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     «Discese agli inferi»

    Joseph Ratzinger

    inferi
    Forse nessun articolo di fede suona così estraneo alla nostra coscienza odierna come questo. Assieme alla confessione della nascita di Gesù dalla vergine Maria e dell'Ascensione del Signore al cielo, esso è un forte stimolo alla 'demitizzazione', che qui sembra possibile senza alcun pericolo e senza scandali. I pochi passi nei quali la Scrittura sembra dire qualcosa sull'argomento (1 Pt 3,19s.; 4,6; Ef 4,9; Rm 10,7; Mt 12,40; At 2,27.31) sono di così difficile comprensione da poter essere facilmente interpretati nelle direzioni più diverse. Sicché, se alla fine si elimina del tutto l'affermazione, sembra di avere ottenuto il vantaggio di liberarsi di una questione strana e difficilmente inquadrabile nel nostro pensiero, pur senza rendersi colpevoli di una particolare infedeltà. Ma così facendo, si è davvero guadagnato qualcosa? O non si è piuttosto soltanto evitato di affrontare un aspetto difficile e oscuro del reale? Si può cercare di sfuggire ai problemi semplicemente negandoli, oppure si può cercare di risolverli prendendoli di petto. La prima via è certo più comoda, ma soltanto la seconda fa progredire. Invece di accantonare il problema, non dovremmo dunque imparare piuttosto a vedere come questo articolo di fede, al quale nel corso dell'anno liturgico è liturgicamente correlato il Sabato santo, c'interessi oggi più che mai da vicino, in quanto esprime in modo del tutto speciale l'esperienza del nostro tempo? Al Venerdì santo, il nostro sguardo rimane sempre puntato sul Crocifisso; il Sabato santo, invece, è il giorno della 'morte di Dio', il giorno che esprime e anticipa l'inaudita esperienza del nostro tempo: la sensazione che Dio è semplicemente assente, che la tomba lo ricopre, che egli non è più desto, non parla più, sicché non c'è più nemmeno bisogno di contestarne l'esistenza, ma si può tranquillamente farne a meno. «Dio è morto, e noi l'abbiamo ucciso». Questa lapidaria affermazione di Nietzsche appartiene, quanto a linguaggio, alla tradizione della pietà cristiana centrata sulla Passione ed esprime il senso del Sabato santo, la 'discesa agli inferi' [1].
    In relazione a questo articolo mi vengono sempre alla mente due scene bibliche. Innanzitutto quel crudele episodio dell'Antico Testamento, in cui Elia incita i sacerdoti di Baal a impetrare dal loro dio il fuoco per il sacrificio. Essi lo fanno, ma naturalmente non succede nulla. Allora egli li schernisce, esattamente come un illuminista sbeffeggia la persona pia, trovandola ridicola quando non ottiene nulla con la sua preghiera. Il profeta li prende in giro, facendo loro osservare che forse non hanno pregato a voce abbastanza alta: «Gridate con voce più alta, perché certo egli è un dio! Forse è sovrappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà!» (1 Re 18,27). Rileggendo oggi questo scherno rivolto ai devoti di Baal, ci si può certamente sentire un po' sconcertati; si può avere la sensazione che ora noi stessi ci troviamo in una situazione del genere, e che quello scherno tocchi ora a noi. Nessun grido sembra più capace di risvegliare Dio. Il razionalista pare tranquillamente autorizzato a dirci: pregate più forte, forse allora il vostro Dio si sveglierà. «Discese nel regno dei morti»: questa frase sembra proprio dire la verità della nostra ora, lo sprofondamento di Dio nel mutismo, nel cupo silenzio dell'assente.
    Ma accanto alla storia di Elia e alla sua analogia neotestamentaria nel racconto del Signore che dorme durante l'infuriare della tempesta sul lago (Mc 4,35-41 par.), affiora qui alla memoria anche il racconto di Emmaus (Lc 24,13-35). I discepoli sconvolti parlano della morte della loro speranza. Per essi è accaduto qualcosa che assomiglia alla morte di Dio: il punto in cui Dio sembrava avere definitivamente parlato è stato cancellato. L'inviato di Dio è morto, e quindi si è fatto il vuoto assoluto. Nulla più risponde. Ma proprio mentre vanno parlando della morte della loro speranza, ormai incapaci di vedere Dio, essi non avvertono che proprio questa speranza è lì viva in mezzo a loro. Non avvertono che 'Dio', o piuttosto l'idea che si erano fatti della sua promessa, doveva morire per poter rivivere più grande di prima. L'immagine che si erano formata di Dio, e nella quale avevano tentato di comprimerlo, doveva essere distrutta perché essi potessero, per così dire sulle rovine della casa demolita, rivedere il cielo e Quello stesso che resta sempre l'infinitamente più grande. Il poeta Eichendorff ha formulato questo pensiero con ricchezza di sentimento, in un modo che a noi appare quasi ingenuo, ma è tipico del suo secolo:

    Tu sei colui che distrugge con mite mano
    ciò che noi costruiamo sul nostro capo;
    e lo fai dolcemente, per farci rivedere il cielo.
    Ecco perché non me ne lamento.

    Allo stesso modo, l'articolo di fede sulla discesa del Signore agli inferi ci rammenta come della rivelazione cristiana non faccia parte solo la parola di Dio, ma anche il silenzio di Dio. Dio non è soltanto la parola comprensibile che viene a noi; è anche il fondamento nascosto e inaccessibile, incompreso e inafferrabile, che si sottrae a noi. Certo, nel cristianesimo c'è un primato del Lógos, della Parola, sul silenzio: Dio ha parlato. Dio è parola. Ma non dobbiamo per questo dimenticare la verità del perenne nascondimento di Dio. Solo dopo averlo sperimentato come silenzio, possiamo sperare di percepire anche il suo parlare, che risuona nel silenzio [2]. La cristologia procede oltre la croce, il momento in cui si coglie l'amore divino, per entrare nella morte, nel silenzio e nell'occultamento di Dio. Possiamo allora meravigliarci se la chiesa, se la vita stessa del singolo, vengono continuamente introdotte in quest'ora del silenzio, nel dimenticato e accantonato articolo «Discese agli inferi»?
    Se si pensa a questo, la questione delle prove dalla 'Scrittura' si risolve da sé. Per lo meno nel grido di Gesù al momento della sua morte: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), percepiamo il mistero della discesa di Gesù agli inferi come un lampo nell'oscurità della notte. Non dimentichiamo che questa invocazione del Crocifisso è la frase iniziale di una preghiera di Israele (Sal 22 [21],2), nella quale si riassumono in maniera toccante l'afflizione e la speranza di questo popolo scelto da Dio e ora da lui abbandonato nel modo apparentemente più desolante. Tale preghiera, che sgorga dalla più profonda afflizione per la tenebra in cui Dio si è avvolto, termina con un inno alla grandezza di Dio. Anche questo è presente nel grido di morte emesso da Gesù, grido che Ernst Käsemann ha concisamente connotato come una preghiera dall'inferno, come l'ergersi del primo Comandamento nel deserto dell'apparente assenza di Dio: «Il Figlio mantiene ancora salda la fede, anche adesso che la fede sembra divenuta un non-senso e la realtà terrena proclama che Dio è assente, il Dio di cui non per nulla parlano il primo ladrone e la folla schernitrice. Il suo grido non è rivolto alla vita e alla sopravvivenza, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido si contrappone alla realtà del mondo intero». E allora, abbiamo ancora bisogno di chiederci che significato debba avere la preghiera nella nostra ora di tenebra? Può forse essere qualcosa di diverso dal grido dal profondo, assieme al Signore che è 'disceso agli inferi' e ha riaffermato la vicinanza di Dio proprio nel mezzo dell'abbandono da parte di Dio?
    Tentiamo di fare anche un'altra riflessione, per penetrare in questo poliedrico mistero che da un lato solo non è possibile chiarire. Prendiamo innanzitutto atto di una constatazione esegetica. Ci si dice che, nel nostro articolo di fede, la parola 'inferi' ('inferno') sarebbe solo un'errata traduzione di She'ól (in greco Hádēs), con cui gli ebrei designavano lo stato oltre la morte, che veniva immaginato molto vagamente come una specie di esistenza umbratile, più un non-essere che un essere. Pertanto, la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù era entrato nello She'ól, ossia che era morto. Ora, ciò potrà anche essere assolutamente giusto. Ma resta pur sempre da vedere se la cosa si è così davvero semplificata, divenendo meno misteriosa di prima. Io ritengo, invece, che proprio ora il problema presenti il suo vero volto: la morte e ciò che accade quando uno muore, ossia quando entra nel regno della morte. Di fronte a questo problema dobbiamo tutti confessare il nostro imbarazzo. Nessuno sa realmente che cosa succeda, perché tutti viviamo al di qua della morte, non abbiamo alcuna esperienza della morte. Possiamo, però, forse tentare di avvicinarci proprio partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, in cui abbiamo colto il nucleo centrale di ciò che significa la discesa di Gesù agli inferi, la sua partecipazione al destino di morte dell'uomo. In quest'ultima preghiera di Gesù, come del resto anche nella scena dell'Orto degli ulivi, il nucleo più profondo della sua passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. Ora qui viene alla luce, in definitiva, semplicemente l'abissale solitudine dell'uomo: dell'uomo che nel suo intimo è solo. Questa solitudine, che viene sì per lo più camuffata in svariati modi, ma che rimane la vera situazione dell'uomo, denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura dell'uomo, che non può vivere da solo, ma ha bisogno di essere con gli altri. La solitudine è perciò la regione dell'angoscia, radicata nella condizione di essere-abbandonato in cui l'essere si trova, che deve essere e tuttavia è costretto ad affrontare l'impossibile.
    Cerchiamo di spiegarci meglio con un esempio. Quando un bambino si trova obbligato ad attraversare un bosco da solo, in una notte oscura, è preso dal terrore, anche se gli è stato dimostrato nella maniera più convincente che non c'è assolutamente nulla di cui debba temere. Nel momento in cui si trova solo nelle tenebre, e sperimenta così radicalmente il senso della solitudine, insorge in lui la paura, l'autentica paura dell'uomo, che non è paura di fronte a qualcosa, bensì paura e basta. La paura di fronte a qualcosa di determinato è in fondo innocua: può essere scacciata togliendo di mezzo l'oggetto che la provoca. Tanto per fare un esempio, quando uno ha paura di un cane che morde, si fa presto a rimediare legando il cane alla catena. Nel caso nostro, invece, ci imbattiamo in qualcosa di ben più profondo: l'uomo, allorché finisce nell'estrema solitudine, non trema di fronte a qualcosa di determinato, che può essere eliminato; prova invece il terrore della solitudine, avverte l'aspetto inquietante e il senso di essere abbandonato propri della sua stessa condizione, non superabili per via razionale. Aggiungiamo ancora: quando uno deve vegliare un morto da solo e di notte in una stanza, avvertirà pur sempre la sua situazione con una certa inquietudine, anche se non vuole ammetterlo ed è in grado di convincersi razionalmente che le sue sensazioni sono prive di oggetto. Di per sé, egli sa benissimo che il morto non può fargli assolutamente nulla e che la sua situazione sarebbe probabilmente assai più pericolosa se la persona che veglia fosse ancora viva. Ciò che qui affiora è un tipo completamente diverso di paura: non è la paura di fronte a qualcosa, bensì la sinistra angoscia della solitudine in sé, nell'essere solo con la morte, l'essere-abbandonato dell'esistenza.
    Dobbiamo ora chiederci: come è possibile vincere tale paura, se la prova dell'inconsistenza del pericolo fallisce? Ebbene, il bambino sarà libero dalla sua paura nel momento in cui troverà una mano che stringa la sua e lo guidi, quando sentirà una voce che gli parli; nel momento, quindi, in cui sperimenterà la compagnia di una persona che gli vuole bene. E anche colui che si trova solo col morto, sentirà sparire la paura non appena un'altra persona sia con lui, non appena avverta la vicinanza di un 'tu'. In questo superamento della paura si rivela allo stesso tempo, di nuovo, la sua natura: come essa sia il terrore della solitudine, l'angoscia di un essere che può vivere solo insieme con altri. La vera paura dell'uomo può essere superata non con l'intelletto, bensì soltanto grazie alla presenza di una persona che gli voglia bene.
    Dobbiamo approfondire ulteriormente il nostro interrogativo. Se ci fosse una solitudine in cui nessuna parola di un altro potesse più penetrare a cambiare la situazione, se si verificasse un abbandono talmente profondo da non permettere più ad alcun 'tu' di raggiungere chi è abbandonato, avremmo allora uno stato di vera e totale solitudine, quello stato spaventoso che il teologo chiama 'inferno'. Che cosa significhi questa parola, lo possiamo esattamente definire a partire da quanto abbiamo detto: essa denota una solitudine in cui non penetra più la parola dell'amore e che costituisce quindi l'autentica situazione di esistenza abbandonata. A questo proposito, a chi non viene in mente come poeti e filosofi del nostro tempo esprimono l'opinione che, in fondo, tutti gli incontri fra uomini s'arrestano alla superficie, sicché nessun uomo ha accesso alla vera profondità dell'altro? Nessuno, quindi, può realmente raggiungere l'intimo dell'altro; ogni incontro, per bello che sembri, si limita in sostanza ad anestetizzare l'insanabile ferita della solitudine. Nel più profondo della nostra esistenza, perciò, abiterebbe l'inferno, la disperazione: la solitudine, insomma, che è tanto ineluttabile quanto raccapricciante. È noto come Sartre abbia costruito su quest'idea tutta la sua antropologia. Ma anche un poeta, in apparenza così conciliante e sereno come Hermann Hesse, lascia trapelare, in fondo, gli stessi pensieri:

    È strano camminare nella nebbia!
    Vivere vuol dire esser soli.
    Nessun uomo conosce l'altro:
    ognuno è solo!

    In effetti, una cosa è certa: c'è una notte nel cui abbandono non scende alcuna voce; c'è una porta per la quale possiamo passare esclusivamente da soli: la porta della morte. Ogni paura del mondo è, in definitiva, paura-di questa solitudine. Si capisce allora perché l'Antico Testamento abbia una sola parola per indicare sia gli inferi sia la morte: la parola She'ól. In fondo, per esso le due situazioni sono identiche. La morte è la solitudine, semplicemente. Ma quella solitudine in cui nemmeno l'amore riesce più a penetrare, quella è davvero l''inferno'.
    Siamo così tornati nuovamente al punto di partenza, all'articolo di fede che afferma la discesa di Gesù agli inferi. Questa frase ci conferma quindi che Cristo ha varcato la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi con la sua passione in questo abisso del nostro estremo abbandono. Là dove nessuna voce è più in grado di raggiungerci, lì egli è presente. Con ciò l'inferno è vinto, o – per essere più esatti – la morte, che prima era l''inferno', ora non lo è più. Nessuna delle due realtà è più la stessa di prima, perché al centro della morte c'è la vita, perché l'amore abita ora al centro di essa. Soltanto la chiusura in se stessi, voluta di proposito, è ora l''inferno', o – per dirla con la Bibbia – la seconda morte (per esempio, Ap 20,14). Il morire, invece, non è più la via che porta alla solitudine glaciale, le porte dello She'ól sono state sfondate. Io credo che a partire da qui si possono comprendere le immagini dei Padri, a prima vista di sapore così mitologico, che ci parlano di Gesù che ha fatto uscire i morti, di apertura delle porte; e diventa comprensibile anche quel testo, apparentemente così mitico, del vangelo di Matteo, dove si afferma che alla morte di Gesù si sono aperti i sepolcri e sono risuscitati i corpi di molti santi (Mt 27,52). La porta della morte resta aperta, da quando nella morte abita la vita: l'amore...

    NOTE

    1 Cfr. H. DE LUBAC, Il dramma dell'umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1949, 44s.
    2 Cfr. l'importanza rivestita dal silenzio negli scritti di IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Epistola ad Ephesios 19, 1 [trad. it., Le lettere, Paoline, Roma 1980, 48 (Ai cristiani di Efeso)]: «Al principe di questo mondo sono rimasti occulti la verginità di Maria e il suo parto, e così pure la morte del Signore: tre alti ed eloquenti misteri che si sono attuati nel silenzio maestoso di Dio» (citato secondo la versione tedesca di J.A. FISCHER, Die Apostolischen Väter [I Padri dell'era apostolica], Darmstadt 1956, 157); cfr. Epistola ad Magnesios 8, 2 [trad. it. cit., 56 (Ai cristiani di Magnesia)], ove si parla del lógos apò sighês proelthón [parola che proviene dal silenzio], e la meditazione di sant'Ignazio sulla parola e sul silenzio contenuta nell'Epistola ad Ephesios 15, 1 [trad. ít. cit., 46]. Per quanto riguarda lo sfondo storico di questa posizione, cfr. H. SCHLIER, Religionsgeschichtliche Untersuchungen zu den Ignatiusbriefen [Ricerche storico-religiose sulle lettere di sant'Ignazio], Berlin 1929.


    (Introduzione al Cristianesimo, Queriniana 2003 - pp. 284-292)


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