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    «In principio

    era il Verbo»

    Pietro Citati

    Tra le moltissime cose che vorrei sapere e non so, la prima sarebbe quella di conoscere la comunità cristiana raccoltasi attorno al Vangelo di Giovanni. Chi ha scritto il Vangelo? E quando? E dove? La mia curiosità è condannata a restare senza risposta. Secondo gli ultimi studi, il Vangelo non è stato scritto da Giovanni di Zebedeo, che Gesù incontra sul mare di Galilea, mentre rammenda le reti da pescatore insieme al fratello Giacomo. E non è stato scritto nemmeno dalla figura più misteriosa del Vangelo, "il discepolo che Gesù amava", il quale china la testa sul petto del Signore durante l'ultima cena, e a cui Gesù affida la madre («Donna, questo è tuo figlio»), mentre sta ai piedi della croce. Nel testo si distinguono più mani: antichi ricordi della Palestina, l'intervento di un grande teologo, forse discepolo del "discepolo che Gesù amava", e infine quello di un redattore, che ritoccò il Vangelo negli ultimi anni del primo secolo dopo Cristo.
    Conosciamo, probabilmente, il luogo dove il Vangelo venne scritto: Efeso, la grande città sulle coste dell'Asia Minore, dove san Paolo aveva vissuto qualche decennio prima. E, siccome la storia è (o lo è almeno per me) il luogo prediletto della fantasticheria, nulla è più bello che immaginare i cristiani giovannei vivere, discorrere, discutere, pregare, ricordare una figura ormai lontana nel tempo come Gesù, cantare gli inni al Logos nelle case alla periferia di Efeso. Questi cristiani erano, almeno in parte, emigrati dalla Palestina tra la fine del Primo secolo e la metà del Secondo. A volte, percorrevano le strade della ricca e tumultuosa città orientale, piena di piccole sette religiose come la loro; e seguivano la via dei Cureti, l'Agorà, guardavano l'immenso teatro, il tempio di Adriano, le stele di Ermes, il Pritaneo, l'Odeon, la meravigliosa Biblioteca di Celso con le nicchie e le statue, l'Artemision... Non sappiamo se scorgessero in Efeso un'immagine del mondo, che il loro vangelo esecrava: o un luogo pacifico che li aveva accolti, mentre i giudei di Palestina li cacciavano dalle sinagoghe.
    A Efeso era vissuto, circa sei secoli prima, un grande filosofo greco, Eraclito, e anche lui aveva dedicato il proprio libro al Logos. Dubito che i discepoli di Giovanni lo conoscessero. Era un passato dimenticato. Ma il libro di Eraclito assomigliava al loro vangelo: entrambi tenebrosissimi e luminosissimi. «Non volgere troppo in fretta i fogli di Eraclito d'Efeso», diceva un epigramma dell'Antologia Palatina. «Sono tenebre fonde come la notte. Ma se ti guida un iniziato, la sua luce è più chiara di quella del sole». Eraclito era un'aquila come Giovanni. Il «volatile delle altitudini», scrisse nel nono secolo Giovanni Scoto, «vola non solo al di sopra dell'elemento fisico dell'aria, o dell'etere, o del limite stesso di tutto l'universo sensibile, ma arriva a trascendere ogni "teoria", al di là di tutte le cose che sono e non sono, con le ali della più inaccessibile teologia, e gli sguardi della contemplazione più luminosa ed elevata... Egli non si limita a sollevarsi a volo sopra ciò che può essere compreso dall'intelligenza ed espresso dalle parole, ma si spinge al di là, all'interno di ciò che supera ogni intelligibilità e ogni significato».
    Quando compose il Vangelo, il geniale discepolo del "discepolo che Gesù amava", osò qualcosa che nessuno prima di lui, per molti secoli, aveva tentato. Riscrisse le prime parole della Bibbia: le prime sillabe della Genesi.
    Forse era un cantico di fede, cantato nelle chiese giovannee; e mi chiedo se "il volatile delle altitudini" abbia sentito di violare un limite o una proibizione, ripetendo (e addirittura capovolgendo) quelle parole iniziali, grondanti di sacro.
    Il testo greco della Genesi diceva: «In principio, Dio creò il cielo e la terra... Dio disse: "Che la luce sia!". E la luce fu. Dio vide che la luce era buona. Dio separò la luce dalla tenebra. Dio chiamò la luce "giorno", e la tenebra "notte"». Il Vangelo di Giovanni dice: «In principio era il Verbo (Logos) e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo. Questi era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui non è stato fatto un solo essere che sia stato fatto. In Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno afferrata».
    Cosa vuol dire Logos? Di una cosa possiamo essere certi: non vuol dire ragione (come nemmeno in Eraclito). Verbo vuol dire dabar, la parola in ebraico: solo che l'estensione di dabar (e specialmente di dabar-Jahve) è molto più vasta e profonda di ciò che significa parola nelle lingue moderne.
    Quando diciamo dabar, dobbiamo sentire il fondamento di ogni cosa, perché ogni cosa ha un dabar, un fondo e un senso; e, dicendolo, raggiungiamo la cosa stessa. Dabar è una forza irresistibile, come il fuoco che brucia la paglia: una forza attiva, creativa, luminosa, che foggia ogni evento della storia, una forza soprattutto veritiera; e ha bisogno di una rivelazione e di un annuncio, che raggiungano ogni persona. Non è una personificazione. La parola è un evento che si fa carne, Gesù Cristo, il quale non pronuncia o porta o confida parole, ma è egli stesso la parola vivente.
    Come dice il Vangelo di Giovanni, il Verbo è Dio. Nel corso del Vangelo, Gesù ripete la frase fondamentale dell'Antico Testamento, dove Jahve diceva: «lo sono»; egli era il solo e l'unico, il santo e il dominatore, il sublime e il potente, il misericordioso e salvatore Dio di Israele. Con una inversione dei tempi, Gesù aggiunge: «Prima che Abramo fosse, io sono». E: «lo e il Padre siamo una cosa sola. Tutto ciò che è mio è suo, tutto ciò che è suo è mio».
    In nessun altro Vangelo esiste questa identità strettissima tra Dio e il Verbo. Ma Gesù dice: «Il Padre è più grande di me». Tra le due figure che volano nell'abisso, si stabilisce il più semplice rapporto umano: quello tra Padre e Figlio. Il Figlio obbedisce al Padre: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma per fare la volontà di chi mi ha mandato». È un riflesso, un'eco. Se il Padre ama il Figlio, il Figlio ama il Padre: se il Padre risuscita e vivifica i morti, così fa il Figlio: se il Figlio dona la sua vita per gli uomini, la dona per volontà del Padre: quando Dio parla, il Figlio parla per lui; quando il Padre insegna, il Figlio ripete il suo insegnamento. Come dice Gesù: «lo non sono mai solo, perché il Padre è con me».
    L'evangelista osò un'affermazione più ardita. All'inizio della Genesi, Dio pronuncia la sua parola nel momento stesso della creazione: «Dio disse: "La luce sia", e la luce fu». Nella sua drammatica riscrittura dell'Antico Testamento, l'evangelista capovolse completamente (sia pure sostenuto da alcune frasi del Libro della Sapienza) il testo biblico. Si inoltrò molto prima della creazione, affermando che il Verbo esisteva già allora, presso Dio, identico a Dio, quando lo spazio era vuoto. «Glorificami davanti a te - dice Gesù, - con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse»: «...la gloria che tu m'hai dato, perché tu m'hai amato prima della creazione del mondo». Noi non sappiamo altro: non conosciamo quale fosse la vita di Dio, del Verbo e dello spazio, e nemmeno se esistesse uno spazio vuoto. Sappiamo soltanto che, già allora, c'erano il Padre ed il Figlio, e si riflettevano l'uno nell'altro — amore, vita, dono, parola, obbedienza, insegnamento.
    L'evangelista trasformò il testo della Genesi in un altro passo fondamentale. La Genesi diceva: «La luce fu. Dio vide che la luce era buona. Dio separò la luce dalla notte. Chiamò la luce "giorno" e la tenebra "notte"». La tenebra era dunque soltanto una parte del tempo; ed era buona, anche se meno della luce. Leggendo il Vangelo di Giovanni, comprendiamo cos'erano le tenebre: il peccato di Adamo, l'odio, la malvagità, l'assenza d'amore, l'incredulità, le cattive opere, la mancanza di conoscenza, Satana, il Principe di questo mondo. Eppure ci sembra che queste determinazioni non siano sufficienti. Nel Vangelo di Giovanni la tenebra è una forma immensa che vive nel mondo creato da Dio: una sostanza, che lascia attorno e dietro di sé una fascinazione sinistra, che acceca gli occhi. Nel prologo, ne abbiamo la prima manifestazione: le tenebre (e il mondo) non afferrano, non riconoscono, non accolgono la luce del Verbo. Specie verso la fine del Vangelo, esse ampliano la propria eco, fino quasi a travolgere la luce. Così, il Vangelo di Giovanni è insieme il testo della gloria luminosa del Padre e del Figlio, e della tenebra che la insidia.
    Poi avviene lo scandalo; ciò che per gli ebrei e i greci e i cinesi restò, sempre, l'intollerabile paradosso della religione cristiana. Il Verbo, che è Dio e presso Dio, diventa uomo: anzi carne; ciò che vi è di più basso, debole, infimo, caduco nell'uomo. La Prima lettera di Giovanni ricorda questo evento con parole commosse: «Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno palpato – il Verbo di vita». Gesù viene definito con una ricchezza fantastica di nomi e di titoli, che si moltiplica di continuo. La vita e la luce, l'agnello di Dio, l'Unigenito, il Messia, il re d'Israele, il Figlio dell'uomo, il Salvatore del mondo, il mietitore, il seminatore, il cibo; il pane di vita, il pane vivo, il pane disceso dal cielo, il buon pastore, la porta delle pecore, la resurrezione e la vita, la via e la verità e la vita, la vite, l'acqua che dà vita, la luce che dà vita.
    Una parola non viene pronunciata. Poiché discende "dall'alto" e non appartiene a "questo mondo", Gesù incarna la figura dello Straniero. La sua voce è doppiamente straniera. Da un lato, egli parla il linguaggio sublime, che si ascolta "lassù", nell'"alto": parole di una maestà quasi intollerabile, che si nascondono dietro i più semplici termini della terra – pane, acqua, vite. D'altro lato, la sua voce è quella dell'enigma: equivoci, giochi di parole, contrapposizioni, associazioni e parallelismi oscurissimi, allusioni, formule misteriose, miracoli simbolici – un linguaggio cifrato che non procede mai secondo una linea retta, ma secondo onde, ripetizioni, variazioni, riprese. Qualche volta, Gesù prorompe: alza la voce, grida, urla, come il personaggio di un altro mondo che si trova prigioniero della misera lingua di questa terra; e ribadisce le sue parole in modo duro, ironico, sprezzante. Sebbene parli soprattutto d'amore, Gesù Cristo non è mite.
    Così non ci meravigliamo se i giudei non comprendono mai il suo linguaggio cifrato; e se i suoi discepoli non lo capiscono molto meglio, con domande e risposte a volte esilaranti. Noi lo capiamo poco, sebbene ci facciamo aiutare da ottimi commenti, che a loro volta non colgono ogni sfumatura del testo. Spesso abbiamo l'impressione che Gesù non voglia essere capito, provocando scandalo con le sue frasi taglienti e splendenti, avvolte dall'ombra.
    Come ci appare nel Vangelo di Giovanni, Gesù – la via, la resurrezione, la vita – desidera anche il contrario: cerca disperatamente di venire accolto, compreso e afferrato, suscitando fede in se stesso. Con parole sublimi ed enigmi tenta di attrarre i discepoli, trasformandoli in figli di Dio. Attende la fede. Ma da dove viene la fede? A prima vista, Gesù lo ignora: perché «il vento soffia dove vuole, e tu senti la sua voce, ma non sai né da dove viene né dove va. Così è di chiunque è nato dallo Spirito». In realtà, egli sa benissimo da dove viene la fede. I discepoli, che egli ha dato a Dio, sono stati affascinati dal Padre. «Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non lo attrae». «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è concesso dal Padre mio».
    Questa grazia è singolarissima. Gesù ricorda una famosa frase di Isaia: «Non potevano credere perché Isaia ha detto ancora: "Dio ha accecato i loro occhi e indurito i loro cuori, affinché non vedano con gli occhi e non comprendano col cuore e non si convertano"». Dunque Dio ha accecato gli occhi e indurito i cuori, perché i giudei e i mediocri discepoli non si lascino attrarre dalla fede nel Figlio. Il Padre lo ha voluto. Chi potrebbe resistergli? Eppure, la colpa è nostra: dei giudei, dei discepoli, di noi che leggiamo il Vangelo senza capire, perché abbiamo permesso che i nostri occhi venissero accecati e i cuori induriti dalla volontà del Padre.

    Siamo nei paesaggi di Galilea e di Giudea, di cui avevano raccontato Marco, Matteo e Luca. Gesù e i suoi discepoli vanno a Betania, oltre il Giordano, dove Giovanni Battista battezza; assistono alle nozze di Cana, dove avviene il primo segno di Gesù; si recano al tempio di Gerusalemme, pieno di mercanti dì buoi e di colombe; attraversano la Samaria; scorgono il paralitico di Betesda; giungono al mare di Galilea; frequentano la festa dei Tabernacoli; incontrano l'uomo cieco fin dalla nascita; raggiungono di nuovo Betania, dove Lazzaro è sepolto; giungono a Gerusalemme, tra i rami di palme... Nei tre Vangeli sinottici, la vita eterna si annunciava oltre l'orizzonte, come un futuro che si sarebbe, un giorno, compiuto. Nel Vangelo di Giovanni, come Gesù ripete di continuo, la vita eterna è già qui, davanti agli occhi, a Betania, a Betesda, a Cana, lungo le rive del mare di Galilea, tra le palme di Gerusalemme. Il raccolto è già presente: se i discepoli alzano gli occhi, vedono i campi albeggiare di messi. In nessun altro testo cristiano (e, credo, in nessun altro libro che abbia mai letto) le parole di Gesù fanno sentire con tanta tensione il respiro e il sapore della vita eterna.
    Così il Vangelo di Giovanni è il Vangelo della Gloria e della Luce. Lo assicurano le prime righe del prologo: «Abbiamo contemplato la sua gloria, una gloria come conviene all'Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità». E la gloria che Gesù conosce in Palestina è la stessa che l'aveva già penetrato prima della creazione, quando era presso il Padre, nell'eternità del vuoto. Nemmeno la crocefissione è uno scandalo, né serve in primo luogo a cancellare i peccati degli uomini, secondo quanto pensavano Paolo e i Vangeli sinottici. Come annunciano due frasi dell'Esodo e di Isaia, la crocefissione è elevazione, glorificazione, trionfo. La croce è il trono dove Gesù viene proclamato re davanti al mondo: con la paradossale ironia divina, per la quale "il re dei Giudei", deriso e schernito, è veramente il Re salvatore del mondo. I particolari dolorosi degli altri Vangeli sono cancellati. Viene abolita la scena notturna del Getsemani, dove Cristo aveva sofferto lacrime di sangue, invocando un'altra via di salvezza; sulla croce il Padre non abbandona Gesù; e scompare la tenebra, che negli altri Vangeli avvolge per tre ore l'agonia.
    Come annuncia il Prologo, «nessuno ha mai visto Dio». «Voi non avete mai udito la sua voce né veduto la sua figura, e neppure avete la sua parola durevolmente in voi», ripete il Vangelo. Ma ora, dopo che il Verbo si è fatto carne e dimora tra noi, l'antica separazione ha preso fine. Se i discepoli non vedono il Padre, né odono la sua parola, mentre credono in Cristo vedono e conoscono il Padre e ascoltano la voce che credevano assente in eterno. Anche Dio è qui, davanti agli occhi, nella figura visibile del Figlio. Nessun altro scrittore cristiano aveva mai osato proclamare questa visione e conoscenza suprema.
    Questa conoscenza è una comunione profondissima. Ora il Padre è "una cosa sola" col Figlio; il Figlio è "una cosa sola" col Padre: i discepoli presenti e tutti gli altri che in futuro leggeranno il Vangelo di Giovanni sono "una cosa sola" tra loro: essi sono "una cosa sola" col Figlio, come il tralcio e la vite; e lo sono anche, attraverso la mediazione di Gesù Cristo, col Padre. «In quel giorno – dice Gesù durante l'ultima cena – riconoscerete che io sono in voi... Se qualcuno mi ama, custodirà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Queste successive identità di amore e di conoscenza, queste fusioni sempre più vaste di cuori e di spiriti, che si allargano come onde nel lago dell'amore cristiano, ripetono l'unità originaria, che, prima della creazione, esisteva tra le due figure divine. Qualsiasi separazione e divisione, nel cielo e nella terra, è caduta. Non c'è che l'Uno celeste e terrestre. Fuori di esso soltanto le tenebre, che non riconoscono e non accolgono il Figlio.

    Verso la fine del Vangelo di Giovanni, il mondo e la tenebra che coincide col mondo, allargano il loro potere, fino a colmare quasi tutta la scena. «Se il mondo vi odia – dice Gesù ai discepoli – sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; ma perché non siete del mondo, e io vi ho scelti dal mondo, il mondo vi odia». Giuda, che sta per tradire, esce nella notte. Satana, "il principe di questo mondo", si avvicina. «Il mondo intero – aggiunge la Prima lettera di Giovanni – giace sotto il potere del Maligno». Mentre l'ora si approssima, i discepoli sono turbati e sconvolti, e Gesù cerca invano di calmarli. Queste assicurazioni non li placano soprattutto perché Gesù aggiunge: «Figlioli, sono ancora con voi per poco tempo... Dove vado io, voi non potete venire».«Avete udito cosa vi ho detto: se mi amaste veramente, vi rallegrereste che vado al Padre, perché il Padre è più grande di me». I discepoli si sentono soli, orfani, abbandonati, prigionieri: Gesù sta per ritornare nel luogo vuoto fuori dal tempo e dallo spazio, nel luogo dei riflessi, vicino al Padre, per abitare la sua vera patria.
    Mentre abbandona il mondo, Gesù lascia ai discepoli un testimone, un interprete, un difensore, un portavoce, un consolatore, un protettore: il Paraclito, che noi chiamiamo Spirito Santo. A differenza del Verbo, che si è mostrato nella carne, lo Spirito Santo non è visibile: dopo la morte sulla croce entriamo nel regno dell'invisibile, dove non scorgiamo il corpo del Verbo e del suo interprete. Lo Spirito Santo sostituisce Gesù, lo rende presente, ricorda ciò che egli ha detto, lo interpreta, lo commenta, lo fa comprendere, rivela persino quello che il Verbo non ha potuto rivelare; comunica lo spirito di Gesù ai discepoli e a tutti coloro che nel futuro crederanno in lui. Così, quando lo Spirito Santo parla nel cuore dei fedeli, Gesù e tutte le cose che egli ha comunicato sono presenti, ferme ed eguali a se stesse. Egli è sempre là, alle nozze di Cana o sul Golgota, e dice ciò che allora aveva detto e fatto.
    Eppure, grazie allo Spirito Santo, queste cose sono nuove, sempre in movimento, inesauribili, irraggiungibili: devono essere ricomprese e reinterpretate in modi sempre diversi, con parole che nessuno aveva mai ascoltato; perché lo Spirito è l'acqua che zampilla verso la vita eterna. Quando lo Spirito Santo tace, una religione muore o sta per morire.

    Nota. Nessun lettore può comprendere il Vangelo di Giovanni senza un commento. In Italia, oggi ne esistono due eccellenti: Rudolf Schnackenburg, Commentario teologico al Nuovo Testamento. Il Vangelo di Giovanni (Paideia) e Raymond Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale (Cittadella). Un altro libro ottimo è quello di Charles H. Dodd, L'interpretazione del Quarto Vangelo (Paideia).


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