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    I nomi del bello

    e il mistero di Dio

    Bruno Forte


    Per parlare del bello come via al mistero di Dio vorrei costruire una sorta di cattedrale dello spirito, che evochi la bellezza degli spazi sacri edificati dagli uomini per evocare e invocare la divina bellezza: un pronao, una navata a sette campate e un’abside, che si diriga verso l’indicibile Altro. Il pronao è metafora della domanda che è alla base delle riflessioni che seguono; la navata scandisce i sette nomi del bello che andrò a richiamare; l’abside conclude sulla bellezza come accesso possibile al Mistero che salva.

    1. Pronao: l’attualità del bello fra utopia e disincanto, verso una nuova «filocalía»

    a. La luce. Il tempo della ragione forte è anche il tempo dell’utopia: dove la ragione moderna pensava di aver tutto compreso, la volontà di potenza delle ideologie ambiva a imporre alla realtà complessa e drammatica la totalità senza ombre dell’idea, rincorrendo l’aspirazione utopica di un compiuto regnum hominis. In questa ambizione, affamata di totalità, non restava spazio per la bellezza, perché per essa non può esserci posto dove non siano riconosciuti l’ulteriorità, l’indicibile, il mistero: la bellezza evoca, non cattura, suscita, non arresta, invoca, non presume. Perciò, nel tempo dell’utopia velleitaria della ragione adulta la bellezza è stata respinta, esiliata o ridotta a calcolo, a volgarissimo «kitsch» («fango», «immondizia », dal verbo kitschen = «spazzare il fango dalla strada»). Scrive Hans Urs von Balthasar, il pensatore che più di ogni altro ha avvertito l’epocale attualità del bello:

    «La bellezza disinteressata, senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza». [1]

    La conseguenza drammatica di questo esilio della bellezza sta nell’inevitabile perdita del senso del vero e del bene:

    «In un mondo senza bellezza … anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto ... In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica». [2]

    b. La notte. Ciò di cui allora v’è urgente bisogno al compimento della parabola dell’epoca moderna è per von Balthasar un recupero della bellezza della verità e del bene, che li faccia amare, poiché «non si può amare che il bello» («Non possumus amare nisi pulchra»). [3] Questo vuol dire, per l’annuncio della buona novella, che non basta più testimoniare l’alterità di Dio, la trascendenza del bene e del vero rispetto al mondo, compito pur necessario e prezioso in tante epoche: bisogna testimoniarne la bellezza. Ad un’umanità che tanto intensamente ha scoperto la mondanità del mondo e ha rincorso il progetto di emanciparsi da ogni dipendenza estranea all’orizzonte terreno, è necessario più che mai proporre la verità amabile, il bene attraente, lo scandalo al tempo stesso fascinoso e inquietante dell’umanità di Dio: e questo vuol dire riscoprire la chiave estetica dell’approccio alla verità che salva, al bene che libera. Nel tempo del disincanto e della ragione debole, dove la massificazione delle ideologie ha ceduto il posto alla folla di solitudini del regno del frammento, in questa post-modernità nichilista e debole, rinunciataria di fronte alla verità e al bene perché sospettosa nei confronti di tutti gli orizzonti globali di senso, di cui l’ideologia aveva abusato, solo la bellezza può offrirsi come via di incontro con ciò per cui valga la pena di vivere e di vivere insieme, con ciò che sia capace di vincere il dolore e la morte e di dare speranza alla vita.

    c. L’aurora. Fra utopia e disincanto sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel fi nito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno.
    Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ideologia.
    Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboliste, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del crocifisso amore: lo esprime in un testo drammatico lo stesso von Balthasar:

    «Quel Logos, in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità, cade lui stesso nel buio, nell’angoscia … in un nascondimento, che è proprio l’opposto dello svelamento della verità dell’essere … L’indicativo è perduto, l’interrogativo è rimasto l’unico modo di parlare. La fi ne della domanda è il forte grido. È la parola che non è più parola … Anche il Logos, che ha accettato la forma a lui adatta, deve essere privato della sua figura … La parola di Dio nel mondo è diventata muta, nella notte essa non chiede più di Dio; essa giace sepolta nella terra. La notte che la copre non è una notte di stelle, ma notte di desolazione profonda e di alienazione mortale. Non è un silenzio pieno di mille segreti d’amore, che scaturiscono dalla avvertita presenza dell’amato; ma silenzio di assenza, di distacco, di vuoto abbandono, che arriva dietro tutti gli strappi dell’addio». [4]

    L’estetica teologica – intesa come percezione del Tutto nel frammento, educata alla scuola della kènosi del Verbo crocifisso e abbandonato – è, pertanto, al tempo stesso la via per glorificare l’Eterno nel miracolo della sua autocomunicazione nel finito e per annunciare al mondo la gioia della salvezza che nel «Verbum abbreviatum» gli è stata donata. Rivisitare i linguaggi della bellezza nella memoria teologica dell’Occidente sarà pertanto la via per rispondere alla domanda decisiva su dove e come potrà essere possibile al pensiero moderno e ai suoi naufragi di riappropriarsi della via salutare del bello, riconoscendovi anche una singolare via verso il Vangelo di Gesù. È quanto tenteremo di fare – sia pur in maniera appena evocativa – nelle riflessioni che seguono.

    2. Le sette arcate: i nomi del bello e il silenzio di Dio

    Dire l’indicibile senza violarne il mistero è come accendere i sette bracci del candelabro santo, la «menorah», nella notte del mondo, facendo risplendere la vivente «menorah» dei volti con le loro sette aperture dell’unica luce del cuore, che solo il Messia, l’Eterno entrato nel tempo, è in grado di accendere in noi con la sua luce. L’evocazione dei sette nomi del bello nelle lingue sacre dell’Occidente potrà aiutare ad alimentare questa «menorah» vivente nel santuario di Dio, che è il mondo intero da Lui chiamato a esistere.
    Il primo di questi nomi del bello è l’ebraico tov: il termine ricorre come un canto fermo quale commento divino all’opera dei sei giorni, [5] dicendo inseparabilmente la bontà e la bellezza del creato agli occhi del Creatore. In rapporto alle otto opere di Dio la parola ricorre sette volte: secondo la tradizione rabbinica non è detto dell’opera del secondo giorno perché in essa Dio compie la separazione delle acque dalle acque, della terra dal cielo, che sembra contraddire alla bellezza come unità e corrispondenza.
    Ciò significa che il creato è bello perché è domanda, desiderio del cielo: tov, bello è dunque ciò che nutre il desiderio, lanciando ponti verso l’Eterno per cui siamo fatti (non ciò che separa dal cielo, ma ciò che fa tendere ad esso è il bello: de-siderio – da de-sideribus, essere lontani dalle stelle, bramandone tuttavia la prossimità – è il bello, l’assente presenza nel cuore della volta stellata). Il bello e il bene sono desiderio dell’Eterno, sete del cielo, sete della bellezza nascosta.
    Un secondo nome del bello è il greco καλός (secondo i Medioevali da καλέειν = chiamo; in realtà dal sanscrito kalyah): il bello chiama, attira a sé, è amabile, si offre, viene incontro. La bellezza è appello, offerta, avvento dell’Altro. Basti ricordare la voce del misterioso Maestro, unanimemente riconosciuto e amato, che è Dionigi, lo pseudo Areopagita:

    «Anche in Dio l’eros è estatico, in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma solo all’amato … Perciò anche Paolo, il grande, tutto preso dall’eros divino e divenuto partecipe della sua forza estatica, grida con voce ispirata: Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me. Egli parla come un vero amante, come uno che, secondo le sue stesse parole, è uscito estaticamente da sé per entrare in Dio e non vive più di vita propria, ma di quella dell’amato infinitamente amabile … In breve, appartiene al bello e al bene possedere l’eros ed amare in maniera conforme all’eros; questo ha infatti la sua sede originaria nel bello e nel bene, come solo attraverso il bello e il bene esso trova consistenza e realizzazione». [6]

    «Estatico» è il bello, e non lo raggiunge se non chi si perde, chi accetta di essere attratto fuori di sé per andare verso l’altro nel movimento d’amore oltre ogni cosa, oltre l’essere, il divino e il bene, in quanto pensati al di fuori dell’estasi suprema da sé e da ogni possesso del sé.
    Un terzo nome della bellezza è il latino pulcher (da un cognome romano): bello è, cioè, qualcuno, un soggetto concreto; la bellezza è sempre in un «frammento», fragile, finita. A proposito di questa fragilità del bello, di questo suo essere legato al breve spazio e tempo della caducità, scrive Cristina Campo:

    «Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? È un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino … Imperdonabile è, per il mondo d’oggi, tutto ciò che somiglia al giacinto di Persefone … William Carlos Williams ha definito ciò una volta per tutte in tre grandi versi: Ma è vero, essi la temono / più che la morte, la bellezza è temuta / più di quanto essi temano la morte … E hanno ragione perché accettarla è sempre accettare una morte, una fi ne del vecchio uomo e una difficile nuova vita … Tutti provano questo terrore ma i più preferiscono sparare sulla bellezza o rifugiarsi nell’orrore per dimenticarla». [7]

    La bellezza ha insomma un’aura tragica: il suo bacio è mortale, perché il Tutto che si offre nel frammento ne rivela l’inesorabile finitezza. Il bello denuncia la fragilità del bello. La bellezza è come la morte, minacciosa nella sua imminenza: è questa la ragione profonda per la quale l’esperienza del bello è impastata di malinconia. Il bello ricorda agli abitatori del tempo la caducità della loro dimora, che appare fasciata dal silenzio del nulla. E poiché la vertigine del nulla produce l’angoscia, si intuisce quanto angosciosa possa rivelarsi la bellezza: sospeso sugli abissali silenzi della morte, il cuore umano, sovrastato dal bello, si fa inquieto riguardo al suo destino. La fragilità del bello rinvia così paradossalmente all’eterno, come Persefone che dall’Ade rimanda ai giardini della primavera.
    Un quarto nome del bello è il latino formosus (da «forma»: il termine si conserva ad esempio nel castigliano hermoso): bello è ciò che ha forma, dove la proporzione delle parti rispecchia l’armonia dei numeri del cielo. È l’insegnamento di Agostino, su questo punto totalmente discepolo del mondo greco: «Non a caso nel lodare si usa tanto il termine speciosissimum – che ha l’essenza in sommo grado – quanto il termine formosissimum – che ha la forma in sommo grado». [8] La bellezza è ordine, armonia, pace: raccolto riposo dell’anima: «(Le cose sono belle) perché le parti … per una sorta di intimo legame danno luogo ad un insieme conveniente». [9] Rispetto alla visione greca Agostino innova, tuttavia, su due punti: il primo è che la bellezza per lui non è qualcosa, ma Qualcuno, un Tu amato: «Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi!». [10] Il secondo è che il bello come armonia non dà ragione del male e della sofferenza: da una parte Agostino spiega la disarmonia come momento dialettico necessario, che sta al bello come l’ombra alla luce; dall’altra cerca insoddisfatto altre possibilità. Così nel Commento alla Prima Lettera di Giovanni:

    «Due flauti suonano in modo diverso, ma uno stesso Spirito vi soffi a dentro. Dice il primo: ‘Egli è il più bello tra i fi gli degli uomini’ (Sal 45,3); e il secondo, con Isaia, dice: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’ (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un unico Spirito: essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: ‘Il più bello tra i figli degli uomini’; ‘benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio’ (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo fl auto: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’: questo perché ‘spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana’ (Fil 2,7). ‘Egli non aveva bellezza né decoro’ per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e amare correndo … Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello». [11]

    Si intravede qui – oltre quella greca della forma e dell’armonia – un’altra bellezza.
    Un quinto nome del bello è quello che evoca l’irradiarsi della luce: splendido è il bello, radioso come il sole del mattino, e insieme pudico come lo stesso sole alle prime luci dell’alba, o infiammato di sangue come l’astro nell’ora che volge al tramonto, quando sa tingere ogni cosa del sapore della nostalgia. [12] Claritas è il termine usato da Tommaso d’Aquino alla ricerca di questa ulteriore, conturbante bellezza: egli ricorre al termine quando parla del bello in rapporto a Colui, cui più si addice l’idea della bellezza, il Figlio Gesù Cristo. È in tale contesto che Tommaso aggiunge ai due termini agostiniani – «integritas» e «proportio», il Tutto e la proporzionata armonia delle parti – l’idea della «claritas», di ciò che irradiando trasgredisce i confini, oltrepassa le soglie. Scrive Tommaso nella Summa Teologica: [13]

    «La bellezza ha a che fare con ciò che è proprio del Figlio. Tre cose richiede infatti la bellezza. In primo luogo, l’integrità o perfezione … Quindi, la debita proporzione o armonia. E poi la luminosità … Riguardo all’integrità, essa riguarda ciò che è proprio del Figlio, in quanto il Figlio ha in sé in maniera vera e perfetta la natura del Padre … Riguardo alla proporzione, essa corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è l’immagine espressa del Padre. Di qui si desume che qualunque immagine può dirsi bella, se perfettamente ripresenta/rappresenta l’oggetto … Riguardo al chiarore, esso corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è il Verbo, luce e splendore dell’intelligenza».

    In altre parole, il Tutto si fa presente nel Figlio incarnato non solo come armonia, ma anche come trasgressione, irradiazione, rapimento, lacerazione: l’Infinito nella fragilità del fi nito, l’Eterno nel tempo, il Bene sommo nella morte di Croce. [14] L’agápe crocefissa è la rivelazione della bellezza che salva. È da qui che nasce il nome destinato a più larga fortuna nelle lingue dell’Occidente: «bello».
    Un sesto nome del bello è, appunto, bello (dal latino medioevale «bonicellum» = piccolo bene, bene abbreviato; da qui derivano i termini che nelle lingue romanze designano il nostro oggetto: «bello», «bonito», «beau», «beautiful»). La bellezza è la contrazione dell’Onnipotente nella debolezza, del divino nell’umano, della gloria nell’umiltà e nella vergogna della Croce: «Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est». [15] Il bello è l’amore che induce l’infinito Bene a consegnarsi alla morte per amore della creatura amata. Il bello è umiltà, kènosi dello splendore e proprio così paradossale splendore della kènosi. Come dice San Francesco nelle Lodi del Dio Altissimo:

    «Tu sei santo, Signore, solo Dio, che operi cose meravigliose. Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei altissimo. Tu sei re onnipotente. Tu, Padre santo, re del cielo e della terra. Tu sei trino ed uno, Signore Dio degli dei, Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero. Tu sei amore e carità, Tu sei sapienza. Tu sei umiltà … Tu sei bellezza».

    Altri nomi potrebbero essere qui evocati (ad esempio quello di «sublime», derivante da «sub limen», sospeso all’architrave della porta, al «limen» e dunque alto, elevato: amato dalla filosofi a moderna, esso è definito da Kant come ciò il cui solo pensiero dimostra «la presenza di una facoltà dell’animo nostro che trascende ogni misura sensibile». [16] Il settimo nome del bello resta, però, più propriamente custodito nel silenzio. È la bellezza oltre ogni bellezza, il silenzio di Dio oltre le tante parole degli uomini che cercano di dire l’indicibile. È la voce del silenzio che secondo il testo ebraico solo parla ad Elia sull’Oreb (1Re 19,12). La bellezza vera è sempre oltre, irraggiungibile eppure desiderata, attraente eppure nascosta, infinita eppure presente nel finito, vivente eppure donata nella morte, mortale eppure salvifica, temporale e tuttavia eterna: essa passa e puoi vederla solo di spalle. Il bello evoca, non cattura; invoca, non pretende; provoca, non sazia. È la bellezza significata nel suo contrario, la porta della bellezza, la bellezza di Dio.

    3. L’abside: la bellezza, via al mistero di Dio

    a. Il Pastore bello. I nomi della bellezza, fin qui evocati, rinviano tutti al mistero. Essi mostrano come la bellezza sia via della ricerca di Dio, spazio del suo avvento, evento del suo dono. Un duplice dato evangelico dà conferma di questo e induce a scoprire nella bellezza una via feconda per l’incontro col Dio di Gesù. Il primo dato consiste nel fatto che il Pastore, che raccoglie le pecore nell’unità del Suo gregge, è presentato
    nel Vangelo come il bel Pastore: ὁ Ποιμὴν ὁ καλός. [17] L’ora pasquale rivelerà il volto di questa bellezza nell’Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore nostro: è l’amore con cui ci ha amati che trasfigura «l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia» (Is 53,3) nel «più bello dei figli degli uomini»: il crocefisso amore è la bellezza che salva.
    Se la via del Vangelo è anzitutto quella della conversione del cuore a Cristo, allora la bellezza del Suo amore crocefisso è per eccellenza via di evangelizzazione: nel crocefisso amore i discepoli incontrano l’Amato e si lasciano raccogliere da Lui nell’unità di un solo gregge e di un solo Pastore. L’evangelizzazione trova nella bellezza della Sua carità di Crocefisso il cammino su cui avanzare, il misterioso richiamo cui sempre di nuovo corrispondere. Cristo non è solo la verità e il bene: Cristo è la bellezza che salva. Bello è conoscerlo; bello è amarlo; bello è per noi – secondo le parole di Pietro «stare qui sul monte con Te» (Mt 17,4).

    b. Le opere belle. C’è però anche un altro dato evangelico che aiuta a riconoscere nella bellezza una via del Vangelo: a notarlo è Pavel Florenskij, il «Leonardo da Vinci russo», genio della scienza e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di Cristo, morto martire della barbarie staliniana.
    Commentando Mt 5,16 – «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» – egli osserva:

    «‘I vostri atti buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico: ὑμῶν τὰ καλὰ ἔργα vuol dire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora». [18]

    Se la testimonianza è via preziosa per l’annuncio del Vangelo, essa è inseparabile dallo sfolgorio della bellezza degli atti del discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito: dove la carità si irradia, lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto.

    c. La Bellezza che salva. È lo stesso Florenskij a indicare allora la via della bellezza come luogo del misterioso incontro del tempo e dell’eternità, grazie a cui si costruisce l’unità voluta dal Signore. Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa sulla collina Makovec, rivolta verso il grande Monastero (la «Lavra») di Sergiev Possad, cuore del cristianesimo russo, così descrive la paradossale bellezza della liturgia, simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla terra e l’eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel «tempio santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste»:

    «Il Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono. Scendeva la sera. I raggi dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un inno solenne all’Eden. L’occidente impallidiva rassegnato, e verso di esso era rivolto l’altare, posto sulla sommità della collina. Una catena di nuvole si stendeva sulla Lavra come un filo di perle. Dalla finestra sopra l’altare erano visibili le nitide lontananze e la Lavra dominava come una Gerusalemme celeste. Al Vespero il canto ‘Luce di pace’ sigillava il tramonto. Il sole morente si abbassava sontuoso. Si intrecciavano e si scioglievano le melodie antiche come il mondo; si intrecciavano e si scioglievano i nastri d’incenso azzurro. La lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente, qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva trasformata misteriosamente dalla gioia del ritorno. E al canto ‘Gloria a Te che ci hai mostrato la luce’ accadeva significativamente che la tenebra esterna, pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava attraverso la finestra dell’altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non svanisce, quella gioia del crepuscolo della grotta. Il mistero della sera si univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola». [19]

    Bellezza è allora inseparabilmente visione e riposo, lacerazione e morte: bellezza è agápe. La tradizione cristiana nel suo complesso ci insegna l’inseparabilità di questi momenti, di queste anime. E lo fa alla scuola del Verbo incarnato, il Signore Gesù, dove – una volta per sempre – in pienezza il Tutto ha abitato il frammento, trapassandolo da parte a parte, verso l’abisso della divinità e verso le opere e i giorni degli uomini. Sulla fragile soglia del crocifisso Amore si scopre lo sfiorarsi d’ombre che unisce la morte alla vita, il tempo all’eterno: il Tutto rivela la fragilità del frammento, ma anche la sua ineliminabile dignità. Lo ha intuito Raïssa Maritain, in versi purissimi, radicati nelle profondità dell’esperienza mistica, non a caso intitolati Transfiguration:

    Quando t’avrò vinto o mia vita o mia morte
    Quando t’avrò vinto – amore
    E sarò fatta conforme all’amore eterno

    Come un uccello che batte le ali
    Che discioglie nel suo volo i legami della terra
    Quando t’avrò vinto ostile fascino della felicità

    E avrò conquistato la mia libertà celeste

    Quando avrò sconfitto la gioia e lo sconforto
    Quando avrò superato le vie dei desideri
    E avrò scelto il cammino più duro

    Come il cielo notturno sconfinato e puro
    Nell’armonia vera di tutte le stelle
    Sarà il mio cuore nell’armonia della grazia

    Ma ti avrò salvato – amore

    Di te avrò salvato la vita e non la morte
    E t’avrò incontrato – felicità
    Dopo aver dato al mio Signore tutto di me stessa

    Come un vascello fortunato
    Che rientra nel porto col suo carico intatto
    Approderò in cielo col cuore trasfigurato

    Recando offerte umane e senza macchia. [20]

    Tentare di pensare «questa» Bellezza – la Bellezza che salva, sperimentata nella forma più alta lì dove l’eternità mette le sue tende nel tempo –, sforzarsi di portarla al centro dell’attenzione di coloro cui sta a cuore il cammino dell’uomo e perciò il suo incontro con la buona novella di Gesù Cristo, è condizione possibile di nuovo slancio nel servizio alla causa del volerci più umani secondo il disegno di Dio, e dunque alla causa del Vangelo stesso: solo una condizione, certo, e tuttavia una sfida e una promessa feconda per tutti, per cui vale la pena di impegnarci tutti. [21]


    NOTE

    1 H.U. VON BALTHASAR, Gloria. 1: La percezione della forma, trad. it., Milano 1975, p. 10.
    2 Ibidem, p. 11.
    3 AGOSTINO, De musica, VI, 13,38.
    4 H.U. VON BALTHASAR, Il tutto nel frammento, trad. it., Milano 1972, pp. 223, 226.
    5 Cfr. Gen 1,4.10.12.18.21.25.31: «E Dio vide che ciò era buono/bello».
    6 De divinis nominibus. 4,13: PG 3,712.
    7 C. CAMPO, Sotto falso nome, a cura di M. FARNETTI, Milano 1988, pp. 179 ss.
    8 AGOSTINO, De vera religione, 18,35.
    9 Ibidem, 32,59.
    10 «Tardi Ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti amai!»; AGOSTINO, Confessiones, X, 27,38.
    11 AGOSTINO, In Io. Ep., IX,9.
    12 Due esempi letterari di questa bellezza: «Albeggiò sulla Mancia: l’aurora mi parve arrossire perché si era ricordata di quel luogo» (Miguel de Cervantes); «La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina» (Milan Kundera).
    13 I q. 39 a. 8c.
    14 È interessante notare che la «claritas» è stata interpretata come il risultato della congiunzione di «integritas» e «consonantia», e cioè come la «quidditas» della cosa, che si offre luminosa appunto nella sua forma compiuta, nella sua totalità circoscritta: così J. JOYCE, buon conoscitore della filosofia scolastica, nel romanzo autobiografico A Portait of the Artist as a Young Man (1916), London - New York 1993, dove questa spiegazione è messa in bocca all’alter-ego dell’autore, Stephen Dedalus. Questi, tuttavia, ammette di aver a lungo esitato prima di giungere a tale conclusione: in realtà, essa – sebbene comune fra gli Scolastici – ha il limite di non aggiungere nulla di nuovo alla visione agostiniana, che invece Tommaso assume e supera.
    15 «Non l’essere costretti dal più grande, ma l’essere contenuti dal più piccolo è il divino»; Elogium sepulcrale S. Ignatii, usato da Hölderlin nel 1794 in esergo al frammento di romanzo Hyperion.
    16 I. KANT, Critica del giudizio, § 25: il termine tedesco è «das Erhabene».
    17 Cfr. Gv 10,11.
    18 P. FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, trad. it., Milano 19997, p. 50.
    19 P. FLORENSKIJ, Sulla collina Makovec, in P. FLORENSKIJ, Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, trad. it., Casale Monferrato (Alessandria) 1999, pp. 260 ss.
    20 R. MARITAIN, Poesie, a cura di G. GALEAZZI, trad. it., Milano 1990, pp. 122 ss.: «Quand je t’aurai vaincu ô ma vie ô ma mort / Quand je t’aurai vaincu – amour / Et serai conformée à l’amour éternel / / Comme un oiseau battant de l’aile / Dénouant dans son vol les attaches terrestres / Quand je t’aurai défait dur attrait du bonheur / / Et que j’aurai conquis ma liberté céleste / / Quand j’aurai surmonté la joie et la détresse / Quand j’aurai survolé les sentiers des désirs / Et que j’aurai choisi le chemin le plus dur / / Comme le ciel nocturne illimité et pur / Dans l’équilibre sans défaut de tous ses astres / Sera mon coeur dans l’équilibre de la grâce / / Mais je t’aurai gardé – amour / / De toi j’aurai gardé la vie et non la mort / Et je t’aurai trouvé – bonheur / Ayant à mon Seigneur tout donné de moi-même / / Comme un navire fortuné / Qui s’en revient au port sa cargaison intacte / J’aborderai le ciel le coeur transfi guré / / Portant des offrandes humaines et sans tache».
    21 Sull’insieme delle questioni toccate in questa riflessione cfr. B. FORTE, La porta della Bellezza. Per un’estetica teologica, Brescia 20024.

    Fonte: Prolusione tenuta dall’autore il 1° febbraio 2007 a Trento, presso l’allora Istituto Trentino di Cultura, ora Fondazione Bruno Kessler, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2006-2007 del Corso Superiore di Scienze Religiose.


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