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    L'offensiva culturale

    e filosofica

    dell'ateismo

    Carlo Molari

     

    Quello di Dio non è più un problema esclusivamente teologico, ma è tornato ad essere anche un prooblema filosofico e culturale. I molti libri che escono in questi mesi sul tema mostrano che la ragione del molto interesse sta nel nuovo orizzonte culturale e nelle caratteristiche inedite che il dibattito su Dio ha accquisito negli ultimi tempi. Questo spiegheerebbe anche «lo spettacolare ritorno di Dio in filosofia», di cui Jean Grondin (filosofo canadese docente a Montréal) esamina «le manifestazioni e i motivi» nella rivista Concilium (Atei: di quale Dio?, n. 4/2010, pp. 1133123).
    Due caratteristiche emergono dai dibattiti attuali: la spiegazione 'naturalistica' di tuttti i fenomeni compresi quelli religiosi e l'insistenza con cui gli atei attribuiscono ai credenti l'onere della prova. Può essere utile riflettere su questi aspetti del dibattito.
    Mentre alcuni atei considerano la fede in Dio come un pericolo per l'umanità perché sarebbe fonte di violenza e costituirebbe un impedimento al dialogo, altri invece, sottolineano gli aspetti positivi della fede in Dio, in quanto espressione di alcune esigenze fondamentali dell' esistenza. lI programma 'naturalistico' intende, appunto, spiegare tutti i fenomeni della vita escludendo ogni ricorso a cause trascendenti o 'soprannaturali'. Anche il contrasto che sorse tra Charles Darwin e A. R. Wallace dopo un lungo periodo di completa sintonia, riguardava precisamente questo punto, come appare con chiarezza dall'epistolario tradotto reecentemente in italiano (MicroMega, 7/2010, pp. 104-117). Wallace, infatti, dopo alcuni esperimenti condotti in occasione di sedute spiritiche, si era convinto dell' esistenza di esseri trascendenti a cui attribuiva influssi sui processi della vita e sulla storia umaana. Darwin, al contrario, restava fedele alla interpretazione della evoluzione della vita sulla terra per selezione naturale, senza alcun ricorso a nessun' altra causa esterna. Un passo ulteriore del programma 'naturalistico' consiste nel considerare la stessa reeligione come un fenomeno del processo evolutivo. «I programmi di naturalizzazione [infatti] riducono di norma la religione a sottoprodotto (di gran lunga superfluo) della evoluzione» (K Mueller, Concilium, p. 125). La fede in Dio, tradotta in simboli religiosi, saarebbe quindi l'espressione di un'esigenza naturale, che, almeno in alcune fasi dell' evoluzione umana, ha costituito un beneficio e in certi ambienti continuerà ad avere funzioni positive ancora per molto tempo. In questa prospettiva «Credere in Dio» può esssere ritenuto «una emozione umana conveniente» come sostiene in prospettiva atea, il biochimico di Oxford Christopher Francis Higgins (Concilium, cit., pp. 133-142). Dio corrisponderebbe a un simbolo funzionale all'evoluzione vitale. «Credere in Dio ... ha dovuto fornire un forte vantaggio competitivo alla nostra specie in particolare durante i primi tempi dell'evoluzione umana, come appare molto verosimile nella istituzione di comunità funzionanti. È un fatto che quasi ogni società, antica e moderna, ha costruito un 'Dio' o degli 'Dei' per soddisfare le proprie esigenze» (C. Higgins, ib. p. 135). La credenza in Dio è servita a spiegare l'origine dell'universo, il valore della legge, 1'esercizio delll'autorità di alcuni su altri ecc. «Positivamente ciò ha senza dubbio aiutato a generare comunità di individui che collaboravano insieme, necessarie per prosperare in un mondo feroce.
    Il concetto di Dio è stato usato per regolare costumi e cultura» (C. Higgins, ib., p. 135). «Credere nello stesso Dio può bensì aver fornito il collante necessario a tribù e comunità per crescere a livello di culture e civiltà e per diffondersi nel mondo» (C. Higgins, ib., p. 136). «Altri sono poi in grado di trovare nel concetto di Dio un'autentica consolazioone che infonde speranza, un'illusione di certezza» (C. Higgins, ib., p. 137), perché «fornisce un sistema di riferimento ... che aiuta gli individui ad affrontare l'incertezza o che dà un senso di appartenenza ad una comunità che la pensa allo stesso modo, generanndo rituali e tradizioni che sono d'aiuto nel porre ordine all'esistenza umana» (Id., p. 141). «Se per questi individui la 'fede' funziona, questa è una prerogativa loro ... Tuttavia ciò non significa che il loro 'Dio' abbia realtà al di fuori della loro mente e della loro coscienza» (C. Higgins,ib., p.137). Il simbolo funzionale che è Dio, quindi, «non possiede realtà al di fuori della coscienza umana» (C. Higgins, ib., p. 141).
    La natura stessa, infatti, suggerisce o impone di credere per superare più facilmente le difficoltà della vita come sostengono, pure in prospettiva atea, V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, in Nati per credere (Codice ed. 2008). Il fatto quindi, che la fede in Dio abbia funzione positiva non potrebbe essere addotto come argomento a favore dell'esistenza di Dio.
    L’ateo riconosce l'impossibilità di dimostraare che Dio non esiste dato che «ovviamente non si possono fornire prove di qualcosa di negativo» ( C. Higgins, ib., p. 137). Fino a non molto tempo fa l'esistenza di Dio era un dato quasi scontato. Chi negava Dio doveva portare le ragioni della propria convinzione. Oggi, al contrario, «per credere in Dio dobbiamo avere delle buone motivazioni. Ma se queste non vengono fornite non c'è nesssuna ragione sufficiente per credere in Dio e l'unica posizione ragionevole è quella di ateo negativo o agnostico» (A. Flew, Esiste Dio. Come l'ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alpha & Omega, Roma, p. 71). Flew nel 1985, ancora non credente era convinto che la presunzione della verità stesse dalla parte degli atei e sosteneva che l'onere della prova spettasse ai credenti, in base al «principio procedurale che seleziona la parte sulla quale• doveva ricadere il peso della prova» (Flew, ib., p. 72) come nei tribunali inglesi. Anche dopo aver raggiunto la credenza in Dio Flew ha continuato a soostenere che «1'argomentazione a favore della presunzione di ateismo può essere accettata dai teisti in modo coerente» (ib., p. 73). Egli quindi considera l'ateismo «un punto di partenza metodologico, non una conclusione ontologica» (Id., ib.).
    Anche l'ateo Peter Atkins sostiene che «1'obbbligo di fornire una prova deve riguardare quanti credono a una spiegazione più elaborata dell' esistente piuttosto che quanti ritengono che, col tempo, e alla luce dei suoi attuali successi, la scienza tirerà fuori una spiegazione semplice del fatto che l'universo con i suoi attributi e processi, che tutti gli aspetti del comportamento umano compresa la credenza che esista un Dio, e che l'emersione stessa dell'universo sono tutti il prodotto naturale di eventi causalmente correlati. Sono loro a dover dimostrare che la loro ipotesi più elaborata sia essenziale. Finora nulla in ambito scientifico ha richiesto l'intrusione di un qualsivoglia sentore di Dio» (P. Atkins, MicroMega, citato, p. 15). Mentre quindi nel passato i credenti riteenevano «che fosse naturale per gli esseri umani credere in Dio a causa dell'ordine, dell'organizzazione e delle leggi degli eventi naturali» ed anzi alcuni giungevano a dire che «1'idea di Dio è quasi innata» (Flew si riferisce al filosofo tomista Ralph McInerny,), oggi è diffusa invece la convinzione che l'ateismo sia la posizione più semplice e immediata (Flew, o. c. p. 73).
    La richiesta dell'ateo è giusta, ma non può esimerlo dal prendere in considerazione gli argomenti dei credenti senza pretendere che questi sappiano dire che cosa è Dio. Lo storico Frederick C. Copleston osservava già nel 1976 a Flew, che esigeva una precisa identificazione di Dio da parte del credente: «non credo che a ragione, si possa pretendere dalla mente di essere in grado di identificare Dio come una farfalla in una vetrinetta. Dio diventa una realtà per la mente umana, nel movimento personale della trascendenza. In questo Dio appare come l'obiettivo invisibile del movimento stesso. È nel contesto di questo movimento personale dello spirito umano che Dio diventa una realtà per l'uomo» (citato da Flew, o. c., p. 70).
    Tale richiamo alla esperienza della trascendenza è importante. Potrebbe essere tradottto in questo modo: la persona umana viivendo la fede in Dio scopre che nella sua vita è in azione una forza arcana, che può far fiorire forme nuove di umanità, espressioni inedite di misericordia, forme superiori di fraternità, progetti migliori di giustizia. La fede in Dio si mostra feconda nella storia. L’ateo dovrebbe indicare quale sia la ragione per cui la fede in Dio ha effetti positivi nella crescita della persona e nella organizzazione della società. Non può semplicemente rinviare a future scoperte della scienza come fa Peter Higgins come quando a proposito della coscienza scrive: «a tempo debito saremo quasi certamente in grado di spiegare più precisamente in termini fisici come si è generata la coscienza, in modo analogo a come Newton spiegò in termini semplici i movimenti all'apparenza 'miracolosi' delle stelle e dei pianeti che ora noi sappiamo applicare ovunque nell'universo» (P. Higgins, a. c., p. 141).
    In merito credo quindi sia legittima la domanda rivolta ora da Flew ai suoi «precedenti colleghi atei»: «Cosa dovrebbe accadere, o cosa sarebbe dovuto accadere, perché ci sia, a parer vostro, almeno una ragione per prendere in considerazione l'esistenza di una Mente superiore?» (A. Flew, o. c., p. 99).

    (Rocca 1.1.2011)


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