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    «È tempo di

    far vivere la fede»

    Intervista a Rémi Brague

    a cura di Daniele Zappalà


    «Non accetto facilmente le nozioni di 'tre religioni monoteiste' e di 'tre religioni del Libro'. Non è allo stesso modo che le tre religioni comprendono che Dio è unico. E il loro rapporto con il Libro è pure molto diverso. Amo invece la parola ormai tanto vituperata, perché mal compresa, di 'dogma'».

    Il celebre filosofo francese Rémi Brague conduce da anni un lavoro di elucidazione sui fondamenti del fatto religioso, come nel suo ultimo saggio intitolato, in modo molto classico, Sur la Religion (Flammarion). Per il filosofo, la dimensione dogmatica non potrà mai perdere la sua centralità, «perché costruisce un oggetto della fede dai contorni ben definiti, proponendolo alla ragione e alla libertà, non all’affettività, al sentimento che, in fondo, crede molto meno in Dio che alla propria esperienza soggettiva».

    Perché ha scritto un’opera sulla religione in generale?
    Per via di un certo fastidio davanti al modo in cui s’impiega, come qualcosa di banale, questo termine straordinariamente ambiguo. Molti dicono 'le religioni' mettendole tutte nello stesso paniere, anzi spesso nella stessa pattumiera. Ho scelto un titolo piano perché volevo riconsiderare in modo pieno questa nozione, ponendo domande semplici: da dove proviene la parola e il suo uso? Appartiene al passato, o invece siamo di fronte all’apparizione continua di nuovi idoli, ancor più sanguinari di tutti quelli di un tempo? Quali relazioni intrattengono le religioni con il diritto, la politica, la violenza?

    Le sue tesi sulle radici anche cristiane dell’Europa, esposte più di un quarto di secolo fa, vengono oggi accolte più favorevolmente anche fuori dal mondo cattolico e cristiano. È un altro piccolo segno di una riflessione che, in un modo o nell’altro, avanza nei Paesi europei?
    Quelle tesi mi permisero di uscire dal microcosmo accademico. Sono felice di aiutare a riflettere sul significato dell’Europa, la quale è molto più antica e profonda rispetto all’Unione europea.
    L’Europa attinge a fonti culturali (preferisco questa metafora a quella di 'radici') che sono dei tesori.
    Sarebbe stupido smettere di appropriarsene. Continuiamo ancora a vivere grazie a queste fonti.

    Nella nostra epoca segnata da preoccupazioni ecologiche, le religioni restano il fondamento più saldo per legittimare il nostro appello a esistere rivolto alle generazioni future?
    Non ne vedo davvero altri. Quelli che parlano di 'trascendenza orizzontale' e ci servono una versione precotta del vecchio mito del progresso non sanno ciò che dicono. L’avvenire, le generazioni future, dipendono dalla nostra volontà. Come potrebbe trascenderci ciò che dipende da noi? Le generazioni future esisteranno se decidiamo ora di chiamarle all’esistenza. Ma non possiamo certamente chiedere la loro opinione. E non possiamo essere del tutto sicuri che saranno felici. Abbiamo il diritto di farle nascere solo se la vita è un bene, un bene forte e in sé. Come affermarlo se non crediamo che tutto ciò che esiste è stato creato da un Dio benevolo?

    In Francia e non solo, gli ambienti laicisti agitano spesso lo spettro delle guerre di religione. Queste critiche e paure hanno un fondamento concreto nell’Europa di oggi?
    La Francia è un Paese che, dopo due secoli di relativa pace civile, punteggiata da rivolte rurali, ha assaporato il sangue durante la Rivoluzione e non ne ha perduto il gusto. Lo si è visto con la Comune e la sua repressione, con la Resistenza seguita dalle 'epurazioni' del dopoguerra. C’è una certa ironia nel fatto che i sostenitori di una 'laicità militante', dunque guerriera, vogliano mettere in imbarazzo i credenti rievocando le violenze passate. Del resto, queste sono imputate alla religione, dimenticando il contesto che ha avvelenato le differenze religiose, cioè la nascita dello Stato moderno e la sua politica secolarizzata, alla Machiavelli o alla Hobbes.

    A proposito della presenza demograficamente considerevole dei credenti musulmani nelle società europee, quali sono le domande più urgenti che i poteri pubblici dovrebbero porsi?
    Innanzitutto, chiedersi se il dinamismo demografico dei musulmani non sia un atteggiamento sano, e il nostro rifiuto della vita, invece, una sorta di malattia. È il vuoto delle nostre società un tempo cristiane che attira dei supplenti. In Francia, un organismo statale come l’Ined, Istituto nazionale di studi demografici, è stato fondato nel 1945 per promuovere politiche d’incoraggiamento alla natalità. Oggi, sostiene la necessità dell’immigrazione. Un interrogativo salutare consiste nel chiedersi fino a che punto le persone provenienti da Paesi sottomessi all’islam vorranno accettare le regole in vigore nei nostri Paesi, che non lo sono. Ma occorre porre queste domande chiaramente e cessare di promuovere misure dette 'di portata sociale', come le nozze gay, l’aborto, l’eutanasia, l’utero in affitto, che scioccano i musulmani. E che li spingono nelle braccia di coloro che, nel mondo musulmano, sostengono che l’Occidente è marcio e che basterà attendere che caschi da solo.

    Il filosofo Jean-Luc Marion ha pubblicato di recente una 'breve apologia' del cattolicesimo. Quest’ultimo ha bisogno oggi di apologie? E chi dovrà occuparsene?
    Con la parola 'apologia', il mio vecchio amico Jean-Luc vuole riallacciarsi alla seconda generazione dei Padri della Chiesa. Si trattava allora di rispondere alle calunnie con cui il potere romano cercava di giustificare le persecuzioni. Adesso, almeno in Europa, le persecuzioni non sono violente.
    Altrove, lo sono, anche se non si vuole molto parlarne. Da noi, sono per il momento ancora soft.
    Agiscono indirettamente. Con la derisione e il sogghigno. Col silenzio e il rifiuto di diffondere ciò che diciamo. Col rifiuto di affidare un posto a qualcuno che sarà percepito come 'troppo cattolico', cosicché occorrerà essere bravi il doppio degli altri per ottenerlo. Detto questo, noi non difendiamo i cattolici, ma la fede cattolica, e non è lo stesso. Chi dovrebbe farlo? Ma chiunque lo vorrà! Che si parli, si scriva, nel modo più intelligente e convincente possibile. Sapere poi se saremo ascoltati è evidentemente un’altra questione.

    (Avvenire - 2 gennaio 2018)


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