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    La «gloria»

    Gianfranco Ravasi

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    La trattazione del tema richiederebbe ben altro spazio; ci limitiamo a una sorta di indice. Si tratta di un tema capitale. Qual è il destino ultimo dell'uomo secondo le Scritture? In altri termini: che cosa sono la morte, la vita, il fine ultimo dell'esistenza? Nello sviluppare questo tema, si devono affrontare molte difficoltà.
    Non solo tutte le culture da sempre si sono poste questi interrogativi, ma anche l'uomo d'oggi - per quanto distratto, superficiale o banale - si trova ad affrontare di tanto in tanto, forse contro la propria volontà, il problema della morte. La morte non è semplicemente il morire. Ogni giorno in una città muore qualcuno, più di uno in una grossa città; magari ci si trova di fronte alla morte della persona amata, di una persona cara. Questa è l'unica esperienza di morte di cui sia possibile parlare, perché l'esperienza in senso pieno si ha una sola volta, ed è incomunicabile: non la si potrà mai raccontare a nessuno, come nessuno mai ha potuto raccontarla.
    Attorno a questo tema, già così complesso e lacerante, così importante, si è sviluppata – fin dalle origini dell'umanità – una battaglia di pensiero, uno scontro tra le diverse concezioni. Quando gli uomini primitivi cominciano a seppellire i loro morti nella terra in posizione fetale, fanno già capire che intendono mettere il loro defunto come in un grembo per farlo rinascere. Ma soprattutto attraverso la filosofia e la letteratura i popoli hanno tentato di confrontarsi con il tema della morte.
    Anche nella Scrittura questa riflessione è presente, come mostra il saggio di Marie-Émile Boismard, un grande esegeta domenicano, pubblicato alla fine del 2000: La nostra vittoria sulla morte: risurrezione? (Cittadella, Assisi). È un saggio molto accurato, sebbene molto essenziale; alla fine, conclude così: «La rivelazione biblica ci insegna con certezza il fatto della nostra vittoria sulla morte. Essa però – e questo è l'aspetto che forse più ci imbarazza –si trova divisa quando si tratta di precisare il come di questa vittoria».
    Infatti, facendo un bilancio, è possibile reperire almeno tre risposte che, se non mettono in discussione la certezza di questa vittoria, si differenziano tra loro nel descriverne il modo. L'uomo, per la Bibbia, non è destinato a spegnersi, esalando l'ultimo respiro, per ridursi in polvere e precipitare nel baratro del nulla e del silenzio. Tuttavia, il modo con cui affronta questa sua nuova vita è rappresentato con immagini diverse.
    Il primo modello si esprime con la categoria della «risurrezione». Si trova già anche nell'Antico Testamento, per esempio in Ezechiele 37; Daniele 12; Secondo libro dei Maccabei 7 e Secondo libro dei Maccabei 12. Si trova poi in Paolo formulato con chiarezza e con una certa robustezza di immagini, in Prima lettera ai Tessalonicesi 4 e Prima lettera ai Corinzi 15. La «risurrezione» come tale coinvolge l'uomo nella sua totalità, anche nella sua corporeità. Secondo molti passi dell'Antico Testamento, alla morte l'uomo tutto intero scende negli inferi, dove si riduce quasi a un'ombra inconsistente, quasi a una larva o uno spettro; egli rimane tuttavia in attesa del giorno in cui Dio risusciterà tutti i giusti, restituendo loro la pienezza fisica necessaria alla vita e la pienezza del soffio vitale. La risurrezione è vista come qualcosa di ulteriore, che avverrà in un secondo tempo.
    Il secondo modo di leggere il destino dell'umanità riprende l'idea dell'anima immortale. È rappresentato soprattutto dal libro della Sapienza, un testo permeato di cultura ellenistica, scritto ad Alessandria d'Egitto attorno al 30 a.C., ormai alle soglie dell'era cristiana. L'autore ispirato conosce il pensiero platonico, compreso il dualismo anima-corpo. Per Platone, l'uomo è considerato composto da due principi distinti, il corpo e l'anima; l'anima soltanto è immortale, ma non il corpo, votato alla dissoluzione. Solo l'anima, alla fine, vive, passa oltre la morte e sussiste per sempre in quanto immortale. In realtà, come si è già suggerito, dobbiamo dire che il libro della Sapienza presenta una concezione dell'immortalità molto diversa da quella platonica, dal momento che essa consiste nella comunione con Dio. Il libro si preoccupa, comunque, di mostrare che anche qualcosa della storia dell'uomo non viene dissipato. L'anima dell'uomo trascina con sé qualcosa che riguarda la sua storia terrena. Questa beatitudine, posta negli spazi infiniti di Dio, nell'eterno di Dio, è legata a una concezione immortalistica. Non coincide con la risurrezione della carne, ma consiste essenzialmente nell'immortalità dell'anima.
    Paolo ci presenta una terza prospettiva, un terzo modo di concepire questo destino ultimo. In alcuni suoi scritti, soprattutto nei capitoli 3 e 5 della Seconda lettera ai Corinzi, pagine di lettura non facile, Paolo presenta una sorta di compromesso tra il platonismo e l'immortalità dell'anima, da una parte, e la risurrezione dei corpi annunciata dal mondo biblico anticotestamentario, dall'altra.
    L'uomo è composto di un'anima e di un corpo. Alla morte l'anima si stacca dal suo corpo terreno, per andare presso il Cristo glorioso, dove ottiene la beatitudine. E la beatitudine è la stessa di quella che ha Cristo, vivente nella propria pienezza, di anima e di corpo, ma con un corpo che Paolo descrive come glorioso; anzi, l'espressione di Prima lettera ai Corinzi 15,44. – contraddittoria con la mentalità greca – è «corpo spirituale», un corpo interamente mosso dallo Spirito di Dio. In questa prospettiva, l'uomo diventa un essere luminoso simile, anzi identico, al Cristo glorioso, il quale è in sé risorto, ma non della semplice risurrezione immaginata nel primo schema, quando si rappresentava l'uomo, sebbene risanato, ancora nella sua fisicità e corporeità storica. Il Cristo glorioso e risorto non è più uguale a prima, anche se è ancora lui: questo è talmente vero che i discepoli non lo riconoscono. Non lo riconoscono perché il suo è un corpo glorioso. Si tratta di una situazione completamente diversa, che pur mantiene in sé ancora una dimensione misteriosa di corporeità, sottratta al tempo e allo spazio.
    I tre diversi modelli (la risurrezione, l'immortalità, la risurrezione gloriosa) parlano di una realtà che, non potendo essere detta in pienezza, si cerca di esprimere in tanti modi. A questo proposito, Marie-Èmile Boismard citava un altro studioso francese, un filosofo, Pierre Masset, in un suo articolo, dal titolo emblematico, «Immortalité de l'àme et résurrection des corps» («Immortalità dell'anima e risurrezione dei corpi»): «Possiamo concludere affermando che il come della nostra vittoria sulla morte non è oggetto di rivelazione, come lo è invece la certezza della nostra vittoria sulla morte, ma resta aperto». Ci troviamo allora di fronte a un problema che non compete più all'esegesi, ma alla filosofia o, se si preferisce, alla teologia, in quanto la teologia ha per fine di spiegare il dato rivelato in funzione del suo messaggio comprensibile. È quanto riconosce Pierre Masset quando scrive: «Il problema del come della nostra vittoria sulla morte è estremamente complesso. A nostro avviso esso è innanzitutto d'ordine filosofico».
    In realtà, esso è innanzitutto d'ordine teologico.
    Per questo, sarà importante riservare al tema uno spazio a sé stante, per non limitarsi a una semplice enunciazione. Numerose pagine della Bibbia mostrano una progressiva chiarezza della rivelazione, che vuole l'uomo destinato non a essere abbandonato al limite creaturale, al nulla dal quale sgorga attraverso l'atto creativo di Dio, ma a essere riacquistato, riconquistato in sé da Dio stesso; nel medesimo tempo, queste stesse pagine bibliche delineano le strade, le vie di questa riconquista. Ma sono strade e vie diverse; perciò, bisogna per certi versi ricomporle in un disegno unitario, nel quale si aprono brecce di luce, un disegno che, però, rimane incapace di esaurire quanto forse rimane un mistero invalicabile nella sua pienezza.

    (L'uomo della Bibbia, EDB 2014, pp. 87-92)


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