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    La sicurezza,

    che non ci deluderà mai

    Bruno Forte


    L’identità più profonda dell’essere umano, il suo “nome” incancellabile, è la domanda: “Il mio nome è una domanda e la mia libertà è nella mia propensione alle domande”. Queste parole, tratte da Il libro delle interrogazioni di Edmond Jabès [1], evidenziano come la vita degli uomini sia tutta una lotta contro la morte, la cui arma è l’interrogazione: l’audacia del domandare è la sola forza che spinga oltre la soglia e sia capace di farci rinascere dalla nostra morte, grazie al misterioso legame con l’origine materna di tutto ciò che esiste. “Mi hai donato il giorno perché non potevi donarmi se non ciò che sei. / Madre, mi hai donato i giorni della mia morte. / Da allora, vivo e muoio in te / che sei amore. / Da allora, rinasco dalla nostra morte” [2]. Precisamente in questa originaria propensione alla domanda l’essere umano percepisce se stesso nella tensione fra sicurezza e insicurezza. Dove la domanda è posta con docile ascolto e radicale interesse, si lascia riconoscere la profonda nostalgia di una figura paterna – materna che tutto accolga e custodisca nell’amore. Dove il pensiero vuol farsi signore esclusivo e la domanda diventa espressione di dominio ed esercizio di violenza, lì incombe il naufragio di un’esistenza disancorata, di un mondo senza origine né patria. Negli scenari del tempo, come in quelli del cuore, la figura del padre-madre nell’amore diventa un riferimento decisivo, una pietra di paragone su cui è possibile valutare il senso, la riuscita o il fallimento dell’avventura umana. Riferirsi a questa figura come chiave di lettura della modernità e della sua crisi aiuta pertanto a rispondere alle domande decisive: dove siamo? chi siamo?, e a riconoscere la sola sicurezza, che non ci deluderà mai.

    1. GLI SCENARI DEL TEMPO: IL SOGNO DELLA MODERNITÀ E L’“ASSASSINIO DEL PADRE” [3]

    La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni - comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza. L’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Il sogno di un’emancipazione totale spinge l’uomo moderno a volere una realtà completamente illuminata dal concetto, in cui si esprima senza residui la potenza della ragione.
    Scrive piuttosto enfaticamente Hegel: “Da quando c’è stato il sole nel firmamento e i pianeti gli hanno girato intorno, mai si era visto che l’uomo si mettesse dritto sulla testa, ossia sul pensiero, e costruisse la realtà secondo quest’ultimo... Soltanto ora l’uomo è giunto a capire che il pensiero deve reggere l’intera realtà dello spirito. E questa è un’alba preziosa” [4]. Dove la ragione trionfa si alza il sole dell’avvenire: in tal senso si può dire che il tempo della modernità è il tempo della luce.
    L’ebbrezza dello spirito moderno sta precisamente in questa presunzione della ragione assoluta di poter vincere ogni oscurità e assorbire ogni differenza...
    L’espressione compiuta di questa ebbrezza è l’“ideologia”: la modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie. Esse tendono a imporre la luce della ragione alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche puntano ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Il sole della ragione produce libertà e uguaglianza, e proprio così anche fraternità, egualitarismo fondato sull’unicità della luce del pensiero, che governa il mondo e la vita: “liberté, égalité, fraternité” sono il frutto radioso del trionfo della ragione. La critica alla figura del “padre - padrone” sfocia così nella pretesa della radicale negazione di Dio: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. Non ci sono “partners” divini, non c’è un altro mondo, c’è solo questa storia, quest’orizzonte: l’unica idea del divino che può restare dinanzi al tribunale della ragione adulta sembra quella di un Dio morto, insensato, inutile (“Deus mortuus, Deus otiosus”). L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione che l’uomo dovrà gestirsi la vita da solo, costruendo il proprio destino soltanto con le proprie mani: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade.
    Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto anche effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà è piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto - così com’è compreso dalla ragione - produce totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna. “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura” è [5]. Il pensiero senza ombre si risolve in tragedia: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura. L’assassinio collettivo del padre non ha impedito, insomma, la prolificazione di “padri - padroni” sotto mentite spoglie...
    Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del secolo XX, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. È questo il frutto della ragione adulta? Dove sono i cieli nuovi e le terre nuove che le grandi narrazioni ideologiche avevano promesso? In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta: la crisi del senso diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila così l’estremo volto del secolo che volge alla fine: il volto del nichilismo. Esso priva l’uomo del gusto di impegnarsi per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. È il trionfo della maschera a scapito della verità: perfino i valori sono spesso ridotti a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”).
    Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo interesse particolare secondo una logica esclusivamente egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, ma è anche questo il motivo profondo dell’emergere e dell’affermarsi delle logiche settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche, che si sono diffuse con inquietante virulenza nell’Europa di fine millennio. Quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare e la società diventa arcipelago. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.
    È il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza, è “la nostalgia del Totalmente Altro”, di cui parla Max Horkheimer [6]. L’attesa si lascia riconoscere nelle inquietudini del presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d’“une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste a una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Sembra affacciarsi una sorta di riscoperta del sacro rispetto a ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che potrebbe definirsi genericamente religioso: bisogno di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. L’Altro – come possibile fondamento delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore e proprio così offra a tutti sicurezza...

    2. GLI SCENARI DEL CUORE: “GETTATI VERSO LA MORTE” O APERTI VERSO IL MISTERO

    La domanda che abita al centro del nostro cuore, quella che ci fa inquieti e pensosi, è la domanda dell’infinito dolore del mondo, l’interrogativo ineludibile della morte e della fine di tutto.
    Se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero, tutto sarebbe una piatta eternità, almeno per la nostra limitata capacità di pensare: in questo senso, vivere è anche imparare a morire, educarsi a convivere con la sfida silenziosa, resistente e perseverante della morte. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione epicurea di dire: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è”. Queste parole sono inganno e apparenza, perché la morte non è solo l’ultimo destino o l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere. “La morte - scrive Martin Heidegger - sovrasta l’Esserci. La morte non è affatto un mancare ultimo... ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta” [7]. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto sono tutti allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio: Noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto; forse il nostro cammino a non tócche radure ci addurrà dove mormori eterna l’acqua di giovinezza; o sarà forse un discendere fino al vallo estremo, nel buio, perso il ricordo del mattino [8].
    È sulla vertigine del nulla che si affaccia la situa zione emotiva dell’an goscia: sospeso sui silenzi della morte, l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino. La ripulsa del nulla suscita - come per contraccolpo - la potenza del domandare: l’uomo diventa domanda a se stesso, interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sentieri di ciò che potrà essere o non sarà mai. Fedele compagna della vita si affaccia la domanda - evasa o accettata, nascosta o cercata - che la morte imprime come ferita nel più profondo del cuore umano. È così che il pensiero nasce dalla morte, la coscienza dalla passione di chi non s’arrende al finale trionfo del nulla: “Dalla morte, dal timore della morte - scrive Franz Rosenzweig - prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto” [9]. La lotta contro la morte si profila nelle domande che nascono nel cuore come ferite lancinanti, spesso improvvise o inattese: che ne sarà di me? che senso ha la mia vita? dove vado con il bagaglio delle mie pene, delle consolazioni e delle gioie? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte.
    Nel profondo del cuore si affaccia un’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le lacrime, che redima l’infinito dolore del tempo. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: “Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” - “Ci hai fatto per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te” [10].
    Nella domanda che ognuno si porta nel più profondo del cuore va dunque profilandosi l’immagine del padre-madre nell’amore, metafora per dire il bisogno di qualcuno cui affidarsi senza riserve, quasi un’àncora, un approdo dove far riposare la nostra stanchezza e il nostro dolore, sicuri di non essere rigettati nell’abisso del nulla. Questo bisogno dell’altro, che sia madre padre accogliente, quest’attesa profonda, ciascuno può riconoscerla in sé, se solo ha il coraggio di non mascherarsi dietro le proprie presunte grandezze o difese. In quanto tale, la figura del padre-madre nell’amore è il grembo, la patria, l’origine in cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema della morte e se questo ci rende pensosi, allora l’immagine paterna-materna dell’amore accogliente è quella che più risponde a ciò di cui tutti abbiamo infinitamente bisogno.
    Non possiamo allora non chiederci: perché, se questo è vero, sorge in tanti un rifiuto perfino viscerale della figura del padre? perché prima o poi nella vita tutti viviamo un momento di contestazione dell’immagine paterna-materna? Questa palese contraddizione tra il bisogno di un’accoglienza che vinca l’angoscia e il rifiuto di essa, può essere rischiarata dall’analisi del cuore umano, quale si esprime ad esempio in questo testo, tratto dalla lettera al padre di Franz Kafka, uno dei grandi testimoni dell’inquietudine del nostro tempo: “La sensazione di nullità che spesso mi domina, ha origine in gran parte dalla tua influenza... Io potevo gustare quanto tu ci davi solo a prezzo di vergogna, fatica, debolezza, senso di colpa, insomma potevo esserti riconoscente come lo è un mendicante, non con i fatti. Il primo risultato visibile di questa educazione fu quello di farmi fuggire tutto quanto, sia pure alla lontana, mi ricordasse di te” [11]. Quante volte il rifiuto del padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza! Quante volte la paternità diventa possessività, schiavitù, dominio! Ecco allora che si profila la condizione drammatica, espressa dalla metafora dell’“assassinio del padre”.
    L’“assassinio del padre” è una sorta di gesto rituale, un atto volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia. Esso è inseparabile dal senso dell’angoscia: se una delle cause profonde dell’angoscia è l’affacciarsi incombente della morte, eliminare la figura del padre madre che ci accolga vuol dire esporsi ancor più radicalmente all’abbraccio del nulla. È come sperimentare un’infinita orfananza, accendendo di conseguenza ancor più acutamente la nostalgia del padre e della madre accoglienti nell’amore. Ne nasce un comportamento paradossale: da una parte fuggiamo dalla figura paterna-materna per essere liberi e indipendenti come il figliuol prodigo, che sceglie di avere le sue sostanze e gestirsi da solo la vita; dall’altra cresce in noi lo struggente bisogno di qualcuno che ci riveli il volto di un padre madre nell’amore che non ci faccia sentire schiavi. Veramente abissale è il cuore dell’uomo e lacerante il peso delle sue contraddizioni! Un padre madre che ci ami rendendoci liberi è qualcuno che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, la garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, ma sani anche la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente alla vita. Esprime questa attesa con struggente intensità l’invocazione di una delle coscienze più rappresentative del dramma del cosiddetto “secolo breve”: Edith Stein.
    Filosofa, allieva e collaboratrice di Husserl, figlia d’Israele, testimone e solidale con la più grande delle tragedie del suo popolo, innamorata di Cristo, formata alla “scienza della Croce”, questa donna singolare, che ha scrutato come pochi il cuore umano, scrive: “Chi sei, luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore? Tu mi guidi come la mano di una madre, ma se mi lasci non saprei fare neanche un passo solo. Tu sei lo spazio che circonda l’essere mio e lo protegge. Se mi abbandoni cado nell’abisso del nulla, da cui mi hai chiamato all’essere. Tu, più vicino a me di me stessa, a me più intimo dell’anima mia - eppure sei intangibile e di ogni nome infrangi le catene: Spirito Santo - Eterno Amore” [12].
    La scelta che queste parole delineano è quella urgente e decisiva fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto, lasciandoci guidare dalla mano paterna - materna dell’Altro, o il chiuderci nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. La vita o è pellegrinaggio o è anticipazione della morte. O è passione, ricerca e quindi inquietudine, o è lasciarsi morire ogni giorno un po’, fuggendo in tutte le evasioni possibili di cui è malata la nostra società, utili per stordirsi e non porsi le domande vere. Occorre prendere una decisione: “Mi alzerò e andrò da mio padre!”. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione. È questa la scelta di cui hanno particolare bisogno le donne e gli uomini di quest’epoca post moderna. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Afferma Lutero: “Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme oggi”. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre madre nell’amore, senso della vita e speranza del mondo...

    3. L’AMORE AFFIDABILE: IL DIO, CHE È AMORE [13]

    Per la fede cristiana è il grido dell’ora nona - rischiarato dall’annuncio gioioso di Pasqua - a trafiggere la chiusura totalizzante di un mondo senza Dio, lasciando irrompere nel tempo penultimo l’imminenza sovrana dell’Ultimo. Cristo crocefisso e risorto è il luogo in cui l’Altro è venuto a dirsi - e a tacersi - per noi: perciò l’incontro con Lui libera e cambia il cuore e la vita. L’orizzonte che la fede cristiana dischiude per rendere ragione della sua speranza si fonda sul triplice esodo che caratterizza la vita del Verbo nella carne: l’esodo dal Padre (“exitus a Deo”); l’esodo da sé (“exitus a se”); e l’esodo verso il Padre (“reditus ad Deum”). È questo triplice esodo che viene a spezzare il cerchio chiuso della ragione ideologica o del pessimismo nichilista, e in generale la prigione di un mondo senza Dio: ed è alla luce di questo esodo che si coglie in tutta la sua profondità la rivelazione che Gesù fa del Padre e dello Spirito Consolatore, e quindi la buona novella del Dio Trinità, storia eterna dell’amore. “Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui” (1 Gv 4,8s).
    Il Padre, che invia il Figlio, è amore in se stesso e verso il mondo: a partire dal suo operare per l’uomo nella creazione e nella redenzione, quale lo presenta la pienezza della rivelazione in Cristo, Dio Padre può essere contemplato in tutta la profondità del suo essere come Colui che ama nella libertà, che da sempre ha cominciato ad amare e per sempre amerà, come il Dio per noi che invia il Figlio, il Dio con noi. “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,8-10).
    Nell’amore egli tutto ordina al bene: è il mistero della sua provvidenza! Proprio perché il suo infinito potere è tale nell’amore, e l’amore è tale nella libertà, il Padre non esercita mai il suo potere contro la libertà della creatura: piuttosto, egli accetta di apparire impotente o sordo ai gemiti dei morenti! Colui che vuole che “tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4), non salverà nessuno contro la sua volontà. È qui che si rischiara in qualche misura la sua altrimenti intollerabile tolleranza del male: “Si Deus iustus, unde malum?” - “Se c’è un Dio giusto, perché il male?”. Precisamente perché il Padre di Gesù è un Dio giusto, che ama nella libertà, egli ha accettato il rischio dell’amore, la possibilità del rifiuto, con tutte le conseguenze che ne derivano sull’intero creato. Il male del mondo è il segno paradossale che l’onnipotenza divina è amore nella libertà, capacità di infinito rispetto e di attiva compassione, fino al punto da apparire perfino come debolezza.
    In quanto è la sorgente e la meta eterna di ogni vita, Dio è al di là dello spazio: non perché sia spazialmente al di là, ma perché abbraccia in sé ogni cosa, infinitamente sovrastando su tutto ed immanendo a tutto. È questo il mistero dell’onnipresenza divina, intesa come onnipresenza dell’amore: Dio, il Padre, è l’immenso nell’amore! Questa onnipresenza è ordinata alla suprema presenza divina nella storia, che è la presenza personale del Figlio incarnato: nell’Amato, fatto uomo per noi, è posta in radice la recettività dell’amore da parte di ogni creatura, che la rende aperta all’onnipresenza divina amante. Proprio così Colui che è superiore a ogni nostra altezza può farsi più intimo a noi di noi stessi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23)! Dio come Padre è anche al di là del tempo: non perché egli sia temporalmente fuori del tempo, ma perché abbraccia in sé ogni divenire, come eterna identità del principio e della fine di tutte le cose. È il mistero dell’eternità divina, perenne presenza della vita sorgente di ogni vita, o, in categorie bibliche, fedeltà del suo amore a ogni oggi dell’amore. In questo senso va compresa anche l’immutabilità divina: essa non è l’indifferenza di un Dio ozioso, né la stasi di un Dio morto, ma il dinamismo del Dio vivente, sempre uguale a se stesso e sempre nuovo nell’amore, e dunque la fedeltà assoluta di Lui alle sue promesse. Dio non cambia, perché ama da sempre, oggi e per sempre: Dio è immutabile nella fedeltà del suo amore! Proprio così, in questa stessa libera fedeltà, egli è sempre nuovo nell’amore! Di fronte a questa ampiezza, altezza e profondità dell’amore di Dio Padre la risposta del credente non può che essere quella di celebrare la gloria di un così grande amore: è questo il senso della confessione dell’unità e unicità di Dio nella tradizione ebraico-cristiana. Questa confessione è un atto di adorazione ed insieme un compito, una dossologia e un impegno di vita: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze” (Dt 6,4). Confessa il Dio uno chi entra nel mistero della sua unità e si impegna a far sì che tutti gli uomini vi entrino nella giustizia e nella pace. Ma questo diventa concretamente possibile per la fede cristiana a partire dal momento in cui è la stessa unità divina ad aprirsi a noi, offrendosi come unità dell’Amore, Amore amante, Amore amato, Amore che unifica Dio e il mondo nella libertà. È qui che la confessione di fede nel Padre esige di essere pienamente esplicitata nel senso della confessione trinitaria, confessione del Dio uno come Amore, che include la distinzione e si apre nell’alterità, per assumerla nella circolazione dell’amore eterno. Confessa allora l’unità di Dio chi entra nell’unità di Dio: ma entra nell’unità divina chi si lascia coinvolgere dalla storia eterna dell’amore.
    Se nel Padre risiede la sorgente dell’amore, nel Figlio si lascia riconoscere la recettività dell’amore. Il Figlio è accoglienza pura, eterna obbedienza d’amore, gratitudine infinita: egli è l’“amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24), in cui scorre nel tempo e nell’eternità la vita divina, sorgente dalla pienezza del Padre: “Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5,26). L’eterno Amante si distingue dall’eterno Amato, che da Lui procede per la traboccante pienezza del suo amore: il Figlio è l’Altro nell’amore, Colui sul quale riposa il movimento della generosità infinita dell’Amore fontale. L’Amante è principio dell’Amato: l’Amore sorgivo è fonte dell’Amore accogliente, nell’insondabile unità dell’Amore eterno. In rapporto a Colui che è principio e fonte, Amore eternamente amante, il Figlio è il generato, l’eternamente amato: egli è la Parola del Padre. Il Padre non è un despota che annienti il Figlio, ma è Padre nell’amore! Il Figlio non è una pura inconsistenza, una vuota forma per il gioco dell’Assoluto divino con se stesso, ma è l’Amato, il Figlio eterno, il Prediletto, l’Unigenito. La recettività dell’amore ha in Dio una consistenza infinita: accettare l’amore non è meno personalizzante che dare l’amore; lasciarsi amare è amore, non meno che amare... Anche il ricevere è divino! L’infinita recettività del Figlio, “per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato 7 creato” (Col 1,16) e che si è fatto solidale con i peccatori fino all’esilio della maledizione e della morte, consente l’accoglienza da parte della creatura del puro dono dell’essere (creazione del mondo) e dell’esistere nell’amore, che è la vita nuova nella grazia: nel Verbo tutto è stato creato e tutto viene redento; in Lui è offerta la grazia del Padre! In questa storia eterna trova posto anche lo Spirito, Colui che unisce il Generato al Generante, manifestando come l’incancellabile distinzione dell’amore non sia separazione: egli è la comunione dell’Amante e dell’Amato, che garantisce anche la comunione dell’eterno Amante con le sue creature e con le loro storie di sofferenza, non a prescindere dall’Amato, ma proprio in Lui e mediante Lui. Lo Spirito garantisce che l’unità è più forte della distinzione e la gioia eterna è più forte del dolore, provocato dal non amore delle creature. Effuso sul Crocifisso nel giorno di Pasqua, egli riconcilia il Padre con l’Abbandonato del Venerdì Santo e in Lui con la passione del mondo. È Spirito di unità, di consolazione, di pace e di gioia. La distinzione del Padre e del Figlio è assunta nell’unità più alta dell’amore che procede dal Padre e, riposandosi e riflettendosi nel Figlio, ritorna alla sua origine senza origine: lo Spirito è il vincolo dell’amore eterno. Perciò il Padre resta il principio, il Figlio l’espressione, lo Spirito il loro legame personale nel movimento dell’eternità divina. Si coglie qui l’altro ruolo dello Spirito nel rapporto fra il Padre e il Figlio: egli è il “condilectus” (Riccardo di S. Vittore), l’amato dell’uno e dell’altro, l’amico, distinto dal Padre perché amico del Figlio e distinto dal Figlio perché amico del Padre. Lo Spirito dice l’apertura dell’amore trinitario, la pura oblatività di esso: è per questo che nella rivelazione Dio esce da sé sempre nello Spirito, tanto nell’opera della creazione quanto in quella della redenzione. In questo senso lo Spirito compie la verità dell’amore divino, mostrando come l’amore - se è - non è mai chiusura o possessività, ma apertura, dono, uscita dal cerchio dei due: egli è l’estasi di Dio verso il suo ‘altro’.
    Muovendo dalla rivelazione dell’Amore amante, amato e unificante nella libertà, che è la storia di Pasqua, l’unità divina può essere intesa come l’amore essenziale, che soggiace all’incancellabile differenziazione trinitaria dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore personale. È la via intravista da Agostino: “In verità vedi la Trinità, se vedi l’amore” [14]. “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” è15]. “E non più di tre: uno che ama colui che viene da lui, uno che ama colui da cui viene, e l’amore stesso... E se questo non è niente, in che modo Dio è amore? E se questo non è sostanza, in che modo Dio è sostanza?” [16]. L’essenza del Dio vivo è dunque il suo amore in eterno movimento di uscita da sé, come Amore amante; di accoglienza di sé, come Amore amato; di ritorno a sé e d’infinita apertura all’altro nella libertà, come Spirito dell’amore trinitario. L’essenza del Dio cristiano è l’amore nel suo processo eterno, è la Trinità come storia eterna di amore, che suscita, assume e pervade la storia del mondo, oggetto del suo puro amore. L’evento pasquale non rivela altrimenti l’essenza divina che come evento eterno dell’amore fra i Tre e del loro amore per noi. L’unità di Dio è dunque l’unità del suo essere amore, del suo amore essenziale, che esiste eternamente come Amore amante, Amore amato e Amore personale, come provenienza, venuta e avvenire eterni dell’amore, origine, accoglienza e dono di esso, paternità, filiazione e apertura nella libertà, Padre, Figlio e Spirito Santo.
    Si comprende come questa visione dell’amore trinitario possa risuonare quale buona novella nel tempo della crisi delle ideologie e della solitudine del nichilismo. Nel totalitarismo ideologico non c’è spazio per la differenza: e quest’assenza produce inesorabilmente violenza, alienazione e morte. Lo stesso, tuttavia, avviene nel nichilismo post-moderno, che non tollera l’alterità, tanto da tendere a distruggerla o a ricondurla a pura apparenza del medesimo in un generale trionfo della solitudine. Contro la massificazione ideologica, il vangelo della Trinità richiama l’infinita dignità di ogni singola persona, in Dio come nella sua immagine umana. Contro il nichilismo, esso proclama la possibilità reale dell’incontro con l’altro e la vittoria della solitudine, grazie al dialogo e alla comunione resi possibili da quell’amore, che costituisce l’unità essenziale del Dio vivente. In entrambi i casi, è la buona novella della comunione trinitaria a risuonare come risposta vera alle esigenze più profonde emergenti dalla crisi del nostro presente: si diventa capaci di amare quando ci si scopre amati per primi, avvolti e condotti dalla forza di un amore, che non annulla le differenze, valorizzandole anzi nell’unità. Avvolto dall’amore eterno, accolto nella storia trinitaria dell’amore, l’uomo può costruire storie d’amore nella verità della sua vita. Qui è la sorgente e il fondamento dell’unica sicurezza che non ci deluderà mai. Alla sua luce è possibile cercare il senso della vita e della storia: quel senso che è l’amore, non fragile e banale, ma sicuro e affidabile, ora e per sempre.

    NOTE

    1 E. Jabés, Il libro delle interrogazioni, Marietti, Genova 19953, 103.
    2 Ib., 61.
    3 Cf. su quanto segue le riflessioni che ho presentato in La teologia come compagnia, memoria e profezia, Edizioni San Paolo, Milano 20113, e L’essenza del cristianesimo, Mondadori, Milano 2002 (nuova edizione: Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2009).
    4 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, IV, La Nuova Italia, Firenze 1960, 204.
    5 M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 11: “The fully enlightened earth radiates disaster triumphant”: Dialectic of Enlightenment (1944), New York 1969, 3.
    6 M. Horkheimer, La nostalgia del Totalmente Altro, Queriniana, Brescia 2001 (originale tedesco 1970).
    7 M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, U.T.E.T., Torino 19862, 377s (§ 50).
    8 E. Montale, Ossi di seppia, Mediterraneo, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, 58.
    9 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, 3.
    10 Confessiones, I, 1.
    11 F. Kafka, Lettera al Padre (novembre 1919), Feltrinelli, Milano 200111, 14 e 32s.
    12 E. Stein, La mistica della croce, Antologia a cura di W. Herbstrith, Città Nuova, Roma 1991, 73s.
    13 Cf. su quanto segue le riflessioni che ho presentato in Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia. Saggio di una cristologia come storia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1981. 2007; Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1985. 2010; Piccola introduzione alla fede, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1992. 2007.
    14 De Trinitate, 8, 8, 12: PL 42,959.
    15 Ib., 8, 10, 14: PL 42,960.
    16 Ib., 6, 5, 7: PL 42,928.

    (Salisburgo, 3 Agosto 2011)


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