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    Dolore dell'uomo,

    dolore di Dio

    Bruno Forte   

    1. La domanda del dolore 

    Il dolore è la domanda da cui prima o poi nessuno potrà evadere. Sembra che la storia avanzi attraverso il dolore, nei conflitti di interessi, di classi, di razze, di individui e di popoli. Nel dolore tutti si trovano accomunati: «Gli uomini si distinguono gli uni dagli altri nel possesso ma sono solidali nella povertà» (J. Moltmann). Dal profondo della sofferenza del mondo, specialmente del dolore dei deboli e dei piccoli, si leva la domanda angosciosa sul senso di tutto questo e l'aspirazione alla giustizia, la cui assenza e nostalgia è il pungolo supremo della domanda: è il problema di Dio. «Si Deus iustus, unde malum?», se c'è un Dio giusto, perché il male? e se c'è il male, come potrà esserci un Dio giusto? Dalle piaghe della storia nasce così il rifiuto o l'invocazione del totalmente Altro. È quanto esprimono questi versi, al tempo stesso drammatici e nobili, del pensatore che ha fatto del “sentimento tragico della vita” la molla della sua ricerca, Miguel de Unamuno: “Perché, Signore, ci lasci soli / nel dubbio della morte? / Perché ti nascondi? / Perché hai acceso nel nostro petto / l’ansia di conoscerti, / l’ansia che tu esista, / per poi velarti ai nostri occhi? / Dove sei, mio Signore, se ci sei? / … / Che c’è al di là, Signore, di questa vita? / Se tu, Signore, esisti, / dicci perché e a che fine, diccene il senso! / Di’ il perché del tutto. / … / Vedi, Signore: sta sorgendo l’alba / e io sono stanco di lottar con te / come lo fu Giacobbe! / Dimmi il tuo nome, / il nome, la tua essenza! / Dammi conforto! Dimmi che ci sei! / … / Più non posso muovermi, mi arrendo. / Qui ti aspetto, Signore, / qui ti attendo / sulla soglia socchiusa della porta, chiusa con la tua chiave. / Ti chiamai, gridai, piansi per il dolore, / mille voci ti diedi; / ti chiamai e non mi apristi, / non apristi alla mia agonia; / qui, Signore, mi fermo, / mendicante seduto sulla soglia, / che aspetta un’elemosina; / qui ti attendo. / Tu mi aprirai la porta quando io muoia, / la porta della morte, / e allora vedrò la verità / saprò se tu ci sei / o dormirò nella tua tomba”1.

    La storia della ricerca umana ha dato alla domanda del dolore e alla sfida che essa costituisce per l’esistenza stessa di Dio risposte diverse, che possono comunque ricondursi ad alcuni modelli fondamentali. C’è stato chi, dinanzi all'inconciliabilità di Dio e del male, ha semplicemente soppresso il primo dei due termini: è la soluzione dell'ateismo tragico. «Per Dio la sola scusa è che non esiste» (Stendhal e Nietzsche).

    «Se Dio esiste, il mondo è la sua riserva di caccia» (parole di un ateo in un romanzo di L. Santucci). «Gli occhi che hanno visto Auschwitz e Hiroshima, non potranno più contemplare Dio» (Hemingway). In realtà, però, ridurre tutto a questo mondo e alle sue leggi, significa implicitamente arrendersi di fronte al problema del dolore e della morte.

    Altri hanno creduto di risolvere il conflitto attraverso la fede in un Dio che tutto regola in vista del bene, secondo disegni che la mente umana non può capire: è la soluzione di Giobbe, sorretta dalla struggente attesa di una giustizia futura: «Io lo so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero» (Gb 19,25-27). Bisogna riconoscere però che «una fede in Dio, la quale giustifichi la sofferenza e l'ingiustizia del mondo senza protestare contro di esse, è una fede disumana e produce frutti satanici» (J. Moltmann). La rassegnazione è in fondo l'abdicazione di fronte al compito di cambiare l'ingiustizia del mondo. C’è infine la sapienza dell’estremo Oriente, che ha pensato di oltrepassare i diversi gradi della domanda del dolore estinguendo progressivamente ogni desiderio, per giungere al “nirvana” dell’assoluta indifferenza. La varietà delle forme del dolore e lo spessore delle ferite che esse comportano fanno qui sentire la sua voce, insinuando il sospetto che questa pretesa di spegnere ogni sete non sia alla fine che una fuga di diverso genere, come una nobile evasione dal male che devasta la terra.

    Di fronte all'incompiutezza di queste proposte sta la fede cristiana nella salvezza offerta nel Dio crocifisso: l'Innocente che si consegna alla morte per amore è la buona novella del cristianesimo, la vera parola di salvezza che esso può dire al mondo.

    Perché? Che cosa è accaduto il Venerdì Santo per la storia del mondo? Che cosa l'Innocente che soffre dice al dolore degli innocenti? Con la discrezione e il pudore doverosi di fronte a ogni sofferenza e tanto più necessari davanti al mistero della sofferenza in Dio, dobbiamo accostarci al suo cammino verso la croce e all'ora oscura della sua morte, per cogliere qualcosa di ciò che essa rivela riguardo all'interrogativo supremo del dolore. La novità del paradosso cristiano del Vangelo del Dio crocifisso sta nell’andar oltre la duplice riduzione: non si tratta né della morte di Dio per affermare la presunta assolutezza dell’uomo, né della morte dell’uomo per celebrare un’astratta purezza della gloria di Dio. Il dolore dell’uomo e il dolore di Dio si incontrano sulla Croce in una conturbante prossimità e commistione… 

    2. La Croce, storia dell’uomo, storia di Dio 

    La vita di Gesù fu tutta orientata alla croce: le narrazioni evangeliche non sono che «storie della passione, con un'introduzione particolareggiata» (Martin Kähler). L'intera vicenda del Nazareno sta sotto il segno grave e doloroso della sofferenza: «Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio» (Imitazione di Cristo, l. II, cap. 12). La buona novella del cristianesimo è paradossalmente la storia di una passione: la passione e morte del Figlio di Dio per amore nostro, il Vangelo delle Sue sofferenze. La sua compassione per la folla (cf. ad esempio Mt 9,36; 15,32), il suo commuoversi davanti agli infelici e ai sofferenti (cf. Mc 1,41; Mt 20,34; Lc 7,13; ecc.), il suo pianto davanti alla morte dell'amico (cf. Gv 3 11,35), rivelano una sensibilità all'altrui dolore, che solo chi del dolore ha fatto esperienza è in grado di avere. Il Cristo sofferente, che comprende e ama, dà ristoro e forza a chi è oppresso dal patire: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico è leggero» (Mt 11,28-30). Abbandonato dai suoi, ritenuto un bestemmiatore dai signori della Legge e un sovversivo dal rappresentante del potere, Gesù va incontro alla morte.

    Tuttavia, se il Vangelo si fermasse qui, la sua morte sarebbe una delle tante interruzioni ingiuste della storia, dove un innocente rantola nel suo fallimento di fronte all'ingiustizia del mondo. La comunità nascente - segnata dall'esperienza pasquale - sa che non è così: per questo parla di tre misteriose “consegne” del Figlio dell'Uomo. La prima è quella che egli fa di se stesso: «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Il Figlio si consegna al Dio e Padre suo per amore nostro e al nostro posto: egli prende su di sé il carico del dolore e del peccato del mondo ed entra fino in fondo nell'esilio da Dio per assumere quest'esilio dei peccatori nella riconciliazione pasquale: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3,13s). Il grido di Gesù morente è il segno dell'abisso di dolore e di esilio che il Figlio ha voluto assumere per entrare nel più profondo della sofferenza del mondo e portarlo alla riconciliazione col Padre: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; cf. Mt 27,46).

    Alla consegna che il Figlio fa di sé, corrisponde la consegna del Padre: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32). È in questa consegna che il Padre fa del proprio Figlio per noi, che si rivela la profondità del suo amore per gli uomini: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10; cf. Rm 5,6-11). La croce rivela che «Dio (il Padre) è amore» (1 Gv 4,8-16)! La Sua sofferenza non è che l'altro nome del suo amore infinito: la suprema, dolorosa consegna è, nel Figlio, come nel Padre, il segno del supremo amore che cambia la storia: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Diversamente dalla mentalità greco-occidentale, che non sa concepire altro che una sofferenza passiva, subita e dunque imperfetta, e perciò postula l'impassibilità di Dio, il Dio cristiano rivela un dolore attivo, liberamente scelto, perfetto della perfezione dell'amore.

    Il Venerdì Santo, giorno della consegna che il Figlio fa di sé al Padre e che il Padre fa del Figlio alla morte per i peccatori, è, infine, il giorno in cui lo Spirito è 4 consegnato dal Figlio al Padre, perché il Crocifisso resti abbandonato, nella lontananza da Dio, nella compagnia con i peccatori. È l'ora della morte in Dio, dell'abbandono del Figlio da parte del Padre nella loro pur sempre più grande comunione di eterno amore, evento che si consuma nella consegna dello Spirito Santo al Padre, e che rende possibile il supremo esilio del Figlio nell'alterità del mondo, il suo divenire «maledizione» nella terra dei maledetti da Dio, perché questi insieme con lui possano entrare nella gioia della riconciliazione pasquale. Se lo Spirito non si lasciasse consegnare nel silenzio della morte, con tutto l'abbandono che essa porta con sé, l'ora delle tenebre potrebbe essere equivocata come quella di una oscura morte di Dio, dell'incomprensibile spegnersi dell'Assoluto, e non verrebbe rivelata, come è, come l'atto che si svolge in Dio, l'evento della storia dell'amore del Dio immortale, per il quale il Figlio entra nel più profondo dell'alterità dal Padre in obbedienza a Lui, lì dove incontra i peccatori. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21; cf. Rm 8,3). 

    3. Dove Dio fa suo il dolore dell’uomo e l’uomo può far suo l’amore di Dio 

    La croce è dunque il luogo in cui Dio parla nel silenzio: quel silenzio della sofferenza umana, che è diventata per amore la sua sofferenza! Il mistero nascosto nelle tenebre della croce è il mistero del dolore di Dio e del suo amore. L'un aspetto esige l'altro: il Dio cristiano soffre perché ama, ed ama in quanto soffre. Egli è il Dio «compassionato», perché è il Dio per noi, che si dona fino al punto di uscire totalmente da sé, nell'alienazione della morte, per accoglierci pienamente in sé, nella donazione della vita. Nella morte di croce il Figlio è entrato nella «fine» dell'uomo, nell'abisso della sua povertà, della sua tristezza, della sua solitudine, della sua oscurità. E soltanto lì, bevendo l'amaro calice, ha fatto fino in fondo l'esperienza della nostra condizione umana: alla scuola del dolore è diventato uomo fino alla possibilità estrema. Ma anche il Padre ha conosciuto il dolore: nell'ora della croce, mentre il Figlio si offriva in incondizionata obbedienza a lui e in infinita solidarietà con i peccatori, anche il Padre ha fatto storia! Egli ha sofferto dell'Innocente consegnato ingiustamente alla morte: e tuttavia ha scelto di offrirlo, perché nell'umiltà e nell'ignominia della croce si rivelasse agli uomini l'amore trinitario di Dio per loro e la possibilità di divenirne partecipi.

    Lo Spirito, «consegnato» da Gesù morente al Padre suo, non è stato meno presente nel nascondimento di quell'ora: Spirito dell'estremo silenzio, egli è stato lo spazio divino della lacerazione dolorosa e amante, che si è consumata fra il Signore del cielo e della terra e Colui che si è fatto peccato per noi, in modo che un varco si aprisse nell'abisso e ai poveri si schiudesse la via del Povero. Questa morte in Dio non significa però la morte di Dio che il «folle» di Nietzsche va gridando sulle piazze del mondo: non esiste né mai esisterà un tempio dove si possa cantare nella verità il «Requiem aeternam Deo»! L'amore trinitario che lega l'Abbandonante all'Abbandonato, e in questi al mondo, vincerà la morte, nonostante l'apparente trionfo 5 di questa. La sorprendente identità del Crocifisso e del Risorto mostra apertamente quanto sulla croce è rivelato «sub contrario» e garantisce che quella fine è un nuovo inizio: il calice della passione di Dio si è colmato di una bevanda di vita, che sgorga e zampilla in eterno (cf. Gv 7,37-39). Adamo è morto, è nato il nuovo Adamo, Cristo e l'uomo che, con lui ed in lui, vince il peccato e la morte. Dio è morto, ma si è offerto a tutti gli uomini il mistero del Padre, che, accogliendo l'Abbandonato nell'ora della gloria, accoglie anche loro con lui. Il frutto dell'albero amaro della croce è la gioiosa notizia di Pasqua: il giorno in cui Dio è morto cede il posto al giorno del Dio che vive.

    Il Consolatore del Crocifisso viene effuso su ogni carne per essere il Consolatore di tutti i crocefissi della storia e per rivelare nell'umiltà e nell'ignominia della croce, di tutte le croci della storia, la presenza corroborante e trasformante del Dio cristiano. La «parola della croce» (1 Cor 1,18) dimostra che è nella povertà, nella debolezza, del dolore e nella riprovazione del mondo, che troveremo Dio: non gli splendori delle perfezioni terrene, ma proprio il loro contrario, la piccolezza e l'ignominia, diventano il luogo della Sua presenza fra noi, il deserto dove Egli parla al nostro cuore. La perfezione del Dio cristiano si manifesta nelle imperfezioni, che per amore nostro egli assume: la finitudine del patire, la lacerazione del morire, la debolezza della povertà, la fatica e l'oscurità del domani, sono altrettanti luoghi, dove egli mostra il suo amore, perfetto fino alla consumazione totale del dono. È in queste imperfezioni che risuona nello Spirito la parola che sigilla l'evento della croce: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30).

    Nella vita di ogni uomo può ormai essere riconosciuta la croce del Dio trinitario: nel soffrire diventa possibile aprirsi al Dio presente, che si offre con noi e per noi, e trasformare il dolore in amore, il soffrire in offrire. Un’antica preghiera, proveniente dal Medio Evo francese, legge nel volto del Crocifisso la rivelazione dell’infinito amore, della bellezza che salva e che ci rende possibile di trasformare il dolore in offerta: “Gesù Crocifisso! / Sempre Ti porto con me, a tutto Ti preferisco. / Quando cado, Tu mi risollevi. / Quando piango, Tu mi consoli. / Quando soffro, Tu mi guarisci. / Quando Ti chiamo, Tu mi rispondi. / Tu sei la luce che mi illumina, / il sole che mi scalda, l’alimento che mi nutre, / la fonte che mi disseta, la dolcezza che m’inebria, / il balsamo che mi ristora, la bellezza che m’incanta. / Gesù Crocifisso! Sii Tu mia difesa in vita, / mio conforto e fiducia nella mia agonia. / E riposa sul mio cuore / quando sarà la mia ultima ora. Amen!”.

    È lo Spirito del Crocifisso a operare il miracolo di questa rivelazione salvifica: egli è il Consolatore della passione del mondo, Colui che vive con noi e in noi le agonie della vita, facendo presente nel nostro patire il patire del Figlio e del Padre, e perciò aprendovi un'aurora di vita, rivelazione e dono del mistero di Dio. Lo Spirito ci rende capaci di vivere e offrire il dolore per amore: grazie a questa misteriosa presenza del Consolatore divino il dolore può assumere un valore infinito. «Ogni bimbo che soffre - giunge a scrivere don Gnocchi, l’apostolo e padre dei “mutilatini”, i bimbi segnati dalle ferite indelebili della violenza della guerra - è dunque come una piccola reliquia preziosa della redenzione cristiana, che si attua e si rinnova nel tempo, ad 6 espiazione dei peccati di tutti i giorni, degna di essere onorata e quasi venerata»2.

    Preceduti da Cristo nell'abisso della prova, attraverso cui si apre la via della vita, confortati da dono dello Spirito, i credenti potranno ormai vivere nel segno della croce, vissuta e offerta per amore, le opere e i giorni del loro cammino: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35 e par.). «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,38 e Lc 14,27).

    Il discepolo dovrà «completare quello che manca nella sua carne ai patimenti del Cristo» (Col 1,24), e lo farà se accetterà di portare la più pesante di tutte le croci, la croce del presente, a cui il Padre lo chiama, credendo anche senza vedere, lottando e sperando, anche senza avvertire la germinazione dei frutti, nella solidarietà a tutti coloro che soffrono (cf. 1 Cor 15,26), nella comunione a Cristo, compagno e sostegno del patire umano, e nell'oblazione al Padre, che valorizza ogni nostro dolore. Questa croce del presente è il travaglio della fedeltà, fatta di lotta interiore e delle agonie silenziose dei momenti di prova, di solitudine e di dubbio, sostenuta dalla preghiera perseverante e tenace di una povertà che aspetta la misericordia del Padre: la stessa «via crucis» della fedeltà di Gesù, con la differenza che egli fu solo a percorrerla, mentre noi siamo preceduti e accompagnati da lui. Il Crocefisso peraltro non ha esitato a identificarsi con tutti i crocefissi della storia: «Avevo fame e mi deste da mangiare; avevo sete e mi deste da bere; ero forestiero e mi ospitaste; nudo e mi vestiste, malato e mi visitaste, carcerato e veniste a trovarmi... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,35-36.40).

    Chi ama il Crocefisso e lo segue, non può non sentirsi chiamato a lenire le croci di tutti coloro che soffrono e ad abbatterne le cause inique con la parola e con la vita.

    La croce della liberazione dal peccato e dalla morte esige la liberazione da tutte le croci, frutto di morte e di peccato: l'«imitatio Christi crucifixi» non potrà mai essere accettazione passiva del male presente! Essa si consumerà, al contrario, nell'attiva dedizione alla causa del Regno che viene, che è anche impegno operoso e vigilante per fare del Calvario della terra un luogo di resurrezione, di giustizia e di vita piena. Al discepolo, schiacciato sotto il peso della croce o spaventato di fronte alle esigenze della sequela, è rivolta la parola della promessa, dischiusa nella resurrezione, contraddizione di tutte le croci della storia: parola di consolazione e di impegno, che ha sostenuto già la vita, il dolore e la morte di tutti quanti ci hanno preceduto nel combattimento della fede. «Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2 Cor 1,5).

    In chi si sforza di vivere così, la croce di Cristo non è stata resa vana (cf. 1 Cor 1,17). «Il dolore - scrive ancora don Gnocchi - non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri»: esso «ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti»3. E aggiunge: «Quando un bambino sarà riuscito a comprendere la somiglianza che esiste tra il suo dolore e quello di Cristo, la preziosità che egli può conferire ad ogni sua sofferenza, per sé e per gli altri, inserendola in quella di Cristo, il dovere che egli ha di imitare il comportamento e i sentimenti di Gesù nei momenti del dolore, avrà toccato il centro più profondo e più inesplorato, il più originale ed operante di tutto il cristianesimo» (ib., 46). Sarà in Dio, nascosto con Cristo nel cuore del Padre, e vi porterà con sé il mondo intero, perché Dio risplenda nel mondo e vi stabilisca per tutti la Sua grazia e la Sua pace. L’amore donato dall’alto, anche attraverso l’umiltà di relazioni umane autentiche, è dunque la forza capace di trasformare il dolore dell’uomo nel dolore salvifico di Dio e di aprirlo alla finale vittoria del Risorto, che risplende nei cuori abitati dal Suo Spirito e capaci di anticipare nella notte del tempo, perfino nel gemito e nel pianto, qualcosa della bellezza del domani promesso.

    Esprimono questa idea della relazione d’amore con Dio e col prossimo, che il Figlio abbandonato ci rende capaci di vivere come unità di vita e di morte a favore della vita, questi bellissimi versi di Elena Bono, intitolati Quando tu mi hai ferita?: “Quando tu mi hai ferita? / Forse ero ancora nel seno di mia madre / o forse solo nei tuoi pensieri. / Tu mi amasti da sempre. / Io non ho che un piccolo tempo da darti / ed un piccolo amore. / Ma mi perdo nel tuo, / questo mare che brucia / e di sé si alimenta. / Allorché mi feristi / io non sapevo / quanto il tuo amore facesse male. / Ed è questo che vuoi, / soltanto questo in cambio dell’infinito amore: / che io soffra l’amor tuo, / che me lo porti come piaga profonda / e non la curi”4.

    Una conclusione in forma di testimonianza Una testimonianza di vita vissuta a testa alta nel tempo della prova più grande potrà mostrare la concretezza esistenziale di quanto detto fin qui. Etty Hillesum era una giovane donna ebrea, nata in Olanda il 15 Gennaio 1914. La sua vita fu breve e intensa: laureatasi in giurisprudenza ad Amsterdam, si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave e si interessò della psicologia analitica junghiana. La guerra interruppe i suoi studi. Fu una donna vivace, intelligente, dai molteplici interessi. Visse con intensità e passione alcuni legami amorosi. Nel 1942, quando lavorava come segretaria presso una sezione del Consiglio Ebraico, le fu offerta la possibilità di mettersi in salvo, fuggendo in America. Scelse di restare, per condividere la sorte del suo popolo, quel popolo ebraico che la barbarie nazionalsocialista aveva deciso di sterminare. Lavorò nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale. Il 7 settembre 1943 Etty Hillesum fu deportata con i suoi cari ad Auschwitz. Vi morì poco tempo dopo, uccisa dal gas, il corpo divorato dalle fiamme, il 30 Novembre 1943. Aveva ventinove anni. Di lei ci restano le pagine straordinarie del Diario (pubblicato solo nel 1981, in italiano nel 1985 da Adelphi) e delle Lettere (Adelphi 1990). Nel cuore della tragedia, che aveva visto il momentaneo trionfo del “male assoluto”, al centro del “secolo breve”, che è stato il XX secolo, in un tempo schiacciato dal peso di una follia collettiva senza pari, alimentata da un’ideologia assurda di violenza e di morte, Etty portò avanti la sua appassionata ricerca spirituale. Lesse la Bibbia ebraica, in particolare i Salmi. Scoprì e meditò con intensità il Nuovo Testamento, in particolare il Vangelo di Matteo e l’apostolo Paolo, e autori cristiani, tra cui specialmente Agostino. Nel dramma che viveva il suo popolo e l’intera umanità, seppe essere un “cuore pensante”. Proprio così, mi sembra che il messaggio della Hillesum sia oggi più vivo che mai. La sua è stata una vera, straordinaria forma di resistenza, radicata nell’incontro con Dio, capace di contagiare forza e speranza a chi soffra, anche nelle situazioni più gravi di dolore personale e collettivo.

    La lettura di un brano del suo Diario potrà dare luce su come Etty ha vissuto la sofferenza sua e del suo popolo. È la preghiera, scritta la Domenica mattina 12 Luglio 1942, con la cui lettura concludo queste riflessioni: “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento - invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo.

    Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio”5. 

    NOTE 

    1 Miguel de Unamuno, Salmo I (Ex 33,20).
    2 Pedagogia del dolore innocente (1956), Daverio, Milano 1987, 27.
    3 Ib., 43.
    4 I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77.
    5 Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 20004, 169s.

    (Conferenza promossa dalla Società Filosofica Italiana per Docenti e Studenti, Francavilla al Mare, 15 Gennaio 2014)  


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