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    La teologia fra

    Parola di Dio

    e parole degli uomini

    Bruno Forte

    Il rapporto fra la teologia e Parola di Dio è così decisivo per il pensiero della fede, che non a caso il Novecento teologico conobbe presto un'appassionata polemica proprio riguardo ad esso: ne furono protagonisti il giovane Karl Barth - che aveva da poco pubblicato la seconda, radicalmente innovativa edizione del suo commento a La lettera ai Romani di Paolo (1922) - e il suo maestro berlinese, ultimo grande corifeo della teologia liberale, Adolf von Harnack. Questi aveva rivolto pubblicamente Quindici domande a quei teologi che disprezzano la teologia scientifica, indirizzandosi di fatto all'antico allievo. Barth aveva replicato con Quindici risposte al Professor von Harnack, che a sua volta gli rispose con una lettera aperta, cui seguirono un'ulteriore replica di Barth e un intervento conclusivo di Harnack . Il Maestro berlinese rimproverava ai "detrattori della teologia scientifica fra i teologi" ("Verächter der wissenschaftliche Theologie unter den Theologen") l'aver abdicato al metodo storico-critico, il solo in grado di evitare il rischio di confondere "un Cristo immaginario con quello reale", oltre che di procurare alla teologia dignità e rispetto fra le scienze. Era convinzione del Professore di Berlino che chi trasforma "la cattedra teologica in pulpito", compromette anche la continuità fra l'umano nei suoi gradi più elevati e il divino, aprendo la strada alla barbarie e all'ateismo. Una teologia dipendente dalla Scrittura sarebbe forse pure edificante, ma di certo poco scientifica e del tutto incapace di parlare a intelligenze libere e adulte.
    Nelle sue risposte - non prive della veemenza del neofita - Barth punta l'indice contro quel mondo teologico "cui è diventato estraneo e inaudito il concetto di un oggetto normativo, davanti all'unica normativa del metodo". Dove si riconosce correttamente il primato dell'Oggetto puro, della Parola divina nelle parole con cui si comunica agli uomini, lì ogni soggettivismo è fugato e la teologia si incontra al livello più alto e fecondo con la predicazione, perché entrambe si riconoscono al servizio della rivelazione di Dio. Arbitrio e soggettività si insinuano, al contrario, lì dove il primato è dato alle parole degli uomini piuttosto che all'auto-comunicazione divina. Ogni continuità fra al-di-qua e al-di-là va rifiutata: fra i due mondi ci sarà sempre "una relazione dialettica, che rimanda ad un'identità che non può essere compiuta, e perciò neanche affermata". Il contingente resta solo un pallido rimando all'eterno: una teologia che non dipendesse dalla Parola di Dio non sarebbe neanche teologia. E poiché il Dio vivente sta e resta oltre ogni cattura umana, vera teologia sarà sempre luminosa tenebra, oscurità rischiarata dalla sola luce della fede, generata dalla Parola della rivelazione.
    L'abisso fra i due teologi è quello fra due epoche: l'Ottocento liberale e borghese, ormai sulla via del tramonto, e la rampante "teologia dialettica" novecentesca, che Barth inaugura mettendosi in ascolto dell'apostolo Paolo nella lettera ai Romani. Rispetto all'appello finale di Harnack al suo interlocutore perché ammetta che "mentre suona il proprio strumento, Dio ne ha anche altri", la posizione del giovane Teologo resta tranciante: "tutto è terribilmente relativo", solo Dio merita ascolto e obbedienza. Qualche anno più tardi Barth ribadirà la medesima tesi nel suo importante saggio su Anselmo d'Aosta, interpretato come il testimone dell'assoluto primato di Dio sull'intelligenza indagante: "Una scienza della fede che negasse o mettesse in dubbio la fede... smetterebbe non soltanto ipso facto di essere credente, ma pure di essere scientifica. Le sue negazioni fin da principio non sarebbero affatto migliori di una disputa di pipistrelli e civette con le aquile sulla realtà dei raggi del sole a mezzogiorno" . La teologia, insomma, sta o cade con l'ascolto obbediente della Parola di Dio, e perciò la questione del suo rapporto con la Sacra Scrittura è per essa veramente decisiva.
    Se ne occuperà in tutta la sua rilevanza il Concilio Vaticano II: recependo i risultati del "ressourcement" biblico, patristico e liturgico dei decenni che lo avevano preceduto, il Concilio produce come frutto maturo la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum. In essa, al n. 24 - nell'ambito del capitolo finale, dedicato a La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa - si afferma: "La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio delle sacre pagine come l'anima della sacra teologia" . La portata di questo testo è immediatamente percepibile se si pensa alla polemica nata a partire dalla Riforma contro l'aridità della teologia delle Scuole, che riduceva l'uso della Sacra Scrittura ai cosiddetti "dicta probantia", asserviti al primato dell'argomentazione concettuale. Così, il giovane Lutero, nelle tesi 19 e 20 della Disputatio di Heidelberg (1518), non aveva esitato a contrapporre il vero teologo, che dipende totalmente dalla rivelazione contenuta nella Scrittura, al falso teologo, che specula in termini solo umani: "Non può dirsi veramente teologo chi scruta le profondità invisibili di Dio pensando di conoscerle attraverso ciò che è stato creato, ma solo chi di Dio conosce ciò che è si è reso visibile e rivolto a noi come di spalle attraverso la passione e la croce" .
    Si comprende allora che, se nel testo citato della Dei Verbum il Vaticano II afferma con chiarezza l'assoluto primato della Parola rivelata su ogni conoscenza della fede, un tale primato non esclude in alcun modo le sfide del vissuto umano, le assume anzi perché trovino luce nell'auto-comunicazione del Verbo procedente dal divino Silenzio. Solo così la Parola si offre nel suo senso più profondo e nella potenzialità degli orizzonti che schiude all'esistenza umana in questo mondo. È perciò a queste sfide e a queste luci che vorrei accostarmi per rapportare ad esse il dono della Parola, riconoscendo in ciascuna un'icona capace di rivelare l'umano a se stesso e di aprirlo all'avvento divino. Muovendo dalla sfida dell'interruzione e dall'icona del dolore, la più universale di tutte le domande, mi accosterò all'esistenza umana intesa come esodo e, proprio così, come icona dell'attesa. A questa attesa corrisponde anzitutto il divino Silenzio, che suscita e nutre l'ascolto, in cui la Parola di Dio viene ad abitare le parole degli uomini perché possa realizzarsi l'incontro dell'avvento e dell'esodo, e gli abitatori del tempo possano accogliere l'auto-comunicazione dell'Eterno. Una riflessione conclusiva toccherà la preghiera e l'icona della lotta e della resa, da essa evocata.

    La sfida dell'interruzione e l'icona del dolore

    La vera domanda nasce sempre dal dolore. Dove non si fa esperienza dell'interruzione, la coscienza resta assopita in un assente letargo. Domandare, pensare vuol dire accogliere l'invito ad attraversare l'abisso: il pensare interrogante è perciò l'operazione più responsabile, più seria, e insieme la più lacerante e faticosa che sia dato compiere all'uomo. L'identità più profonda dell'essere umano, il suo "nome" incancellabile, è la domanda: "Il mio nome è una domanda e la mia libertà è nella mia propensione alle domande [1]. La lotta con la morte, che è la vita, si compie con l'arma dell'interrogazione, la sola che spinge oltre la soglia e può farci rinascere dalla nostra stessa morte: resistendo al cammino che la getta verso il nulla, la coscienza interrogante si pro-getta, ritrovando in se stessa la sorgente di vita più forte della morte. È questa "agonia", è questo "amore" (non a caso in greco "agòn" e "agàpe" si incontrano nell'etimologia) il compito del pensiero indagante, la sua più alta "pietas", in cui la coscienza diviene autocoscienza, presenza dello spirito a se stesso.
    La coscienza del dolore, divenendo problema e domanda da cui nasce e di cui si nutre lo spirito indagante, rivela come il cammino verso la vita sia in realtà più profondo e più forte di quello verso la morte, e mostra come l'essere umano non sia semplicemente gettato verso l'abisso del nulla, ma sia ben più radicalmente resistente alla morte, chiamato alla vita. È questo l'itinerario del pensiero: dalla morte si nasce pellegrini verso la vita. È questa la "svolta": dove nasce la domanda, l'uomo non si arrende di fronte al destino della necessità, e quindi alla vittoria che copre col suo silenzio tutte le cose, e si scopre cercatore di senso, assetato di una luce che vinca l'oscurità della morte e possa dar valore alle opere e ai giorni, offrendo dignità e bellezza alla tragicità del vivere e del morire. Sperimenta così, nell'"agonia" della domanda, il misterioso legame con l'origine, silenziosa e raccolta, di tutto ciò che esiste, patria intravista e non posseduta. La condizione dell'essere umano è quella dell'esodo verso una misteriosa terra promessa: pellegrino è l'abitatore del tempo. Di questo dolore interrogante, di questa ferita che si fa esodo e domanda, tramonto e aurora, è singolare voce la poesia: bastino a mostrarlo questi versi di Jorge Luis Borges:

    Ver en la muerte el sueño, en el ocaso 
    Un triste oro, tal es la poesia

    Que es inmortal y pobre. La poesia
    Vuelve como la aurora y el ocaso [2].

    L'esistenza come esodo e l'icona dell'attesa

    L'uomo è, dunque, un cercatore della patria lontana, che, lottando contro l'apparente trionfo della morte, si lascia permanentemente provocare, interrogare ed attrarre dall'ultimo orizzonte. In quanto questo orizzonte è la contestazione radicale della vittoria della morte, esso si offre come il mistero assoluto della vita, il grembo che avvolge l'esistere e lo custodisce più fortemente del silenzio dell'interruzione. Attratto da questo ultimo orizzonte, che lo rende pensante, l'essere umano sperimenta se stesso come "auto-trascendenza", esodo verso il Mistero che avvolge ogni cosa, desiderio e ricerca dell'inafferrabile e dell'indefinibile abbraccio, non riducibile a una cattura indiscreta: "Mi hai donato il giorno perché non potevi donarmi se non ciò che sei. / Madre, mi hai donato i giorni della mia morte. / Da allora, vivo e muoio in te / che sei amore. / Da allora, rinasco dalla nostra morte" [3]. Di questo orizzonte non si può disporre: verso di esso ci si può solo porre in attesa, in ascolto.
    L'autotrascendenza non si realizza, perciò, al di fuori di un'autodeterminazione morale: l'esodo della condizione umana è cammino di libertà, scelta del desiderio e dell'attesa. Di quest'attesa, consapevole e libera, è icona la preghiera: nella condizione dell'orante, l'uomo sperimenta se stesso come libero pellegrino verso la vita, "mendicante del cielo" desiderato e cercato. Nella stessa condizione sperimenta come la vera tentazione paralizzante sia il sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe fermare la permanente trascendenza del cammino: "L'esilio vero d'Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo' [4]'. L'esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non si ha più nel cuore la struggente nostalgia della patria. L'illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi compiuti nella propria vicenda, il catturare Dio nella misura del nostro orizzonte, è la malattia mortale: si è morti quando non si vive più l'inquietudine e la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora. Lo rivelano questi versi di Renzo Barsacchi, il poeta dell'assente Presenza di Dio:

    Portami via per mano ad occhi chiusi
    senza un addio che mi trattenga ancora
    tra quanti amai, tra le piccole cose

    che mi fecero vivo.
    Non credevo, Signore, tanto profondo fosse
    questo sfiorarsi d'ombre, questo lieve
    alitarsi la vita nello specchio

    fragile di uno sguardo,
    né pensavo che il mondo
    divenisse, abbuiando, così acceso
    di impensate bellezze [5].

    Il divino Silenzio e l'icona dell'ascolto

    Su questi presupposti universalmente umani si innesta lo specifico della tradizione ebraico-cristiana: in essa il Dio che suscita la ricerca del cuore inquieto è il Dio dell'avvento, l'Eterno che venendo nella storia dischiude il cammino, accende l'attesa, offre una promessa sempre più grande del compimento realizzato. In tal senso, il Dio biblico è anzitutto Silenzio [6]. Il silenzio divino non è solo quello della silenziosa scrittura dei cieli (cf. Sal 19,2), né è solo la misteriosa presenza, con cui l'Eterno viene a sconvolgere tutte le possibili attese, offrendosi al suo eletto nella "voce del tenue silenzio" (cf. 1 Re 19,11_13). Il nascondimento del volto divino non è solo esperienza psicologica della Sua assenza o vicenda storica legata al tempo della rovina, in cui Dio sembra ritrarre la Sua protezione dal popolo eletto: il silenzio di Dio ha un valore teologico, è una sfida radicale sul Mistero, un invito a credere ed affidarsi all'assente Presenza ed a perseverare nell'abbandono al Volto cercato, anche quando questo Volto fa sentire tutto il peso tragico del Suo nascondimento: "Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui" (Is 8,17). Questo silenzio è uno sperimentare nella drammaticità del fallimento che la via di Dio non è solo quella della parola e della risposta, ma che anche quella conturbante del silenzio, cui corrispondere nello spazio vuoto dell'ascolto fedele.
    "Lo studio del silenzio nella Bibbia conduce, al di là di una semplice fenomenologia del silenzio, verso il punto sensibile dove si scontrano due concezioni teologiche... L'una, installata nella sicurezza di una fine conciliatrice, che pone sull'altra riva, di fronte all'Alfa di questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terra ferma quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso... L'altra concezione introduce in questo edificio troppo bello l'indizio di insicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa accidentale, non garantendo l'uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale..." [7]. Se "il Dio dei ponti sospesi" è il Dio della Parola che colma gli spazi dell'attesa, il "Dio dell'arcata spezzata", che costringe a un ascolto senza risposta, restituisce all'uomo la dignità del rischio, perché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli niente, rendendolo in tal modo attento al valore dell'opera presente, a prescindere da ogni risultato o ricompensa promessi. "Dio si è ritirato nel silenzio, non per evitare l'uomo, ma, al contrario, per incontrarlo; è tuttavia un incontro del Silenzio con il silenzio. Due esseri di cui l'uno tentava di sfuggire all'altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia, si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti... Cessando di essere un rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l'uomo all'appuntamento ineluttabile, ma è l'appuntamento dell'universo opaco del silenzio" [8].
    Gli eventi del silenzio di Dio fondano così la storia umana della libertà e creano le condizioni indispensabili per una ricerca vissuta nella pura gratuità dell'ascolto: se ogni calcolo con la promessa è sospeso, se il Dio dell'alleanza è il Dio nascosto e imprevedibile nel suo silenzioso ritrarsi, pur senza cessare di essere il Dio fedele, nessuna motivazione utilitaristica potrà ispirare la lode o l'invocazione rivolte a Lui. Non è l'aspettativa della ricompensa a poter motivare il comportamento, ma la dignità pura della semina, il rischio consapevolmente vissuto davanti al silenzio di Dio. L'esperienza del silenzio divino, fascinoso e tremendo, diventa così la sentinella che impedisce alla fede biblica di tradursi in calcolo e così salvaguarda tanto la libertà e la gratuità dell'atto umano, quanto la gratuità e la libertà dell'agire divino. La Bibbia è in tal senso il libro della difficile libertà, perché chiede senza dare altra motivazione che la stessa, oscura richiesta, come succede nel dramma di Abramo sul monte del sacrificio. È il libro della Torah, del comandamento amato più di Dio, perché Dio può ritrarsi e tacere, ma la Parola continua a domandare e ad esigere di essere obbedita: "Amare la Torà più di Dio significa giungere a un Dio personale' [9]'.

    La Parola nelle parole e l'icona dell'incontro

    Nello spazio dell'ascolto, si compie il miracolo dell'avvento divino: Dio parla! La Parola - fatta di eventi e parole intimamente connessi - è "ri-velazione", uno svelarsi, che vela, un ostendersi nel ritrarsi, che attira. Nelle parole si dice e si tace la divina Parola! A questa dialettica di apertura e di nascondimento rinvia lo stesso termine "re-velatio" (analogo al greco "apokàlypsis") in cui il prefisso "re-" (come in greco l'"apo") ha tanto il senso della ripetizione dell'identico, quanto quello del passaggio alla condizione opposta: la rivelazione del Dio che viene toglie il velo che cela, ma è anche un più forte nascondere, è comunicazione di sé, che inseparabilmente si offre come un nuovamente "velare" [10]. La Parola eterna entra nelle parole del tempo: sullo sfondo del Silenzio divino, il Verbo si offre come la luce che viene nelle tenebre, la rivelazione dell'amore attuata nella "consegna" di sé sino alla fine, il Figlio che ci rende figli nel cuore del Padre. Il dono della Parola raggiunge così il suo vertice nella "kenosi" del Verbo, nell'evento della Parola abbandonata, che morendo ci dona la vita e consegnandosi prepara la via alla consegna dello Spirito per ogni carne
    Questa struttura trinitaria della rivelazione è stata a lungo obliata nella meditazione dell'Occidente: specialmente nel tempo della modernità, segnato dalle pretese del razionalismo più audace, l'autocomunicazione divina è stata per lo più concepita nella logica della manifestazione totale, di quel puro e semplice venire all'aperto del nascosto, reso dal termine, che traduce in tedesco revelatio: Offenbarung (etimologicamente: "gestazione e apertura dell'aperto") [11]. Così, l'avvento di Dio ha potuto essere pensato come esibizione senza riserve: dicendosi, il Mistero assoluto si sarebbe consegnato alla presa del mondo; l'ingresso dell'Eterno nel tempo avrebbe fatto della storia il "curriculum vitae Dei", il pellegrinaggio della vita di Dio per divenire se stesso. Ma da principio non fu così: rivelandosi, l'Eterno non soltanto si è detto, ma si è anche più altamente taciuto. Dio rivelato e nascosto, "absconditus in revelatione - revelatus in absconditate", il Dio dell'avvento è il Dio della promessa, dell'esodo e del Regno. Perciò, la Sua rivelazione non è visione totale, ma Verbo che viene dal Silenzio e ad esso apre.
    "Inscritta" nel Silenzio, la Parola ne è mediazione, rimando alle profondità silenziose, che costituiscono la provenienza della sua venuta, nel tempo e nell'eternità: ecco perché accoglie veramente la Parola solo chi ascolta il Silenzio, chi nel Verbo aderisce al Padre, di cui il Figlio è rivelazione. "Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato" (Gv 12,44). È per questo che l'accoglienza della Parola è dinamismo, che deve continuamente trascendersi: se essa è ascolto del Silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa e a cui rinvia, l'insondabile profondità di questo divino Silenzio motiva l'inesauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di là del Verbo, in un incontro sempre nuovo con il divino Altro. Veramente allora obbedisce alla Parola chi "trasgredisce" la Parola ("trans-gredi" come "passar oltre"), chi non si ferma alla lettera, ma, ruminandola, scava in essa per accedere ai sentieri del Silenzio: "Il Padre pronunciò una Parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall'anima" [12].
    È su questa via che lo Spirito guida i credenti alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13), attualizzando la memoria del Cristo ed insegnando ogni cosa: è come se l'amore "estatico" di Dio, per il quale Egli esce dal silenzio e si comunica nella Parola della creazione e della redenzione, susciti un amore di risposta, parimenti "estatico", bisognoso di uscire dal chiuso del proprio mondo, per immergersi attraverso la Parola nei sentieri senza fine del Silenzio, cui fedelmente conduce l'evento di rivelazione. All'esodo da sé del divino Silenzio viene a corrispondere -nell'asimmetria del rapporto che c'è fra la creatura e il Creatore - l'esodo da sé del silenzio degli esseri, la loro apertura al Mistero che si offre attraverso la Parola e in essa, lo stupore e la meraviglia dell'adorazione del Dio rivelato nel nascondimento e nascosto nella rivelazione.

    La preghiera e l'icona della lotta e della resa

    Dove l'esodo accoglie l'Avvento nasce la fede: essa non è riposo tranquillo, non possesso e certezza, ma lotta, agonia. Tale fu l'esperienza di Giacobbe al guado (cf. Gen 32,23-33): come per lui, così per chi crede il Dio vivente è l'assalitore notturno, tutt'altro che il "Deus mortuus", proclamato dalla ragione ideologica, o il "Deus otiosus", esiliato dalla ragione strumentale. Il Dio della rivelazione è l'Altro, non riducibile alla misura umana: guai a perdere il senso di questa distanza e della sofferenza della non identità, che ne consegue per l'uomo che "cade nelle mani del Dio vivente" (Eb 10,31)! Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere "risolta" né "fermata". Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combattimento, resistenza e resa: "Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo" (Ger 20,7. 9).
    La fede nutrita dalla Parola divina, venuta ad abitare le parole degli uomini, non è assenza di agonia e di passione, ma il vivere al tempo stesso in lotta con l'Altro e a Lui perdutamente arresi, consegnati allo Straniero, che invita: il Dio della fede è "fuoco divorante" (cf. Dt 4,24; Is 33,14; Eb 12,29). In questo senso la fede sommamente ha bisogno della preghiera, luogo per eccellenza della lotta con Dio: "Gesù cominciò a sentire paura e angoscia... e, andato un pò innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora". E perciò la fede è scandalo: "Non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo" (S. Kierkegaard). La "noche oscura" (Giovanni della Croce) è il luogo delle nozze mistiche: la preghiera della fede è e resta scandalo: non la risposta tranquilla alle nostre domande, ma la sovversione di ogni nostra domanda. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto diviene il Dio delle consolazioni e della pace: "Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide" (Lutero).
    Il Dio di Gesù non è la risposta, è custodia: in Lui soltanto restano l'ultima Parola e l'ultimo Silenzio, anche se qui e ora ci è già dato di accoglierli in noi nella speranza. Perciò, il credente è, in un certo senso, nient'altro che un ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se non fosse tale, la sua fede non sarebbe altro che rassicurazione mondana. Diversamente da ogni ideologia, che lascia l'uomo prigioniero di sé, la fede è un continuo convertirsi all'Altro, un continuo consegnare il cuore a Dio nella preghiera, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di sperare e di amare in compagnia del Figlio abbandonato alla morte per noi, per risorgere alla vita con noi. Precisamente questa notturna esperienza di Dio, che la fede fa nella sequela di Cristo, questa "cognitio vespertina", che anela all'Ottavo Giorno, alla "cognitio matutina" intravista nella speranza da chi è ancora "in via et non in patria", è la preghiera.
    Perciò nessuna negligenza è ammissibile per la fede, nessuna fede indolente, statica e abitudinaria. La fede dovrà essere sempre interrogante e viva, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare di nuovo a consegnarsi all'Altro, per vivere l'esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Qualunque prezzo, anche il più costoso, val la pena di essere pagato per accendere sempre di nuovo in noi il desiderio della patria e tendere ad essa fino alla fine, oltre la fine, obbedendo al Mistero santo che attira, vivendo la trascendenza verso il Silenzio di Dio in obbedienza alla Sua Parola. Quest'anima pellegrina della fede, suscitata e nutrita dalla Parola, è resa stupendamente dal grido del salmo: "Svégliati, mio cuore, svégliati arpa, cetra, voglio svegliare l'aurora" (Sal 57,9). Sveglia l'aurora chi aspetta con impazienza nella notte l'avvento del giorno, chi conosce il desiderio del cuore assetato di luce, proteso verso il momento in cui passi l'oscurità e spunti la stella del mattino.
    In questa condizione di lotta nella veglia, ritorna la domanda: "Sentinella, quanto resta della notte?" (Is 21,11). Come il "servus lampadarius", che portava la fiaccola per illuminare la via nella notte, così la Parola ci aiuta a comprendere i volti della notte per discernere quanto manca all'aurora e la via da percorrere per andare incontro alla luce del mattino: "Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino" (Sal 119,105). Credere è stare in ascolto della Parola, ruminandola fino ad aprirsi agli abissi del Silenzio che in essa risuona e cui essa schiude perché si apra la strada nella notte. La notte è il tempo della prova: lotta, agonia. In questa lotta avanza il testimone della fede, l'orante fedele: nella notte Giacobbe lotta con Dio: "Durante quella notte Giacobbe si alzò... e passò il guado dello Jabbok... Rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora" (Gen 32,23. 25). Al sorgere del giorno terminerà la prova: è la notte il tempo della lotta, e la lotta è il cuore della fede: "Lasciami andare - dirà l'assalitore notturno - perché è spuntata l'aurora" (Gen 32,27).
    È di questa fede notturna, assetata di aurora e in ricerca di luce, anima di ogni vera teologia, che sono testimonianza le parole di uno dei maggiori teologi del XX secolo, Karl Rahner, con cui vorrei concludere. Le scelgo, perché esse ben rendono la dialettica di assenza e presenza in cui il rapporto fra la Parola di Dio e le parole degli uomini meno inadeguatamente si esprime: «Allora Tu sarai l'ultima parola, l'unica che rimane e non si dimentica mai. Allora, quando nella morte tutto tacerà e io avrò finito di imparare e di soffrire, comincerà il grande silenzio, entro il quale risuonerai Tu solo, Verbo di eternità in eternità. Allora saranno ammutolite tutte le parole umane; essere e sapere, conoscere e sperimentare saranno divenuti la stessa cosa. Conoscerò come sono conosciuto, intuirò quanto Tu mi avrai già detto da sempre: Te stesso. Nessuna parola umana e nessun concetto starà tra me e Te. Tu stesso sarai l'unica parola di giubilo dell'amore e della vita, che ricolma tutti gli spazi dell'anima» [13].


    NOTE

    1 E. Jabés, Il libro delle interrogazioni, Marietti, Genova 19953, 103.
    2 "Vedere nella morte il sogno, nel tramonto / un triste oro, questa è la poesia / che è immortale e povera. La poesia / gira come l'aurora e il tramonto": Arte poética: El Hacedor.
    3 E. Jabès, Il libro delle interrogazioni, o.c., 61.
    4 I racconti dei Chassidim, a cura di M. Buber, Garzanti, Milano 1979, 647.
    5 R. Barsacchi (1924-1996), Le notti di Nicodemo, con introduzione di F. Lanza, Ed. Thule, Palermo 1991.
    6 Cf. le tesi di A. Neher, L'exil de la parole. Du silence biblique au silence d'Auschwitz, Paris 1970 (tr. it.: L'esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato 1983).
    7 Ib (tr.it.), 146.
    8 Ib., 178.
    9 E. Lévinas, Difficile liberté, Paris 1963, 193.
    10 Per un inquadramento organico delle riflessioni qui proposte ed un maggiore approfondimento rinvio al volume settimo della Simbolica Ecclesiale: Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento, San Paolo, Milano 19912, specie la Parte Prima, 36ss. Cf pure B. Forte, In ascolto dell'Altro. Filosofia e rivelazione, Morcelliana, Brescia 1995.
    11 Da "offen", aperto, e "bären", che nel tedesco medievale esprime il "portare in grembo", l'"esser gravido".
    12 S. Giovanni della Croce, Sentenze. Spunti d'amore, n. 21, in Opere, O. C. D., Roma 19672, 1095.
    13 K. Rahner, Tu sei il silenzio, Queriniana, Brescia 19886, 34s.:

    (Prolusione ai Corsi di Teologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 15 Marzo 2017)


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