: la bocca parla dalla sovrabbondanza del cuore…

    Da dove nasce il bisogno di “narrare Dio”? Se Dio fosse un morto oggetto, un semplice dato materiale, evidente e scontato, non ci sarebbe nessuna esigenza di “narrarlo”, né alcuna vera possibilità di farlo. Si narra ciò di cui si è fatta un’esperienza così forte, da sentire il bisogno di farne partecipi altri, pur riconoscendo che ogni parola sarà insufficiente a narrarla, perché quell’esperienza, viva e toccante, ci ha cambiato dentro in maniera sorprendente e profonda. In particolare, è l’amore che è diffusivo di sé ed è l’incontro d’amore quello che vuol essere narrato, nel pudore e nella discrezione di tutto ciò che veramente conta, ma anche nell’entusiasmo della bocca che parla per la sovrabbondanza del cuore.
    È così che sono nati i racconti del Nuovo Testamento e in generale della storia biblica: l’eccedenza e l’intensità di quanto sperimentato nell’intervento divino fra gli uomini e specialmente nell’incontro con Gesù di Nazaret risorto dai morti, si cerca di trasmetterlo narrando, perché ogni ragionamento sembra ridurre la bellezza e la ricchezza del vissuto. Come osserva un grande narratore dell’esperienza cristiana, il teologo olandese Edward Schillebeeckx, “quando la ragione, dopo tutte le analisi e interpretazioni, non è più in grado di esprimere teoricamente quanto effettivamente resta ancora da dire, sarà spinta a enunciare quel ‘di-più’ nella realtà che le sfugge in racconti e parabole” [1].
    Un esempio di come nasca il bisogno di narrare l’incontro con il mistero che segna la vita, lo troviamo nell’esperienza dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35): il racconto si conclude con la descrizione dei due che, giunti a Gerusalemme, “narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane”. Il misterioso Viandante, affiancatosi a loro sulla via, era andato narrando la storia della salvezza da Mosè e da tutti i profeti, spiegando via via in tutte le Scritture ciò che si riferiva al Cristo. Mai il loro cuore si era acceso così all’ascolto di qualcuno. Fra lo stupore e il timore si era fatta strada in loro la domanda: perché le parole di quello Straniero prendevano così la loro anima? Chiunque fosse quell’uomo, era bello ascoltarlo e il cuore si struggeva alle sue parole. Era come una tenebra che andava rischiarandosi, come una notte che si faceva prossima all’aurora.
    Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andar oltre. Perderlo proprio ora appariva loro inaccettabile. Che chiarisse l’enigma.
    O, almeno, che il balsamo della sua parola continuasse ancora per un po’ a scendere sulle ferite del loro cuore. Fu per questo che insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Per un curioso paradosso quelle parole, mentre descrivevano l’esteriore calare della notte nei tramonti infuocati sulle alture della Giudea, evocavano ai due le tenebre scese dentro di loro, l’assenza di futuro che era seguita al rantolo del Profeta abbandonato sulle braccia della Croce.
    Forse perciò egli cedette alla richiesta con remissività, quasi per un atto di tenerezza compassionevole ed entrò per rimanere con loro. Una volta a tavola, egli prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Era il gesto del capofamiglia nella cena pasquale. Era il gesto che il Maestro aveva compiuto la sera dell’ultima cena. Ora a compierlo era colui che avevano pensato fosse solo uno Straniero. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Ma egli sparì dalla loro vista.
    Storditi com’erano dall’emozione, cominciarono a ridirsi l’uno all’altro ciò che avevano vissuto con lui lungo la strada: al racconto si sovrapponevano le domande.
    Come avevano potuto non capire? Perché non l’avevano riconosciuto subito? La luce era così grande che - pur essendo notte, e perciò sconsigliabile il viaggio - decisero di partire senza indugio per far ritorno a Gerusalemme. Il tempo volò, tanto che quando giunsero era mattino e trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, mentre dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Da allora la loro vita fu cambiata per sempre. E con la loro lo fu la vita del mondo. Nulla sarebbe più stato lo stesso.

    2. Per amore: trasmettere agli altri la gioia di cui si è fatta esperienza

    Se il bisogno di narrare Dio nasce dall’intensità dell’esperienza dell’incontro con Lui, la finalità per cui lo si fa è parimenti motivata dall’amore. Chi narra vuol rendere gli altri partecipi della gioia che Lui ha dato al suo cuore: lo fa per un incontenibile slancio d’amore. A farlo, però, non bastano freddi ragionamenti o affermazione astratte. Occorre narrare perché - a differenza dell’argomentazione logica - “il racconto opera in modo poco appariscente e senza pretese. Non possiede la chiave dialettica, né la deriva dalle mani di Dio, una chiave che consentirebbe di mettere in luce tutti i processi oscuri della storia senza averli prima percorsi e superati…” [2]. La narrazione coinvolge e tocca il cuore con la sua modestia, col suo restare aperta al futuro, senza voler tutto concludere.
    Esempi quali i racconti biblici o le storie dei santi o i “racconti di esperienza” dei testimoni della fede rivelano “in modo del tutto singolare il carattere pratico - liberante delle narrazioni”, e mostrano “come il racconto tenda alla comunicazione pratica dell’esperienza in esso riassunta e come il narratore e gli ascoltatori vengano inseriti nell’esperienza narrata” [3]. La narrazione è una sorta di “azione linguistica”, nella quale la parola si fa efficace per la vita.
    Questo carattere contagioso e trasformante del racconto dà ragione della distinzione che Pascal fa nel suo Memoriale fra “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio narrato, e il Dio della ragione puramente argomentativa, il Dio dei filosofi” [4]. Per la fede biblica il racconto delle meraviglie operate dal Signore è “memoria pericolosa”, capace di attualizzare nel presente la salvezza di Dio. Il racconto si rivela particolarmente adatto a prendere sul serio la storia umana e a mediare in maniera significativa per essa la storia salvifica, aprendo al futuro della promessa divina.
    Perché sia così, il racconto va vissuto come “storia aperta”, che rimanda a un prima, fatto di attesa e di speranza, e dischiude a una continuazione nella vita di chi narra e di chi ascolta. Lo fa capire un suggestivo brano narrativo dell’Apocalisse, che presenta la figura dell’Agnello immolato, ritto in piedi, immagine del Cristo crocifisso e risorto. L’affacciarsi dell’Agnello è preparato dalla grande domanda, sottesa a tutta il libro: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?” (5,2). È la domanda circa il senso della storia e della vita di ciascuno e di tutti, l’interrogativo ineludibile del dolore. La constatazione che “nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di osservarlo” (5,3) esprime ciò che in altre parole dice Hans Urs von Balthasar commentando questo brano: “I tentativi di qualsivoglia concezione del mondo, religione o filosofia falliscono nell’impresa” [5].
    È nel contesto di questa tensione drammatica, eco dell’attesa dell’intero creato, che ad aprire il libro sigillato entra in scena l’Agnello immolato in piedi, in una narrazione tanto potente e suggestiva, quanto semplice e illuminante (5,1-10).
    L’Agnello appare sgozzato, porta cioè ancora evidenti i segni della Sua passione, sebbene stia ritto in piedi, a significare la vittoria sulla morte segnata dalla Sua resurrezione: siamo di fronte all’immagine più densa dell’Apocalisse, che sintetizza in forma potente il mistero pasquale come storia della storia, chiave del tempo, cioè, e fonte di giudizio e di salvezza dell’intera vicenda umana e cosmica.
    È a questo Agnello, il Crocifisso Risorto, che viene consegnato il libro “dalla destra del Seduto sul trono”. Si coglie qui nel suo cuore il vangelo dell’Apocalisse, che è poi semplicemente la buona novella cristiana: a svelare il senso della vita e della storia, a darci la luce che illumina ogni cosa del sole di Dio, a offrire la salvezza desiderata e attesa, è Dio Padre attraverso l’Agnello immolato in piedi, mediante Colui, cioè, che, pur essendo di condizione divina, ha fatto suo il nostro dolore sulla Croce, portando Dio ad abitare la nostra morte, e con la sua resurrezione ha portato noi nel cuore stesso di Dio.
    L’Agnello non sarebbe neanche la nostra salvezza se - pur se poi vittorioso - non avesse prima fatto sua la nostra sofferenza e la nostra morte. Al centro dell’Apocalisse risuona, così, l’annuncio paradossale, che solo la potenza della narrazione riesce a far passare in maniera contagiosa e liberante: il Dio di Gesù Cristo non è fuori della tragedia del mondo, ma vi è entrato dentro fino in fondo, ha voluto farla sua. Proprio così, soffrendo e morendo per amore nostro, ha vinto il dolore e la morte e ci ha aperto la via della vita. Dio soffre a nostro favore e per amore nostro, e così redime dal di dentro la nostra miseria e il nostro dolore.
    Questo esempio narrativo mostra come nel narrare Dio sia in gioco la persona in tutta la ricchezza delle sue potenzialità e relazioni, a partire dalla relazione fondamentale che dà vita, l’amore: perciò Sant’Agostino nel De catechizandis rudibus - splendida ed attualissima risposta alla domanda su come annunciare la fede in Gesù Cristo Dio - sottolinea come sia la forza preveniente dell’amore a comunicare la gioia e la grazia di cui fa memoria il racconto delle opere di Dio: “Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando” - “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire nell’amore” (4. 7). Chi narra Dio lo fa a partire dall’amore e unicamente per amore… 3. Con amore che spera: tirare il futuro della promessa di Dio nel presente degli uomini Narrare Dio non è dire tutto, ma invitare a un altrove, a un incontro che solo l’esperienza diretta rivelerà. Ogni narrare autenticamente comunicativo della grazia da una parte fa appello all’inquietudine che dispone ogni essere umano alla ricerca e all’incontro con l’Eterno, dall’altra apre all’eccedenza della promessa e al compiersi progressivo della speranza. Narrare Dio, perciò, è operazione tutt’altro che asettica, rivela anzi il suo carattere proprio e originale di “memoria pericolosa” capace di suscitare storie, oltre che di tirare nel presente degli uomini l’avvenire della promessa di Dio.
    Lo fa comprendere il brano del Vangelo di Matteo, in cui si narra come Gesù, dopo aver dolorosamente constatato l’incredulità con cui è stato accolto, rende lode al Padre, quasi elevando un canto sulle rovine: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). Al rendimento di grazie, Gesù fa seguire l’appello a unirsi a Lui e a sperimentare in Lui la bellezza promessa e donata a quanti, credendo, prenderanno il suo giogo: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (vv. 28-30).
    La narrazione della fede fa memoria di questo invito, che apre alla profezia: proprio lasciando aperte le storie del Dio con noi al prima e al dopo, fa comprendere come l’essere umano non sia semplicemente “gettato verso la morte”, ma sia piuttosto un “mendicante del cielo”, pellegrino verso la patria ultima e definitiva.
    Narrando la vita come cammino aperto alla sorpresa di Dio, ogni comunicatore della fede narra la nostalgia del Totalmente Altro, presente nelle pieghe più profonde di ogni cuore e della storia, ed offre ad essa l’acqua della vita.
    Forse perciò la metafora del viaggio è così cara ai narratori della fede di tutti i tempi e di tutte le culture, anche solo nella forma di un percorso della memoria, o delle proiezioni del desiderio e dell’attesa: il viaggio è storia aperta, pellegrinaggio, cammino da un’origine a un altrove, rischio e fascino del nuovo che deve venire. Lo sapeva bene la tradizione dei Maestri ebrei, che del racconto ha fatto la forza della trasmissione del suo sapere per tener viva la speranza nelle promesse dell’alleanza con Dio. Martin Buber riporta questa storia riguardante il famoso rabbi Baal Shem Tov, fondatore del Chassidismo, religiosità ardente e gioiosa della rinascita ebraica nel tempo della diaspora: “Mio nonno era paralitico. Una volta gli chiesero di raccontare qualcosa sul suo maestro, e lui raccontò che il santo Baal Shem Tov quando pregava aveva l'abitudine di saltare e ballare. Durante il racconto mio nonno si alzò in piedi, e la storia lo trascinò a tal punto che dovette mettersi a saltare e ballare per far vedere a tutti come faceva il suo maestro. Da quel momento fu guarito. È questo il modo di raccontare le storie”. È questo il modo di narrare Dio, tirando il futuro delle Sue promesse nell’umiltà e nella fatica dei giorni degli uomini.
    A partire dall’incontro d’amore con Dio, per amore degli uomini e con l’amore che nutre la speranza e la traduce in realtà: è così che si narrano le storie dell’Altissimo e - narrandole - non solo si ravviva l’esperienza del Suo amore, ma si cambia il cuore e la vita del mondo, preparando e anticipando qualcosa della bellezza promessa del cielo.

    Donaci, Signore, di diventare sempre più narratori del Tuo amore.

    Fa’ che ne facciamo un’esperienza così forte e profonda, da non poter fare a meno di narrarla.
    Donaci l’amore necessario per voler trasmettere a tutti la gioia dell’incontro con Te, e la speranza indispensabile per narrare le meraviglie da Te operate per la nostra salvezza, rendendole vive e attuali, sì da tirare nel presente degli uomini qualcosa della futura bellezza che la Tua promessa ci annuncia.
    Te lo chiediamo per mezzo di Colui che ci ha narrato Te, e il cui racconto è buona novella che cambia i nostri cuori e la vita, nel tempo e per l’eternità, Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Dio, che con Te vive e regna nei secoli dei secoli. Amen!

    (Parrocchia San Francesco Caracciolo, Chieti, 26 Novembre 2013, Veglia di preghiera per la Santificazione Universale)

    NOTE

    1 E. Schillebeeckx, Gesù la storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1976, 73.
    2 J.B. Metz, Redenzione ed emancipazione, in Redenzione ed emancipazione, Queriniana, Brescia 1975, 174.
    3 J. B. Metz, Breve apologia del narrare, in Concilium 1973, 864.
    4 Ib., 873.
    5 Il Libro dell’Agnello. Sulla rivelazione di Giovanni, Jaca Book, Milano 2007, 47s.


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