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    Ascolta, teologo,

    le nostre domande

    Gianfranco Ravasi


    Il nostro supplemento domenicale è l’unico in Italia a riservare una sezione fissa a testi e a temi religiosi, considerati come rilevanti nel panorama della cultura e della società. Lo sono perché alle spalle la fede cristiana è stata il grande codice dell’arte, del pensiero e dell’etica occidentale e lo è anche nell’oggi secolarizzato che sente la religione come una spina nel fianco il cui effetto è ambivalente. Da un lato, è una feritoia aperta oltre la superficie della realtà e la nebbia dell’indifferenza e dei discorsi “di pancia” verso la trascendenza, la ricerca di senso, il sussulto morale. D’altro lato, però, è una ferita sanguinante inflitta dal fondamentalismo religioso che scambia Dio con l’idolo della “lettera che uccide” e dell’integralismo cieco, chiuso nella sua autoreferenzialità acritica.

    L’ormai trentennale presenza in queste pagine mi spinge a redigere non certo un bilancio (che pure, prima o poi, vorrei elaborare) ma a proporre un asterisco schematico e incompleto di riflessioni, basandomi sulla corrispondenza costante che i lettori mi destinano. In questo orizzonte epistolare ci sono innanzitutto ripetute interpellanze radicali nelle quali prevalgono le questioni ermeneutiche, ma non nel senso dell’interpretazione delle Scritture e delle verità di fede (dato pur presente in modo significativo, naturalmente con proposte spesso sorprendenti per acutezza o per stravaganza).
    Intendo, invece, riferirmi alle interrogazioni sulla genesi del credere e del suo fondamento.
    È ciò che sta alla base di una branca della ricerca teologica, quella denominata un tempo come “apologetica” e ora, più correttamente come “fondamentale”. Molti ricalcano la prospettiva freudiana del saggio Comportamenti ossessivi e pratiche religiose (1907) o delle Nuove lezioni introduttive alla psicanalisi (1933 ) in cui «la religione è un’illusione e deriva la sua forza dal fatto che corrisponde ai nostri desideri istintuali» e, in questa linea, Freud si arrischia (è il verbo da lui usato) «a considerare la nevrosi ossessiva come un equivalente patologico della pratica religiosa, e a vedere la nevrosi come una religione individuale e la religione come una nevrosi ossessiva universale».
    Normalmente i miei lettori sono più cauti e considerano l’ambito religioso come una parte alta e nobile della soggettività umana, analoga all’arte, capace di adottare ma anche di trascendere la razionalità, avviandosi sul percorso dell’intuizione. Resta, comunque, l’affermazione di una sostanziale “soggettività” del concetto di Dio. In pratica è quello che Feuerbach in modo lapidario definiva così nella sua Essenza del cristianesimo (1841): «Dio è l’ottativo del cuore umano divenuto presente, beata certezza è la spregiudicata onnipotenza del sentimento, la preghiera che si esaudisce, il sentimento che ascolta se stesso».
    Un altro settore dell’orizzonte a cui accennavo è rappresentato da coloro che non si interrogano sull’esistenza o meno di Dio, ma su quale Dio. Fermo restando che l’ateo coerente e fin drammatico alla maniera dell’aforisma 125 della Gaia scienza nietzscheana (1882) con la sua proclamazione del «Dio è morto» è ormai merce rara, sopraffatto dall’indifferentismo metafisico e dal relativismo etico per il quale Dio non è negato né osteggiato ma semplicemente ignorato, ci si interroga sull’autentica identità di Dio, in un contesto di politeismo socio-culturale. Non pochi, a questo punto, optano per una radicalizzazione della dottrina basica del cristianesimo, cioè l’Incarnazione, che comprende anche la kénosis – per usare il celebre termine paolino (Filippesi 2,7-8) – e quindi la discesa del divino nella carne del processo storico, sciogliendo una trascendenza isolata e aliena.
    Ecco, allora, l’impegno a lasciare alle spalle l’incenso della Chiesa e ad aprirsi al Dio vivente nel prossimo, nell’esistenza, nel movimento della storia. L’Incarnazione, così concepita, corre però il rischio di ridursi a immanenza mondano-salvifica, amputando progressivamente ogni rimando alla grazia, al trascendente, al mistero, al Regno di Dio che è, sì, «in mezzo a noi» ma che anche è oltre noi. Tuttavia, positivo è l’accento sulla carità evangelica, così come il pungolo a purificare certe immagini solo metafisiche e “apatiche” di un Dio «motore immobile» e a superare un teismo troppo razionalistico.
    Si apre qui anche il capitolo del linguaggio su Dio che alcuni lettori pongono in modo molto critico nei confronti dell’“ecclesialese”. È un’esigenza cresciuta in grado esponenziale con le nuove grammatiche informatiche che spettinano le ordinate argomentazioni teologiche, le codificate regole dell’eloquenza sacra, i grappoli delle subordinate sillogistiche e così via. In questo è significativo il magistero di Francesco che procede per frasi coordinate ed essenziali e attraverso simboli e immagini. Questo discorso è sempre più messo sul tappeto soprattutto dal fenomeno della fuga dei giovani dagli spazi ecclesiali.
    Un altro settore di questa mappa semplificata delle reazioni dei lettori riguarda un fenomeno che sorprende spesso i teologi, ed è ciò che si ripete anche nella mia esperienza di pubblicista. È giusto e scontato che siano avanzati quesiti di taglio etico-sociale come quelli sulla bioetica, sulla genetica, sul gender, sulla morale sessuale, sul transumanesimo, sulle varie tipologie di fecondazione, sull’intelligenza artificiale e così via. Ma di gran lunga superiori alle questioni maggiori e ultime che la religione sollecita sono le domande che noi consideriamo secondarie o marginali o, al massimo, “penultime”. Esse, suscitano, invece, un interesse impressionante: vanno dalla figura del diavolo agli extraterrestri, dalle curiosità sull’oltrevita alla reincarnazione, dalle apparizioni mariane allo spiritismo e al paranormale, da fantasiose interpretazioni bibliche agli sconcertanti concordismi tra scienza e fede... In realtà, anche questi interrogativi sono utili a riportare il teologo nel crocevia concreto delle attese umane e a insegnargli l’umiltà dell’ascolto, uscendo dall’atelier asettico della ricerca e a renderlo consapevole che ci sono anche per lui domande senza risposta.

    (“Il Sole 24 Ore” - 13 gennaio 2019)


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