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    Il Dio di Abramo,

    di Isacco

    e di Giacobbe

    Il mistero nell'orlo del mantello

    Manfred Lütz

     

    1. Il mistero di una bella donna

    Il ritratto femminile più antico e più bello di tutti i tempi e di tutti i popoli si può ammirare al Museo Egizio di Berlino: Nefertiti. La grazia erotica di questa donna, che continua ad agire immutata dopo millenni, è collegata alla freschezza vitale del tutto spontanea del volto e forse anche alla leggera malinconia che le si è posata sugli occhi. Nefertiti, infatti, nasconde un segreto.
    Quando era in vita, ín Egitto regnava l'agitazione, un'agitazione smisurata. Si ergevano tranquille già da secoli le piramidi di Giza, mute testimoni del ricco passato religioso di un popolo che aveva raggiunto le massime prestazioni culturali fra tutti i popoli della terra. Scorreva tranquillo il Nilo, che determinava il corso della vita degli uomini nella terra dei faraoni attraverso il ritmo delle sue esondazioni. Avevano adempiuto tranquilli il loro ufficio, da tempi immemorabili, i sacerdoti nei templi delle infinite divinità, per predisporre gli dèi alla clemenza con sacrifici offerti secondo riti eterni. Ma all'improvviso era successo qualcosa di incredibile. Ciò che mise la gente in un'agitazione senza fiato fu una ribellione di dimensioni sconosciute. Non una ribellione contro il faraone. Cose del genere erano note nella terra sul Nilo. Durante l'avvicendarsi delle dinastie era sempre capitato che, di tanto in tanto, si verificassero disordini politici. La stabilità dell'Antico Regno, del quale testimoniavano ancora le piramidi di Giza e in cui i faraoni erano stati adorati come dèi, era comunque finita da tempo. Una ribellione contro il faraone sarebbe stata soltanto una tra le tante. La ribellione di cui si trattava nell'anno 1359 a.C., però, era senza pari. Era una ribellione contro gli dèi. E il capo di questa ribellione — idea inconcepibile — era il più potente di tutti gli uomini, il protettore del Regno, era il faraone stesso, e la bella Nefertiti ne era la sposa.
    Amenofi IV era salito al trono d'Egitto nel 1365 a.C. Suo padre, Amenofi III, e i suoi antenati, avevano consolidato con forza quel trono. In fin dei conti non esisteva più nulla che avrebbe potuto ancora desiderare un faraone, che, come si sarebbe detto millenni dopo, «viveva come un papa». La vita offriva tutti i piaceri possibili. Dí contraddire il faraone in maniera efficace, nessuno in terra aveva il potere. Proprio questa, però, sembra essere una situazione che può portare una persona a chiedersi quali siano le cose davvero importanti nella vita.
    Gli uomini di 3300 anni fa non erano inferiori nemmeno un po' rispetto a noi uomini d'oggi in quanto a intelligenza e capacità di porsi domande esistenziali. Come ín seguito ad altri pensatori sensibili — per esempio Buddha e Socrate —, anche ad Amenofi IV il multiforme pantheon dava piuttosto ai nervi. Questo variopinto pantheon egizio, secondo lo stile di una contabilità a partita doppia, per ogni procedimento in terra disponeva subito anche in cielo di una divinità competente. Ma questa collezione celeste di curiosità non dava al faraone una vera risposta alle domande che lo toccavano sul serio come individuo nel profondo del cuore, portandolo a interrogarsi pensieroso su quanto esistesse al di là di questa vita umana. In altre parole: il faraone Amenofi IV fece esattamente ciò che 3229 anni dopo, nel transetto di San Pietro a Roma, dichiararono possibile i settecento padri conciliari del Vaticano I: cercò Dio, equipaggiato solamente degli strumenti della ragione. E lo trovò davvero. L'unico Dio. Non ci si potrà mai immaginare questa situazione con sufficiente drammaticità. D'un tratto vennero spazzati via centinaia di dèi e per il faraone restò, come unica possibilità convincente, un unico Dio. Ma non soltanto un Dio immaginato. Il faraone non era un filosofo, era il figlio di un popolo appassionatamente religioso. Il Dio che trovò, quindi, non era un Dio astratto dei filosofi, era un Dio vero, un Dio a cui si potevano elevare delle preghiere. Lo chiamò Aton e lo adorò nel simbolo del sole. Quest'ultimo era particolarmente adatto perché rendeva facilmente comprensibile la particolarità di un unico Dio. Era il re incontestato degli astri, dal suo tepore veniva ogni vita, dal suo fuoco veniva ogni morte. Era unico, impareggiabile.
    Quando si converte una persona qualsiasi, ciò è per questa persona motivo di gioia, all'improvviso le diventano chiare molte cose che prima erano nell'oscurità. Ma una conversione spesso è anche dolorosa. Vuol dire allo stesso tempo congedarsi da abitudini di pensiero e di vita note da tempo, che ora non vanno più bene. Quando si converte un faraone, però, ciò non ha delle conseguenze soltanto su di lui personalmente. Ciò ha degli effetti dirompenti per tutto il regno. E così, tra la classe sacerdotale del regno, imperava una miscela esplosiva di orrore paralizzante, di attività frenetica e di rabbia incontenibile. Il faraone, tuttavia, era deciso a realizzare risolutamente la cosa, con la massima coerenza. Per prima cosa si diede un nuovo nome. Amenofi, in questo nome risuonava quello della divinità del regno Amon, e i sacerdoti di Amon erano ora i suoi più acerrimi nemici. Quindi prese il nome dal Dio di cui ora si professava fedele: Akhenaton, raggio di Aton.
    Ma fece di più. Si staccò anche geograficamente dall'influenza quotidiana dei sacerdoti reazionari di corte, costruendosi una residenza completamente nuova: la città di Akhet-Aton (Amarna). Qui si sviluppò addirittura uno stile artistico particolare, il cosiddetto stile di Amarna. Akhenaton fece rappresentare sé e la sua famiglia in maniera naturalistica e aderente alla realtà. Con tutte le bruttezze, ma anche con tutta la bellezza, come nel ritratto seducente della sua leggiadra sposa. Quando, ai nostri giorni, si è riportata alla luce Akhet-Aton, si è ritrovata un'imponente biblioteca di tavolette d'argilla, che ci consente un affascinante sguardo su quell'epoca.
    Ma Akhet-Aton non era destinata a vivere a lungo. Per le forze conservatrici nel regno d'Egitto le riforme di Akhenaton erano ovviamente una spina nel fianco. Non sappiamo esattamente fino a che punto gli abbiano reso la vita difficile già durante il periodo in cui era al potere. Dopo la sua morte, tuttavia, presero subito il potere ed estirparono in maniera radicale il ricordo del 'faraone eretico'. Rasero al suolo Akhet-Aton. Anche per il resto eliminarono, per quanto possibile, ogni memoria del ribelle sul trono dei faraoni. Presero sotto la propria ala il suo successore, il ragazzino indifeso Tutankhaton, dandogli un nuovo nome. Lo chiamarono ora Tutankhamon, dalla venerabile divinità del regno Amon. Anche questo faraone bambino era destinato a morire presto e fu inumato con uno sfarzo d'oro tanto inusuale che se ne è dedotta una coscienza sporca dei sacerdoti che lo seppellirono. Ancora oggi si discute vivacemente se non sia stato assassinato. In tal modo l'opera di Akhenaton era in apparenza del tutto fallita, la sua residenza era distrutta, la sua famiglia estinta.

     

    2. Un tentato omicidio portatore di salvezza

    Ma ciò non è del tutto vero. Nemmeno cent'anni dopo un uomo, dal nome egizio dí Mosè, raduna i suoi compatrioti ebrei in Egitto, li libera dal giogo del popolo egiziano dominante e va con loro verso Oriente – verso la Palestina. Quest'uomo non fa tutto ciò con le sole proprie forze. Ci riesce soltanto perché annuncia agli ebrei che lo vuole il loro Dio YHWH e che questo Dio è il Signore del mondo ed è unico.
    Gli ebrei in Egitto avevano già una lunga storia, che si raccontavano sempre nella cattività egiziana. Era stato Abramo, il padre della fede, a lasciare già una volta la sua terra, per ordine di Dio. Benché avesse grandi mezzi, aveva percorso a piedi con tutto il clan un cammino difficile dall'odierno Iraq fino in Palestina, nella terra che Dio aveva promesso a lui e ai suoi come patria. La relazione tra Abramo e il suo Dio deve aver avuto qualcosa di estremamente intenso.
    Søren Kierkegaard lo ha avvertito e nella sua opera Timore e tremore ha descritto, fin nell'ultimo dettaglio psicologico, il viaggio di Abramo con suo figlio Isacco sul monte Moria. Qui Abramo, per ordine di Dio, doveva sacrificare suo figlio. Kierkegaard è lontano mille miglia dalle ingenue conclusioni affrettate di oggi, secondo cui il buon Dio lì è stato proprio cattivo, visto che con un compito del genere ha trasgredito la dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, il codice penale e soprattutto la correttezza politica generale. A Kierkegaard è chiaro che la fede in Dio è o qualcosa di ridicolo o di serissimo. E per Søren Kierkegaard la fede è davvero una questione di vita o di morte. Nel caso del sacrificio di Isacco non si tratta dell'omicidio premeditato di un bambino innocente. Si tratta del fatto se una persona ha davvero una fiducia senza riserve in Dio, persino quando non ci capisce davvero più niente.
    A questo punto arriva la giustificata obiezione di un uomo di oggi: Non diciamo sempre ai nostri bambini che non devono fidarsi ciecamente delle persone e basta? Non ci sforziamo anche noi di dare dei buoni motivi ai nostri bambini persino per quello che pretendiamo da loro? Una fiducia cieca e senza riserve non è pericolosa e soprattutto irragionevole, in altre parole indegna di un homo sapiens adulto? Qui ci troviamo esattamente di fronte al muro davanti a cui rimase Edith Stein senza sapere che fare e che Gottfried Benn non riuscì a superare, quel muro davanti a cui siamo finiti con il Dio dei filosofi. La decisione presa da Abramo, nella completa fiducia nel suo Dio, di partire con Isacco non si potrà mai giustificare davanti al tribunale della ragione. Lo dice anche Søren Kierkegaard – e schernisce la presuntuosa piccola luce della ragione.
    Quello che adesso deve seguire, o magari anche no, è il passo decisivo oltre il muro. Questo passo noi esseri umani non possiamo farlo da soli. Con il Dio dei filosofi siamo giunti alla fine della nostra erudizione scolastica. Oppure tentiamo ancora un'ultima strada: se il freddo Dio dei filosofi non ci basta, perché aggiungerebbe soltanto al gelo del mondo il gelo di Dio, come dovrebbe essere un Dio in grado di soddisfare davvero l'infinito struggimento che rende inquieto il cuore dell'uomo? In grado di placare la profonda angoscia davanti al nulla, che Kierkegaard prova, con possente mano consolatrice? Certo non dovrebbe essere soltanto una cosa, non soltanto un principio. La risposta allo struggimento degli esseri umani dovrebbe essere piuttosto un Dio che è persona, un Dío che possiamo incontrare davvero, che ci rivolge la parola e a cui possiamo rispondere nella preghiera.
    Certo, qui Feuerbach ha ragione, il desiderio da solo non dimostra affatto l'esistenza dell'oggetto bramato. Se poi questo Dio personale ci sia davvero, a tale proposito noi esseri umani da soli non possiamo dire nulla.
    A tale proposito potrebbe dire qualcosa soltanto questo Dio personale. Se esiste davvero e se vuole. Gli ebrei, i cristiani e i musulmani credono che lo abbia voluto e che abbia detto qualcosa su di sé. Ciò che ha detto è chiamato rivelazione. La rivelazione, in linea di principio, non ce la si può immaginare prima; essa avviene, quando avviene, in maniera imprevedibile. E tocca l'essere umano sul piano esistenziale. Anche quando qualcuno vi rivela il suo amore, non potete immaginarlo prima. Potete desiderarlo ardentemente, potete presumerlo, potete conoscere l'altra persona così bene da essere magari persino in grado di prevederne le parole. Ma non è mai assolutamente sicuro che poi accada davvero. Ciò vale per tutte le esperienze umane che donano gioia profonda o sconvolgono profondamente. Non sono prevedibili dall'esterno. Tali esperienze esistenziali, che danno alla vita il suo sapore autentico, devono avvenire anche in maniera molto concreta e davvero in un luogo preciso, in un momento preciso, ín una situazione precisa, e devono farlo in maniera personalissima e non attraverso un qualche sostituto. Nessuno si accontenterà della dichiarazione della propria adorata: «Se ti amo o no, tesoro, su questo penso che tu ti sia già fatto un'ottima idea e perciò non c'è bisogno che anch'io ti annoi di persona con questo argomento. Per il resto puoi chiedere alla mia amica se ti amo, lei mi conosce alla perfezione». Sono sicuro, cari lettori, che un'affermazione del genere non vi basterebbe.
    Se quindi Dio fosse davvero una persona che, di suo, può avviare una relazione e con cui un essere umano, viceversa, può davvero entrare in relazione, allora è subito chiaro che una persona reale e il suo comportamento reale non possono essere soltanto il risultato delle mie deduzioni logiche su questa persona. Qualunque cosa un filosofo intelligente possa aver immaginato a proposito di Dio nel proprio studio, se Dio è persona – e soltanto una persona, del resto, potrebbe consolarci davvero in tutta l'angoscia della nostra esistenza terrena – allora anche il filosofo deve uscire dal suo studio per incontrarla davvero. Allora dev'essere disposto a lasciarsi sorprendere dall'amorevole imprevedibilità del Dio personale, di cui sapeva l'esistenza e che ha intuito, ma che nel suo studio ben ordinato non avrebbe mai conosciuto. Søren Kierkegaard rimprovera perciò a tutti i filosofi topi di biblioteca e alle loro cosiddette prove dell'esistenza di Dio una vergognosa mancanza di rispetto:

    Dimostrare l'esistenza di Qualcuno che esiste è l'attentato più sfacciato, è un tentativo di renderlo ridicolo [...]. Ma come viene in mente a una persona di dimostrare che Egli esiste, eccetto che se ci si è permessi di ignorarlo? E peggio ancora del fatto di ignorarlo è quello di dimostrargli sotto il naso la sua esistenza.

    Di una persona o di Dio non si può mai essere sicuri. Volerli sapere è irrispettoso. Dio e la persona, infatti, non sono un indovinello che prima o poi è possibile risolvere con il sapere, come le domande di un quiz. Dio e la persona sono un mistero, che non può essere risolto, ma a cui è dovuto rispetto. Quando un marito dice alla moglie: «Ti conosco benissimo, per me sei un libro aperto», questa forse è la cosa più irrispettosa che possa dire di lei. Non le concede infatti nessuna libertà autentica, nessuna autentica possibilità viva di cambiamento, nessuna autentica dignità. La descrive come la lavastoviglie, che secondo regole logiche fa esattamente quello che pretendo da lei o, se dovesse rifiutarsi di fare ciò che pretendo ragionevolmente da lei, finisce tra i rifiuti ingombranti. Karl Rahner affermava che forse l'essere umano è a immagine e somiglianza di Dio soprattutto in quanto – come Dio – è un mistero.
    Forse, cari lettori, vi ricordate che il mio professore di religione ogni volta che le cose si facevano interessanti annunciava con un grande gesto: «È un mistero». Forse ciò è stato addirittura una delle molle che mi hanno spinto a studiare teologia. Scrissi la tesi di laurea sulla dottrina su Dio in Karl Rahner. E dovetti prendere atto, con un certo allarme, che Rahner di preferenza definisce Dio `mistero'. Sì, al culmine della sua dottrina su Dio trovai la frase che, nella beata contemplazione di Dio in paradiso, all'ultimo giorno vedremo Dio – come 'mistero permanente'.
    Ecco che per cinque anni avevo studiato a fondo teologia e poi questo risultato: il `mistero permanente'. Ma la mia delusione durò poco, perché Rahner descrive questo mistero permanente di Dio con parole di grande effetto, non come enigma cupo, ancora insoluto, bensì come mistero luminoso. Nella condizione di beatitudine eterna non sentiremo più, scrive Rahner, tutti i bisogni terreni secondo le definizioni e le descrizioni esatte che però sono soltanto limitazioni e ci esporremo, in libertà redenta, alla luce insondabile di Dio, ormai privi di domande e pieni di felicità. Il mistero permanente di Dio ha a che fare con la sua personalità permanente.
    Se siete riusciti a seguire tutte queste riflessioni su Dio, alcune domande eccezionalmente importanti su Dio, che molte persone sono sempre tornate a porsi e che nella mia giovinezza hanno dato molto da pensare anche a me, sono risolte. Mi ero sempre chiesto perché il buon Dio abbia la mania di fare tanti misteri. Se è davvero Dio, avrebbe il potere di dirci molto semplicemente, una volta per tutte, che esiste, com'è e forse ancora come sta di solito. Ciò magari causerebbe la disoccupazione di molti teologi, ma a noi risparmierebbe un sacco di tempo. Se Dio fosse una cosa, fosse pure un terminator costruito in maniera dispendiosa, non ci sarebbe problema: breve descrizione dell'apparecchio e istruzioni per l'uso, basta.
    Ma se è davvero persona, non si 'sanno' le cose determinanti su di lui 'sapendo' qualcosa su di lui, bensì naturalmente soltanto incontrandolo. La miseria delle agenzie matrimoniali sta proprio in questa circostanza. Se, però, persino con una descrizione dettagliatissima non è possibile conoscere davvero nemmeno una singola persona, tanto meno sarà possibile conoscere Dio. Il metodo apparentemente semplice «soluzione del cruciverba nel prossimo numero», quindi, con Dio non funziona. Se siete sinceri, non funziona nemmeno con vostra moglie.
    Teniamo fermo, quindi: un Dio personale non si può immaginare, su un Dio personale non ci si può soltanto informare così, semplicemente. Un Dio personale, se esiste, dovrebbe rivelarsi di persona, se vogliamo davvero apprendere qualcosa di essenziale su di lui. Ma come? Suonare un attimo alla porta e dire: eccomi? – E poi: infilare un piede nella porta! Un Dio invadente sarebbe imbarazzante e comunque la relazione tra il creatore del mondo, che regna nei secoli dei secoli, e un piccolo uomo mortale sarebbe piuttosto diseguale. Un po' come il piccolo padre Stalin quando salutava i bambini – precipitando così alcuni genitori nella paura e nel terrore. Le cose quindi non funzionano in modo tanto semplice. Ma forse ora è meglio che non facciamo troppe buone proposte al buon Dio, secondo lo stupido motto «Io al tuo posto...». Proprio quando si tratta di relazioni, si fa bene a lasciare a ciascuno il suo stile personale. Uno è impetuoso, l'altro riservato, talvolta il temperamento cambia anche a seconda della situazione. Guardiamo quindi soltanto che cosa ha fatto per risolvere l'incontestabile problema.
    Gli ebrei, a ogni modo, credono che Dio, per rispetto della libertà e della dignità dell'essere umano, si sia manifestato amorevolmente come persona passo passo, in maniera adeguata alle capacità di comprensione dell'uomo. Il Dio eterno, tuttavia, non ha parlato di cose irrilevanti, ma ha sempre parlato come Dio, che vuole assicurare la felicità all'essere umano e a questo scopo gli dona la fiducia, ma la esige anche. Circa nel 1900 prima della nascita di Cristo, Dio parlò ad Abramo. Gli parlò in modo amorevole e pieno di promesse e Abramo si fidò di Dio. Lo si è espresso con le parole: Abramo credette in Dio.
    A questo punto è necessario un chiarimento sulla parola 'credere'. Sarebbe meglio tradurla con 'avere fiducia'. In latino sia la fede che la fiducia si esprimono con la parola fides. Il termine 'credere', infatti, è molto facile da fraintendere. Se non si sa qualcosa con certezza, la si può soltanto credere, si dice. Se un paracadutista chiedesse se il paracadute che gli è stato dato si aprirà davvero, l'allegra risposta «Ah, credo di sì» di sicuro non gli basterà. Comprensibilmente desidera saperlo con assoluta certezza. Ogni altra cosa sarebbe una negligenza.
    Nelle relazioni umane è proprio l'opposto. Per fidarsi di una persona non è sufficiente alcun sapere. Per fidarsi di qualcuno bisogna incontrarlo di persona e per fare questo c'è bisogno di un po' di tempo. Poi, però, è una certezza molto maggiore se a quel punto si può dire con piena convinzione di fidarsi di quella persona, rispetto a quando si sa soltanto qualcosa su di lei, per esempio attraverso dei test psicologici o una ricerca in internet. Al contrario, perciò, sarebbe una negligenza fidarsi di una persona soltanto perché si sa qualcosa su di lei. E sarebbe una negligenza credere in Dio soltanto perché in qualche modo si presume qualcosa su di lui.
    Naturalmente, quindi, la certezza che nel caso di Abramo è definita con il verbo 'credere' è infinitamente più grande di quando «crediamo» qualcosa normalmente. Già nell'ora di religione mi dava fastidio quando il professore cercava di salvarsi con le parole: «Lo si può soltanto (!) credere». Abramo sarebbe stato pazzo se avesse levato le tende nella mezzaluna fertile, come si sono definite le regioni allora rigogliose dell'attuale Iraq, soltanto così, a casaccio, solamente perché aveva la sensazione e credeva in maniera vaga a un Dio sbucato fuori da chissà dove che in Palestina fosse possibile ottenere della terra. Mettere in gioco l'esistenza fisica di tutto il suo clan per una vaga speranza, credulone come i cercatori d'oro, non avrebbe affatto reso Abramo il patriarca della religione, ma lo avrebbe più che altro reso adatto a essere il patrono di tutti i casinò. La cosa essenziale era questa: Dio si era rivelato ad Abramo e Abramo aveva un rapporto molto profondo con Dio; confidava in lui con una certezza interiore addirittura indomabile.
    La fede in Dio non è una prestazione personale, è un dono di Dio stesso. L'essere umano può aprirsi o chiudersi a esso. Abramo non si chiuse. Come Dio abbia reso possibile ad Abramo questo accesso a lui, non lo sappiamo esattamente. Il fatto che abbia donato ancora un figlio in età avanzata all'anziano Abramo, e soprattutto all'anziana Sara, non avrà avuto un ruolo di scarsa importanza in tutto ciò. Alla fedeltà fiduciosa di Dio corrispondeva la fedeltà fiduciosa di Abramo.
    E questa fedeltà indomabile di Abramo nei confronti di Dio si dimostra quando parte da solo con il suo unico figlio Isacco per sacrificarlo in conformità alla volontà di Dio. Questa fedeltà di Abramo nel dubbio travalica addirittura ogni ragione, su questo punto Søren Kierkegaard insiste con forza. In segreto Abramo può aver sperato in una qualche soluzione, ma non tale da sentirsi davvero sollevato. Si aggrappò soltanto alla sua fede, alla sua fiducia incrollabile in Dio, al di fuori di tale fiducia per Abramo, nel profondo del cuore, sul suo lungo cammino verso il monte Moria deve aver regnato soltanto una notte spaventosa. Ci si può immaginare la felicità irrefrenabile di Abramo nel momento in cui suo figlio venne risparmiato dalla morte e il suo Dio dall'omicidio. A chiunque sente questa storia, sarà chiaro che la relazione tra Abramo e Dio è descritta in maniera troppo innocua, se la si definisce soltanto relazione. Era una salda alleanza che portò frutto per millenni.

     

    3. La più lunga storia d'amore di tutti i tempi

    Gli ebrei fatti schiavi rammentarono, a quel punto, anche in Egitto al loro Dio tale alleanza, e il loro Dio la rammentò a loro.
    Gli ebrei incolti speravano che il loro Dio fosse più forte di tutte le superbe divinità del Regno degli egizi. Credevano già da tempo nel loro unico Dio, ma più come a una divinità tribale analoga a quelle di altri popoli. La concezione esplicita di un Dio unico e universale non era ancora emersa da nessuna parte. Nei Salmi dell'Antico Testamento – che fanno parte degli scritti più antichi della Bibbia – si parla ancora con molta disinvoltura di altri dèi. Nella sua pedagogia verso gli esseri umani, come l'avrebbero definita in seguito i Padri della chiesa, Dio procedette passo passo, così che gli uomini potessero davvero comprendere ogni passo.
    Allora, però, il passo successivo era stato preparato. Nella terra madre della religione e del politeismo, sotto Akhenaton era nata l'idea di un unico Dio – certo vaga e ben poco distinta dal culto tradizionale degli astri che avevano seguito i babilonesi. Akhenaton, però, credeva indubbiamente soltanto in un Dio. Dal punto di vista materiale, Akhenaton era sprofondato in maniera tanto distruttiva quanto è umanamente possibile sprofondare. Nulla più, in Egitto, lo ricordava. Il suo audace progetto era scomparso nella sabbia del deserto, mentre l'opera di Mosè sorse dalla prova affrontata nel deserto, per diventare una stabilità millenaria al di là di ogni terribile prova. Akhenaton avrebbe quindi potuto fornire al monoteismo esplicito degli ebrei un importante impulso sul piano spirituale, che riecheggia ancora oggi nelle religioni mondiali monoteiste. Si può riflettere anche su questo di fronte al volto di una bellezza malinconica di Nefertiti a Berlino.
    In epoca moderna, in cui si accoglieva nell'arsenale ateo tutto ciò che capitava tra le mani, era un'accusa corrente quella che gli ebrei e i cristiani, in qualche modo, avessero ripreso tutto dal paganesimo. Il monoteismo da Akhenaton, il diluvio dall'epos di Gilgamesh, la nascita da una vergine da alcune nascite di divinità pagane. In altre parole, il cristianesimo e l'ebraismo non sarebbero molto originali. Ora, il filosofo Robert Spaemann ha coniato la frase chiarificatrice: «La verità non è originale, è l'errore a esserlo».
    In effetti l'originalità è una categoria completamente sbagliata di fronte alla pedagogia piena di sensibilità di Dio verso gli esseri umani. Che cosa avrebbe significato la nascita di Gesù da una vergine, se prima non ci fossero state molte storie di salvatori divini che erano nati da una vergine? La nascita di Gesù da una vergine non sarebbe stata altro che un prodigio ginecologico, come afferma ancora oggi la teologa tedesca Uta Ranke-Heinemann, la vecchia signora dell'involontario cabaret della chiesa. La nascita di Gesù da una vergine poteva dire qualcosa agli esseri umani soltanto se il linguaggio religioso vi associava già qualcosa, cioè la divinità salvifica. La nascita di Gesù da una vergine, però, naturalmente secondo la fede dei cristiani era un caso molto particolare; Dio non generava sul piano biologico un figlio, come faceva Zeus, il vecchio donnaiolo; Dio creava in Maria Gesù, questo essere umano, in maniera del tutto nuova. Così, nella nascita di Gesù da una vergine, per i cristiani diventava realtà ciò che in passato era stato intuito in racconti soltanto mitici.
    E anche la fede in un dio del sole come Aton non ebbe come conseguenza che Mosè andasse semplicemente ad Amarna, copiando in un attimo la fede dí Akhenaton – tanti saluti da Dan Brown. Forse – semplicemente non si sa – il monoteismo di Akhenaton rese più semplice agli ebrei comprendere più a fondo la fede in YHWH. Fra di loro YHWH aveva sempre avuto un ruolo eminente, ma che fosse l'unico Dío e che lui, il Dio del popolo d'Israele, fosse il Signore del mondo intero, quest'intuizione quasi incredibile forse fu ottenuta dagli ebrei in Egitto grazie all'ambiente spirituale di Amarna. Tale intuizione comunque si trasformò in convinzione soltanto per mezzo delle opere possenti di YHWH contro il sovrano più potente del mondo, il faraone, attraverso le quali salvò il suo popolo eletto.
    Soltanto dopo Mosè sale sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge con i dieci comandamenti, il primo dei quali dice: Io sono il Signore, tuo Dio. Non avrai altro Dio all'infuori di me! Ora potevano comprendere ciò che avevano vissuto. E, molto tempo dopo, i profeti di Israele avrebbero annunciato con immagini forti il potere universale di Dio nei confronti di altri poteri: «Ecco, le nazioni sono come una goccia da un secchio, contano come il pulviscolo sulla bilancia [...] davanti a lui» (Is 40,15-18).
    Ma perché, in generale, un 'popolo eletto'? Anche qui vale l'argomento della pedagogia di Dio. Se Dio sí fosse rivelato di colpo a tutto il mondo, in questo tsunami comunicativo ogni libertà e autonomia dell'essere umano sarebbero state spazzate via. Il Dio degli ebrei, però, non reagisce con la grancassa, come Zeus, il borioso dio del tuono dei greci. È nella brezza leggera o nel roveto ardente e avverte l'uomo Mosè di non guardarlo, affinché la visione di Dio non lo uccida. Se Dio è davvero persona, allora deve rivelarsi in un luogo ben preciso, in un momento ben preciso, in una situazione ben precisa. E così incontra singoli individui e anche un singolo popolo mediorientale in momenti storici precisi. Ciò non significa che Dio rinunci ad agire in maniera universale. Perciò, anche in altri popoli possono esserci persone che lo cercano e lo trovano. Ma come segno per tutto il mondo vale in primo luogo il suo incontro concreto con singole persone e soprattutto con un singolo popolo eletto, che egli sceglie con libera sovranità divina. In tal modo Dio entra nella storia. Ed è affascinante e anche sconvolgente seguire come questa passione di Dio per il suo popolo e del suo popolo per lui rimanga costante per millenni passando per molti apici felici e molti abissi tremendi, fino a oggi. Alcune cose l'estraneo non le capirà fino in fondo, come anche in altre relazioni d'amore. Al contrario del freddo Dio dei filosofi, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ogni tanto sembra addirittura essere ingiusto, addirittura geloso, come una persona che ama, che, infatti, in tribunale può appellarsi al conflitto d'interessi e non dovrebbe prestare cure mediche agli amati famigliari. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è senz'altro tutto ciò che esige da Dio la dottrina filosofica su di lui, è onnipotente, infinitamente buono, onnisciente ecc., ma è soprattutto un Dio vivo, che tiene sempre la creazione tra le mani e agisce; il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è soprattutto persona.
    Chi lo ha capito, comprende anche perché l'Antico Testamento consista di così tanti racconti storici. Una cosa, nel peggiore dei casi, si conosce attraverso le istruzioni per l'uso; una persona si conosce raccontandone la storia. Chi non si è fatto raccontare da una persona che lo interessava veramente delle storie della sua vita, in caso di necessità illustrate anche per mezzo di album di fotografie? Perciò gli ebrei per il loro Dio non hanno redatto delle teoriche istruzioni per l'uso, ma hanno raccontato per millenni del Dio in cui confidano. Un Dio che è tornato sempre a salvarli, ma che ha permesso anche catastrofi terribili, la cattività babilonese, la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani, la diaspora degli ebrei in tutto il mondo e Auschwitz, quest'indicibile orrore della modernità. Il fatto che degli ebrei intelligentissimi e sciocchi, pieni di temperamento e stanchi, critici e condiscendenti in tutto il mondo ancora oggi abbiano, nonostante tutto, fiducia in questo Dio, come Abramo sul suo terribile cammino con il figlio Isacco verso il monte Moria, sicuramente tocca chiunque sia ancora in grado di nutrire sentimenti umani. In un'epoca dei partner per una stagione già soltanto questo può essere un miracolo, anzi, una 'prova dell'esistenza di Dio': la storia millenaria mai interrotta – nei giorni buoni e in quelli cattivi, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore – di Dio con il suo popolo eletto di Israele è senz'altro la storia d'amore più lunga e più drammatica di tutti i tempi.
    Quando organizzai uno scambio di ragazzi israeliani con un gruppo di ragazzi tedeschi disabili e non, andai con il mio gruppo tedesco in Israele, tra le altre mete nel kibbutz di Yad Mordechai. È al confine con la striscia di Gaza. Mordechai, così si chiamava il capo della rivolta nel ghetto di Varsavia e, subito dopo la guerra, alcuni sopravvissuti di quell'unica disperata ribellione militare degli ebrei stessi contro l'Olocausto avevano fondato questo villaggio fortificato. Ma a soli tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale, in una regione del mondo completamente diversa e in una lingua completamente diversa, tornarono di nuovo a sentire, da oltre il confine, l'intimazione ad annientarli: «Gettate a mare gli ebrei!». Allora mi fece venire le lacrime agli occhi immaginare come si possa sopportare tutto questo. C'è davvero qualcosa di speciale in questo popolo e forse alcuni buoni consigli dal salotto buono in Europa centrale lo toccano tanto poco perché il popolo eletto forse non è migliore, ma magari è molto diverso da tutti gli altri popoli della terra.
    Ma non.era soltanto Dio a parlare con gli ebrei, erano anche gli ebrei a parlare con Dio. Potevano litigare e lottare con lui come lo stesso patriarca Abramo, quando spinge Dio a una sorta di contrattazione levantina per risparmiare la corrotta Sodoma per il bene di alcuni giusti. Dio promette di risparmiare la città se si troveranno cinquanta giusti. Ma Abramo, senza grandi illusioni sulla giustizia degli uomini, spinge Dio a risparmiare la città anche se ci fossero solo quarantacinque, quaranta, trenta, venti giusti. E alla fine, dopo un lungo botta e risposta, Dio promette di risparmiare Sodoma anche se nella città si potessero scovare soltanto dieci giusti. Giacobbe lottò addirittura fisicamente con il proprio Dio presso il guado dello Iabbok. Durante questa lotta riportò una slogatura che lo fece zoppicare. Dio riconobbe la lotta di Giacobbe con lui e gli diede perciò il nome di Israele, cioè 'colui che ha lottato con Dio'. Israele, è davvero un nome incredibile. Questo rapporto vivace e non molto sottomesso con il loro Dio contraddistingue gli ebrei fino a oggi.
    Dei saggi hanno detto che Dio si può conoscere al meglio semplicemente pregandolo. È vero, il modo migliore di rivolgersi a una persona è quando non ci si limita a riflettere su di lei, ma le si rivolge la parola. E così gli ebrei elevano le preghiere al loro Dio –con la stessa passione con cui a volte litigano con lui. Pregano con tutto il corpo, perché nelle Sacre Scritture sta scritto: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). E così oscillano il corpo avanti e indietro, quando parlano con il loro Dio davanti al muro occidentale del Tempio distrutto a Gerusalemme.

    4. Un sovrano inquietante

    Gli ebrei stanno in piedi davanti al loro Dio. I musulmani davanti a lui si inchinano profondamente nella polvere. Anche Maometto, nell'Arabia del VII secolo d.C., aveva incontrato un rozzo politeismo. E anche lui annunciò ai popoli di questa regione un unico Dio. Così facendo, però, procedette in maniera molto più coerente e rigorosa di Akhenaton e in tal modo la sua opera sopravvisse. Conosceva la fede ebraica, che però era essenzialmente limitata al popolo ebraico. Conosceva anche dei cristiani, ma probabilmente soltanto quelli che si erano rifugiati nel deserto perché le loro dottrine un po' strane non erano state accettate come conformi all'ortodossia dalla grande chiesa. Per il suo rigoroso monoteismo, Maometto riprese alcuni elementi dall'ebraismo e dal cristianesimo. Su un punto, però, a causa delle caotiche concezioni religiose dei popoli del deserto, che fino a quel momento in gran parte non erano stati toccati dal cristianesimo, fu inflessibile: tutto ciò che ricordava il politeismo, anche alla lontana, fu estirpato in maniera radicale. Così facendo, può forse essergli talvolta capitato come a noi nei nostri giardini davanti a casa, dove abbiamo estirpato, ritenendole erbacce, alcune piante che invece sarebbero diventate un ornamento del nostro giardino. Maometto, a ogni modo, insistette sul fatto che c'è un unico Dio e perciò la divinità di Cristo e la dottrina della divina trinità con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo furono tassativamente rifiutate. Un fraintendimento del cristianesimo carico di conseguenze. I cristiani credono in tre dèi, un'affermazione del genere si può sentire ancora oggi da parte di alcuni musulmani. E anche alcuni europei d'Occidente, che hanno perso le loro radici, hanno cercato la salvezza in una conversione all'islam perché lì si crederebbe davvero in maniera chiara in un unico Dio. L'islam sarebbe chiaro e inequivocabile, il cristianesimo troppo complicato. E così anche questi europei occidentali neo-islamizzati ora piegano il capo nella polvere davanti all'unico Dio.
    Davvero, davanti al Dio infinitamente potente dell'islam l'essere umano appare minuscolo come un granello di polvere. E gli ordini di questo Dio possente esigono un'umile esecuzione, senza la minima concessione. Con questo Dio non si discute come fanno gli ebrei. Gli si obbedisce, senza se e senza ma. Le leggi di Dio, annunciate agli uomini da Maometto, vanno rispettate. Chi resiste alla sacra volontà del Dio onnipotente è un peccatore degno della dannazione. Alcune regolamentazioni sociali, che nel vll secolo potevano essere considerate un progresso sociale, oggi appaiono singolarmente estranee e rigide. Eppure valgono.
    E un Dio che, in maniera intollerante, non tollera nessun'altra divinità al proprio fianco, non può nemmeno tollerare l'apostasia dall'islam. La dannazione eterna incombe su chi abbandona la religione e, come esempio ammonitore, per non far incorrere anche altri devoti musulmani nel rischio della perdizione eterna, già qui in terra bisogna stabilire un castigo esemplare: per l'apostasia dall'islam c'è la pena di morte. Comunque la vita del singolo piccolo individuo è di scarso valore di fronte al Dio infinito, la vita degli infedeli in ogni caso, ma anche la vita terrena dei credenti ha un valore molto limitato, dato che la vita vera attende in paradiso. I terroristi dell'I. 1 settembre si gettarono con le sure del Corano sulle labbra sulle Torri Gemelle di New York, abitate da `infedeli'.
    Ora, senz'altro non bisogna fare l'errore di giudicare l'islam soltanto a partire dal terrorismo islamico. L'islam ha sicuramente contribuito anche all'umanizzazione e alla civilizzazione del mondo. Esiste, infatti, un ampio spettro di interpretazioni dell'islam. L'islam in Indonesia è un islam completamente diverso da quello dell'Arabia Saudita, quello in Bangladesh è completamente diverso da quello del Marocco, in Iran completamente diverso dall'Egitto. Anche nella storia ci sono state epoche in cui l'islam è stato interpretato in maniera molto moderata ed epoche che lo hanno inteso in modo più rigoroso. Eppure resta un problema insuperabile: anche se nel Corano la vicinanza di Dio all'essere umano è evocata con immagini forti – più vicino della propria carotide! la distanza tra il Dio infinito e onnipotente e questa creatura, l'essere umano, in rapporto a Lui infinitamente piccola, resta insuperabile. Nei secoli i musulmani si sono piegati in maniera fatalistica al loro destino stabilito dall'onnipotente Allah e in tal modo non sono riusciti a produrre nessun vero progresso industriale, come ha constatato Max Weber. La ricchezza odierna è, infatti, più che altro una fioritura artificiale dalla serra dell"oro nero'.
    Il risultato della fede nell'unico Dio nell'islam è quindi l'infinita distanza tra Dio ed essere umano, che sottomette tutto, senza eccezioni, agli ordini tassativi del Dio onnipotente, distruggendo così ogni vera forma di libertà umana e lasciandosi alle spalle, in realtà, un paesaggio un po' desolato in bianco e nero. Dio ed essere umano, gli infedeli e i credenti, i buoni e i cattivi sono rigorosamente separati. La luce accecante di Dío brucia l'essere umano, le tenebre nere dell'inferno lo inghiottono. Nel monoteismo all'apparenza tanto coerente dell'islam, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si trasforma in un sovrano inquietante, infinitamente lontano.
    Ma questo corrisponde davvero all'esperienza umana? In altre parole: ci può essere una risposta diversa, una risposta personale, in funzione della quale l'essere umano è creato e che dà una risposta credibile al suo interrogativo esistenziale sul senso del mondo, sul senso della vita e sul senso dell'essere umano stesso? Una cosa comunque è chiara: una risposta del genere non la si può immaginare da soli, così come non ci si poteva immaginare da soli il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Una risposta del genere, se potesse esistere in assoluto, dovrebbe venire da Dio stesso.
    Prima di dedicarci a questa possibile risposta, però, forse dovremmo fare ancora una piccola pausa. Che risultati ha dato il nostro cammino fino a questo momento? L'esperienza della musica e dell'arte ci ha aperto una visione al di là di un primitivo materialismo. La psicologia, a ogni modo, è apparsa inutile come strumento tanto per la confutazione della fede in Dio quanto per la prova dell'esistenza di Dio. La questione di Dio, perciò, era rimasta aperta. In maniera eccezionalmente seria si sono occupati di Dio gli atei, talvolta con una serietà maggiore dei credenti. Il Dio contro cui gli atei si sono ribellati, però, troppo spesso non era un Dio da prendere sul serio e l'ateismo stesso, come opzione intellettuale, crollò su se stesso nel momento del passaggio al xx secolo, perché la scienza gli aveva strappato di mano gli argomenti. Soltanto la protesta radicale di Friedrich Nietzsche non ne fu toccata. Il Dio dei bambini, poi, si è rivelato una manifestazione per nulla infantile. Abbiamo visto, piuttosto, che il modo in cui i bambini sanno fare l'esperienza del mondo, in maniera molto più diretta e genuina, rappresenta un accesso alla realtà sicuramente preziosissimo. Il Dio dei professori ha gettato luce sulle religioni del mondo, che forse hanno potuto educare l'umanità a un'idea di Dio, ma spesso, dalla prospettiva odierna, non sono state in grado di fornire alcuna risposta davvero soddisfacente. Soltanto la sapienza nel rapporto degli uomini con se stessi, accumulatasi nel buddhismo a-teo, è sembrata portare oltre.
    Il Dio degli scienziati ha mostrato l'avvincente storia della scienza moderna con le sue estreme fluttuazioni e tensioni nel rapporto degli scienziati con Dio. Gli ostacoli apparentemente insuperabili tra la scienza e la religione, comunque, con la rivoluzione delle scienze naturali sono scomparsi. Gli scienziati moderni hanno detto addio al vecchio piatto ateismo della loro corporazione. È stata sottratta loro la verità, è rimasta loro la probabilità. E così si prendono la libertà di tornare ad ascoltare la propria voce interiore, di guardare una buona volta con altri occhi il mondo, almeno per prova, e di porsi molto seriamente la questione di Dio. Ma né il caso Galilei, né l'evoluzionismo darwiniano, e neppure le neuroscienze moderne oggi offrono ancora degli argomenti contro l'esistenza di Dio. Il Dio dei filosofi ha portato poi delle argomentazioni importanti a favore dell'esistenza di Dio, ma contro il Dio della ragion pura è rimasta la protesta di Blaise Pascal. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe di Pascal è il Dio personale, che si rivela in prima persona agli esseri umani nella storia. Molte, anzi, innumerevoli argomentazioni ed esperienze sono quindi indizi dell'esistenza di Dio.
    Più d'uno, però, forse alla fine sarà più che altro scoraggiato dall'esempio dell'islam. Un Dio così lontano, con una pretesa di potere tanto rigida e una religione macchiata da tanto fanatismo! A questo punto non si preferisce forse sedersi vicino a un simpatico ateo umanista, che non vuole convertire o combattere nessuno in nome di Dio, con cui si può parlare di tutto senza paura, con la certezza che dopo la conversazione si lascerà che il buon Dio rimanga un brav'uomo? L'ateismo, però, come ateismo di stato, in epoca moderna forse ha più innocenti sulla coscienza di tutte le religioni messe insieme. E nemmeno limitarsi semplicemente a lasciare in sospeso la questione di Dio è una soluzione, se non si vuole allo stesso tempo lasciare in sospeso la questione della propria morte e del senso della propria esistenza. Anche oggi, perciò, nessuno può evitare sul serio la questione di Dio. Sarebbe quindi pensabile che forse vi sia una risposta, magari persino una risposta definitiva?


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