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    La purezza del diavolo

    Intervista a Fabrice Hadjadj

    Rodolfo Casadei

     

    Conosce alla perfezione le verità della dottrina cristiana e non ne dubita. È perfettamente casto e non ha mai commesso un peccato di lussuria in vita sua. Dona gratuitamente del suo senza esigere contropartite materiali. Eppure è il nemico assoluto di Dio e dell’uomo, menzognero, omicida e tessitore di inganni. È il diavolo, l’angelo ribelle. Questo ritratto geniale e sconcertante di Satana si trova nelle pagine di La fede dei demoni, l’ultimo libro di Fabrice Hadjadj tradotto in italiano (da Marietti).

    Lo scrittore francese parte di qui per sviluppare una tesi suggestiva: l’ateismo e i peccati della carne, frutto dell’ignoranza e della debolezza umana, non sono i mali peggiori. Molto più gravi per le loro conseguenze sono gli spiritualissimi peccati propri del diavolo, soprattutto quando vengono compiuti dai cristiani: superbia, invidia, odio e disprezzo, vizi dello spirito, sono la base delle più grandi sciagure e di permanenti divisioni fra gli uomini. Per questo il diavolo li ispira continuamente. [...]
    Difficile dare torto ad Hadjadj. Il quale indica anche la strategia per respingere l’assalto diabolico: affidarsi all’incarnazione, cioè alla carne di Cristo e alla carne di Maria, prefigurata nel Genesi come la donna che senza sforzo o paura schiaccia il serpente demoniaco sotto il proprio tallone. Contro ogni superbia, imparare da Maria l’apertura alla Grazia. Perché Maria è accoglienza della Parola di Dio che si fa carne, mentre il diavolo è il contrario dell’accoglienza. È orgoglioso, trae tutto da sé e non vuole ricevere.

    Fabrice Hadjadj, il diavolo non è ateo, e perciò, lei dice, l’antitesi fondamentale non è quella fra teismo e ateismo, ma quella fra conoscenza e riconoscimento di Dio. Cosa vuol dire?

    Anzitutto va notato che il primo riconoscimento di Gesù Cristo come figlio di Dio nel Vangelo non è quello di san Pietro o degli altri apostoli, ma dell’indemoniato di Cafarnao. Nella sinagoga di quella città un indemoniato incontra Gesù e il diavolo che possiede quell’uomo dice: «Io so chi sei tu, il Santo di Dio». Notare questo ci obbliga a rimetterci in discussione, perché forse non abbiamo le idee chiare sull’identità del nemico radicale e della natura della vera lotta: che non è quella contro l’ateo o il libertino, ma contro un’intelligentissima creatura spirituale.
    Un puro spirito, ovvero uno spirito impuro che è puro spirito. Pertanto non sarà appellandosi alla mera spiritualità che lo si potrà affrontare: quella è una specialità del demonio, che ha per progetto di ridurre il cristianesimo a uno spiritualismo. Lo scopo del mio libro non è soltanto di ricordare che la fede non è mera conoscenza, ma è riconoscimento che anima il cuore; è anche ricordare che la fede non è evasione in un mondo etereo, ma incarnazione.
    Dio ha voluto donarci la sua Grazia attraverso la carne, ed è nella carne e attraverso la carne che noi lo raggiungiamo. I grandi teologi ce l’hanno spiegato: il primo peccato del diavolo è stata l’invidia, scaturita dal fatto di sapere che il Verbo si sarebbe incarnato. Satana è inorridito all’idea che Colui che era spirito, e dunque aveva una connivenza speciale con gli angeli come lui, potesse farsi carne, e che gli angeli, puri spiriti, avrebbero dovuto adorare la carne, una carne umana.

    Lei distingue fra la fede come dono di Grazia, che gli uomini sperimentano, e la fede come perspicacia dell’intelligenza naturale, che attribuisce ai demoni. In cosa sono differenti?

    Gli angeli, compresi quelli caduti, hanno un’intelligenza più sviluppata della nostra. A loro i segni dell’agire di Cristo e della Chiesa sono sufficienti per ammettere che c’è qualcosa che viene da Dio. Per quanto attiene alla fede come dono di Dio, la fede che opera attraverso la carità, questa passa attraverso motivi di credibilità, perché l’atto di fede non annulla la ragione, non è un salto nell’assurdo.
    Ma i motivi ragionevoli non sono sufficienti a costringere l’intelligenza umana alla fede. L’uomo entra in essa attraverso una sorta d’umiltà, di abbandono. Al cuore della fede come dono c’è un atto di amore: non c’è semplicemente l’intelligenza che riconosce un fatto oggettivo, come nel caso dei demoni, ma un’intelligenza che chiama in causa il cuore e implica un atto di volontà. La volontà pone un atto di adesione, di fiducia, in una sorta di penombra. La fiducia, come ogni atto di amore, non si colloca né in piena luce né nelle tenebre, ma in una penombra.
    Nel Credo noi non diciamo: «Credo che Dio è così e cosà, è onnipotente e creatore». Noi diciamo: «Credo in Dio». Ed è l’“in” del modo accusativo del latino: «Credo in unum Deum». Cioè c’è un movimento per andare verso. Invece i demoni dicono: «Credo Deum», credo Dio. Cioè c’è l’intelligenza ma manca il cuore. E siccome è una fede prodotto delle sole forze del soggetto, è automaticamente orgogliosa. Lo si è visto a Cafarnao: il diavolo dice «io so chi se Tu». La prima parola è “io”.

    Oggi succede un fatto curioso: la maggioranza della gente non crede nel diavolo come realtà teologica, ma allo stesso tempo è sedotta e intimorita dall’immagine della sua potenza. Film e telefilm propongono in continuazione il tema delle forze malefiche soprannaturali, e tanti si rivolgono a maghi e guaritori convinti di essere vittime di spiriti malvagi. Perché questa contraddizione?

    Perché quando si abbandona il giusto rapporto con una realtà, immediatamente si manifestano due errori opposti. L’umanità è entrata nel razionalismo, ma il razionalismo non soddisfa il cuore umano. Di conseguenza si produce una reazione uguale e contraria: l’invasione dell’irrazionale. Il razionalismo ha detto: il Mistero è irrazionale, nessun rapporto con esso è possibile. La conseguenza è stata una reazione che instaura un rapporto ossessivo e anarchico con le forze delle tenebre. E che riconosce la potenza del diavolo, ma non la sua intelligenza: lo raffigura folcloristicamente come un caprone, lo associa ai sacrifici di animali.
    Ma il diavolo agisce più attraverso la sua intelligenza che attraverso la forza, la sua specialità è provocare due o più derive opposte, è orchestrare quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato “strutture di peccato”: peccati che non sono in rapporto con un’intenzione umana univoca, ma che si creano per l’opposizione di due o più parti. Pensiamo alla Spagna, dove la reazione alle stragi anticristiane è stato il fascismo e da lì tre anni di guerra civile.
    Pensiamo al trionfo del nulla in tivù: nessuno l’ha deciso a tavolino, eppure si ha l’impressione che qualcuno l’abbia orchestrato. Il fatto è che il diavolo distingue perfettamente l’errore dalla verità, e moltiplica coscientemente gli errori per giocarci. Noi invece, anche quando siamo nell’errore, crediamo di essere nella verità, e ci teniamo. Il diavolo non ci tiene, ed è per questo che è capace di manovrare e di creare strutture che ci spingono a commettere cose che vanno al di là delle nostre intenzioni coscienti.

    Lei semina il dubbio anche riguardo a parole feticcio sia del cristianesimo che della modernità come “dono” e “amore”. Lei dice che donare è cosa buona solo a condizione che il dono non nuoccia a chi lo riceve, e che il valore dell’amore dipende dal valore di ciò che si ama. Dunque anche il dono e l’amore possono essere astuzie diaboliche?

    A don Luigi Giussani veniva rimproverato di usare poco la parola “amore”, e lui rispondeva che nella nostra cultura era diventata una parola equivoca. Aveva ragione. Oggi viviamo in un’eresia dell’amore. Il primato dell’amore è un’invenzione cristiana, ma il diavolo distorce la cosa così: purché sia amore, tutto è legittimo. Se una donna si innamora di un boa constrictor e desidera sposarlo, fa bene, perché è amore. Nel nome dell’amore, si perde di vista l’oggettività dell’amore.
    Perché amare non è semplicemente avere dei sentimenti per l’altro, è anche volere il bene dell’altro. Quando amo io debbo chiedermi: “Qual è il bene per l’altro?”. Ciò che conta di più è questa oggettività.

    E per quanto riguarda il dono?

    Intorno al dono effettivamente si è installata tutta una retorica moderna, dovuta soprattutto alla realtà dell’economia capitalista, per cui il dono appare come un argine alla logica del mercato. Ora, non è il dono in quanto tale ad essere una cosa cattiva, ovviamente, ma la logica del “dono di sé”, perché al centro mette il “sé”. Il punto non è dare se stessi all’altro, il punto è il bene dell’altro.
    Non devo donare me stesso all’altro, devo ridonare l’altro a se stesso. E ciò implica il Bene. L’ha detto perfettamente Heidegger: «L’amore predispone uno spazio affinché l’altro possa donarsi all’altro, non solo a me che lo amo. E affinché possa essere se stesso, e non è se stesso se non nella sua relazione col bene».
    La seconda cosa che va sottolineata è che il dono non è mai principio in una creatura. Il proprio di una creatura è di ricevere prima di donare. La creatura non ha l’iniziativa del dono, ce l’ha il Creatore. Come si legge nella lettera di san Giovanni: «Dio ci ha amato per primo». Se si dimentica questo, il dono entra in una logica demoniaca.
    Il diavolo è uno che vuole dare senza dover ricevere. Accetta la natura con cui Dio l’ha creato, ma rifiuta la Grazia, perché vuole dare da se stesso, con le sue proprie forze. La sua è una posizione di ebrezza e di orgoglio: io non ricevo, io do da me stesso, senza bisogno della Grazia. Il peccato del diavolo e di quanti sono sotto la sua influenza è di voler fare il bene con le sole proprie forze e secondo i propri piani.
    Pensiamo ai totalitarismi: hanno cercato di dare all’umanità una società perfetta, ma a partire dai propri piani, senza considerare il carattere irriducibile dell’altro, la singolarità di ogni essere umano. Il totalitarismo consiste nel voler dare all’uomo tutto, ma a partire da una teoria, da un’ideologia, e dunque in maniera totalmente riduttiva e soffocante, come si è visto nella storia.

    Lei considera due errori opposti di ispirazione diabolica anche la riduzione del cristianesimo a cristianità, cioè a istituzione secolare, e l’opzione di una Chiesa dei pochi e dei puri, che rinuncia programmaticamente a influire politicamente. Cosa bisognerebbe fare per non cadere nella duplice trappola?

    Che i due errori siano diabolici si vede da una cosa: un cristianesimo politicamente realizzato cadrebbe nell’orgoglio di sé, così come il ripiegamento su di sé di una piccola Chiesa di gente pura che ha rinunciato al potere provocherebbe un settario orgoglio spirituale. E l’orgoglio, lo sappiamo, è un caratteristico peccato del diavolo.
    Nel primo caso, la riduzione del cristianesimo a istituzione secolare ci impedirebbe di donare veramente il nostro cuore, ridurrebbe il paradosso cristiano a slogan, trasformerebbe la vocazione a essere martiri in vocazione a essere signori. Nel secondo caso, l’accontentarci di una piccola Chiesa di puri farebbe di noi una setta che guarda la società dall’alto in basso con disprezzo, e che dimentica che Cristo non è venuto per i cristiani, ma per tutti gli uomini.


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