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    Shalom, ovvero il tramonto

    dell'idea di guerra giusta

    Alessandro Andreini

     


    Sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, dove si combatterono ferocemente popoli dalle antichissime e radicate tradizioni cristiane, insieme a un'intera generazione di giovani europei fu definitivamente e provvidenzialmente spazzata via anche l'idea di guerra giusta: una presa di coscienza che risuona particolarmente in un tempo in cui l'Europa è nuovamente ferita da una devastante guerra fratricida.

    Karl Barth e il Manifesto dei Novantatré

    Vigilia di Natale 1914: gli eserciti, inglese e francese da un lato, tedesco dall'altro, sono schierati gli uni davanti all'altro nelle trincee della prima guerra mondiale. L'alto comando tedesco ha dato un ordine che suona davvero improprio per i comandanti al fronte: distribuire migliaia di piccoli alberi di Natale da collocare lungo la linea di difesa. Come racconta il commovente film di Christian Carion, Joyeux Noél. Una verità dimenticata dalla storia (Francia, Germania, Regno Unito, Belgio, Romania 2005), quel segno non fa altro che rafforzare la coscienza dei soldati schierati e incoraggiarli a rifiutare di combattere proprio il giorno di Natale: in molte zone del fronte, nella "terra di nessuno", i comandanti locali si incontrano e stabiliscono delle tregue che permettono ai soldati non solo di deporre per un giorno le armi, ma addirittura, in vari casi, di fraternizzare con il nemico, di cantare insieme i tradizionali canti natalizi, di giocare a calcio e perfino di celebrare insieme un rito di Natale. In fondo, quei giovani soldati sono tutti cristiani! E senza tacere che, riprese ben presto le ostilità, essi verranno seriamente puniti quando, grazie alla censura che legge con attenzione la corrispondenza dal fronte, nei rispettivi quartieri generali si verrà a sapere dell'entità dell'evento: non solo, ma ci si premunirà con molto impegno affinché i Natali successivi – se ne vivranno ancora tre nel corso del conflitto – siano giorni di guerra come tutti gli altri.
    Nondimeno, se il legame tra fede cristiana e amor patrio aveva potuto scricchiolare già in tempi più antichi – si pensi alla presa di distanza, per altro fortemente criticata dalla retorica risorgimentale, di papa Pio IX dalla prima guerra per l'indipendenza italiana nel 1848 –, è senza dubbio con la prima guerra mondiale – e particolarmente con il suo lunghissimo e sanguinoso protrarsi, costato la vita quasi a una generazione di giovani europei di tutti gli schieramenti – che la cosiddetta "guerra giusta emerge alla coscienza comune in tutta la sua assurdità. È celebre, in proposito, la presa di posizione del teologo svizzero Karl Barth nei confronti del Manifesto dei Novantatré, la lettera aperta a sostegno della politica di aggressione del kaiser Wilhelm II, sottoscritta da tutta l'intellighenzia tedesca – anche teologica – del suo tempo. Così Barth ricordava quel giorno ancora quaranta anni dopo: «Personalmente mi è rimasto impresso un giorno, al principio di agosto di quell'anno [1914], come il dies ater [il triste giorno], giorno in cui 93 intellettuali tedeschi presero posizione pubblicamente con un atto di fiducia nella politica di guerra dell'imperatore Guglielmo II e del suo consigliere, tra i quali, con mio terrore e sorpresa, dovetti scorgere anche i nomi di quasi tutti i maestri di teologia, fino a quel momento oggetto di venerazione e di fiducia. Con l'animo in preda alla confusione per il loro ethos, io mi accorsi che anche la loro etica e la loro dogmatica, la loro esegesi biblica e la loro interpretazione della storia non le potevo più seguire. Notai che a ogni modo, per me, la teologia del XIX secolo non aveva alcuna possibilità di sviluppo nel futuro».
    Si trattava di un manifesto che fu diffuso nei paesi neutrali e distribuito alla stampa tedesca, per smentire le responsabilità della Germania nella guerra e particolarmente nell'invasione del Belgio, il cosiddetto "stupro del Belgio". L'appello, ogni paragrafo del quale iniziava con le parole Es ist nicht wahr («Non è vero»), risultò essere una negazione esagerata, anche di fatti ormai già ammessi dal governo tedesco, e quindi non giovò all'immagine della Germania e dei firmatari. Essi vi protestavano contro «le bugie e le calunnie con cui i nostri nemici cercano di infangare la pura causa della Germania nella dura lotta per la vita e la morte che le viene imposta». Si aggiungeva inoltre che la Germania era una nazione colta, erede di Goethe, Beethoven e Kant. Successivamente, il grande fisico Max Planck, uno dei sottoscrittori, insieme, fra gli altri, al teologo Adolf von Harnack, si rammaricò di averlo firmato. E probabilmente non fu il solo.
    Per Barth il punto è chiaro: la teologia non poteva più continuare a parlare di Dio così come finora aveva fatto. È quello che affermava già in un sermone del 23 agosto 1914: «Dov'è rimasta la forza dell'evangelo? Perché essa non si è destata in migliaia di persone, in modo da rendere impossibili questi orrori? Come si è potuto arrivare al punto che oggi, duemila anni dopo Cristo, questi cosiddetti popoli cristiani, che dovrebbero essere la luce del mondo, si contrappongono l'un l'altro con l'unica preoccupazione di nuocersi reciprocamente e possibilmente di annientarsi [...], e tra questi un popolo che annovera tanti pensatori così seri e profondi come quello tedesco e un popolo dai costumi così severi [...] come quello inglese?» (Barth Predigten 1914, 436).
    Per avere un'idea della retorica che circolava, e della quale il film di Carion ci ha offerto un'ottima sintesi, basta rileggere le parole dello scrittore e saggista austriaco Hermann Bahr che interpretava la vastissima mobilitazione con la quale gran parte della popolazione tedesca rispose ai venti di guerra del 1914 addirittura come un segno dello Spirito: «Non c'è nessuno che sia stato testimone di questi avvenimenti che possa dimenticarli, anche se passassero cent'anni. Non avevamo mai fatto esperienza di qualcosa di così grande, né sapevamo che saremo andati incontro a qualcosa del genere, non saremmo mai stati in grado di immaginarlo. Quest'esperienza di una mobilitazione generale la porteremo con noi fino alla tomba: perché ci è parsa finalmente in modo chiaro l'essenza tedesca. Ci siamo riconosciuti l'un l'altro per la prima volta. Riconosciamo quello che siamo; ci siamo riappropriati di tutt'altri ideali e sentimenti rispetto a quelli che avevamo prima; ciò che ancora sentivamo e pensavamo prima della guerra, tutto in una volta non lo comprendiamo più; la notte si dilegua, il giorno fa la sua comparsa, l'essenza tedesca ci è finalmente apparsa!» (H. Bahr, Ideen von 1914, «Hochland», 14, 1916, 431-438).

    Un inaspettato patriota e la sua conversione

    Hermann Bahr non era certo il solo a inneggiare alla guerra anche da un punto di vista cristiano. In modo per molti aspetti analogo si esprimeva un giovane pastore luterano berlinese in una conferenza sull'etica cristiana rivolta ai tedeschi residenti a Barcellona, in Spagna, 1'8 febbraio 1929, evidentemente sollecitando il loro spiccato nazionalismo cui egli pare associarsi senza particolari perplessità. L'argomentazione è piuttosto ampia. Essa si sofferma in primo luogo su una guerra difensiva, di risposta a un'aggressione subita, riguardo alla quale l'obbligo della tutela dei propri familiari viene prima rispetto all'amore del nemico richiesto da Cristo. È una guerra di aggressione che resta più difficile da giustificare. Eppure, il giovane pastore vi si avventura con una certa baldanza non priva, a dire la verità, di retorica: «Ci si chiede se sul piano etico-cristiano la guerra sia giustificabile anche là dove siamo noi a iniziarla. Ma questo riporta a un problema più vasto: alla questione del rapporto tra storia e Dio, tra popolo e Dio, tra sviluppo e Dio. [...] Ogni popolo ha in sé una chiamata di Dio a dare forma alla storia, a entrare nella vita dei popoli lottando. [...] Dio chiama il popolo a cose diverse, al combattimento e alla vittoria. Anche la forza è da Dio, e così la potenza della vittoria, poiché Dio crea la giovinezza nell'uomo e nel popolo, e ama la giovinezza, poiché Dio stesso è eternamente giovane e forte e vittorioso. [...] Orbene, un popolo che sperimentala chiamata di Dio nella sua vita, nella sua giovinezza e nella sua forza, un tale popolo non dovrebbe poter rispondere a questo appello anche passando sopra la vita di altri popoli? Dio è il Signore della storia, e se un popolo si piega umilmente a questo santo volere che guida la storia, allora con Dio nella sua giovinezza e forza può vincere quanto è debole e privo di coraggio; allora Dio sarà con lui» (D. Bonhoeffer, Scritti scelti 1918-1933: le opere di Bonhoeffer sono citate dall'edizione critica, indicata per brevità con la sigla ODB, seguita dal numero del volume e la pagina: ODB 9, p. 266).
    L'autore di queste parole – che ribadiscono una riflessione contenuta nel suo primo lavoro accademico, Sanctorum Communio: «quando un popolo, sottomettendosi in coscienza alla volontà di Dio, entra in guerra per realizzare la sua storia e la sua missione nel mondo [...] allora esso sa di essere chiamato da Dio allora la storia deve compiersi, allora la guerra non è più assassinio» (D. Bonhoeffer, Sanctorum Communio, ODB 1, p. 70) – è Dietrich Bonhoeffer, un uomo che, meno di cinque anni dopo, sarebbe stato protagonista di una radicale conversione al pacifismo: un teologo che ci ha consegnato alcune riflessioni teologiche di altissima rilevanza per la sfida della fede anche nel nostro tempo e che morirà prematuramente il 9 aprile 1945, per impiccagione, dopo che la Gestapo avrà scoperto la sua appartenenza al gruppo di cospiratori che tentarono invano di uccidere Hitler il 20 luglio 1944.
    È a New York, dove studia presso lo Union Theological Seminary tra il 1930 e il 1931, che Bonhoeffer prende coscienza che la sua fede cristiana non gli consente di inneggiare ad alcuna guerra e che la pace è la sola via per l'edificazione di un mondo veramente giusto e fraterno. Deve questa presa di coscienza, in particolare, all'amicizia con il pastore francese Jean Lasserre con il quale discute a lungo sui principi cristiani e particolarmente sul discorso della montagna. È con Lasserre che Bonhoeffer si reca al cinema e assiste alla proiezione del film All Quiet on the Western Front, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque (1929). Un pastore protestante francese e un pastore luterano tedesco che stringono amicizia e affrontano la sfida di trovare motivi di comunione e di fraternità al di là delle tradizionali opposizioni che hanno diviso per secoli le loro nazioni di appartenenza. Lasserre ci ha lasciato una toccante testimonianza sul contenuto delle loro conversazioni in quei giorni: «Fu in quell'occasione che entrambi scoprimmo che la comunione, la comunità della chiesa è molto più importante della comunità nazionale... Credo che questo sia stato molto importante nel suo avvicinamento al pacifismo perché egli scoprì che la guerra non è la cosa più importante dal punto di vista della chiesa. [...] La sola cosa importante e che conta è che la chiesa sappia tenere in comunione tutti i cristiani. E quello che è assolutamente orribile e inaccettabile in una guerra è il fatto che i cristiani vi siano costretti a dimenticare la propria fede» (G.B. Kelly-F.B. Nelson, The Cost of Moral Leadership: The Spirituality of Dietrich Bonhoeffer, W.B. Eerdmans Publishing Co, Grand Rapids, Usa 2020, p. 102).
    La conversione di Bonhoeffer al pacifismo e, più in generale, alla radicalità del vangelo è per noi cruciale proprio nel cuore di una guerra – quella in Ucraina – che mette in evidenza, fra varie altre e tristi cose, la sconvolgente afasia del cristianesimo europeo e, di fatto, la sua dolorosa sconfitta. Colpisce il fatto che Bonhoeffer stesso tornerà a riflettere sul proprio percorso spirituale e sui motivi che lo avevano portato così lontano dal cuore della fede: una parabola eloquente che può aiutarci a capire le ragioni del nostro stesso fallimento. Così scrive al fratello Karl-Friedrich il 14 gennaio 1935, ricordando quanto accaduto in lui meno di cinque anni prima: «Quando intrapresi lo studio della teologia, credevo che si trattasse di qualcosa di molto diverso, forse soprattutto una questione di tipo accademico. Oggi essa è divenuta per me qualcosa di totalmente diverso. Adesso finalmente credo di sapere che una volta almeno mi sono messo sulla giusta via; è la prima volta nella mia vita. E questo spesso mi rende molto felice. Continuo solo ad aver paura di non andare avanti, di bloccarmi, per semplice timore dell'opinione altrui. Credo di sapere che sarei davvero ulteriormente trasparente ed effettivamente sincero solo se cominciassi veramente a prendere sul serio il discorso della montagna. Qui c'è la vera fonte dell'energia che può far saltare in aria tutto l'incantesimo e i fantasmi, fino a far rimanere dal fuoco d'artificio solo un mucchietto di resti bruciacchiati» (D. Bonhoeffer, Gli scritti 1928-1944, Queriniana, Brescia 1979, p. 392).
    Un anno dopo, scrivendo all'amica Elisabeth Zinn da Finkenwalde, il 27 gennaio 1936, tornerà di nuovo su quella svolta decisiva, scendendo, se possibile, anche più in profondità riguardo alla verità su se stesso: «Mi buttai a lavorare in modo molto poco cristiano e con una tale ambizione che molti notavano e che mi rendeva la vita assai difficile [...]. Poi sopraggiunse qualcos'altro, qualcosa che non ha cessato di cambiare la mia vita fino a oggi. Mi accostavo alla Bibbia per la prima volta [...]. Avevo già predicato spesso, avevo già visto molto della chiesa, ne avevo parlato e predicato – e non ero ancora diventato cristiano So che a quel tempo avevo piegato la dottrina di Gesù Cristo in qualcosa che mi portava un vantaggio personale. Prego Dio che questo possa non accadere più. In effetti, non avevo mai veramente pregato, oppure avevo pregato assai poco. È stata la Bibbia a liberarmi da tutto ciò, e specialmente il discorso della montagna. Da allora in poi tutto è cambiato. L'ho avvertito chiaramente e anche altri intorno a me. Fu una grande liberazione. Allora mi divenne chiaro che la vita di un servitore di Cristo deve appartenere alla Chiesa e, passo dopo passo, mi è divenuto chiaro come questo deve svilupparsi. Poi giunse la crisi del 1933 e questa mi ha rafforzato in quella decisione facendomi trovare anche dei compagni che condividono quello scopo con me. La rinascita della chiesa e della sua missione sono divenuti il mio primo e decisivo impegno» (D. Bonhoeffer, Scritti scelti 1933-1945, ODB 10, pp. 118-119).
    Il punto chiave è chiaro: «a quel tempo avevo piegato la dottrina di Gesù Cristo in qualcosa che mi portava un vantaggio personale». In fondo, siamo sempre di fronte alla stessa sfida: scegliere il proprio maestro, accogliere effettivamente il primato del suo magistero, ascoltare e fidarsi. Oppure, strumentalizzare e piegare l'insegnamento evangelico ai propri scopi, trasformare Gesù Cristo in un'occasione di successo e di soddisfazione della propria ambizione personale, come Bonhoeffer stesso confida al fratello. In una parola, la libertà della verità sacrificata a opportunismi e interessi privati: in questo modo, il vangelo non può esprimere niente della sua potenza trasformante, della sua profezia e della sua forza sorgiva. Ieri come oggi.

    L'ecumenismo a servizio della pace

    Non deve passare inosservata neanche l'indicazione che Bonhoeffer inserisce nella già citata lettera al fratello Karl-Friedrich circa una possibile via d'uscita dalla situazione senza sbocchi in cui si sono trovate le chiese nella loro retorica nazionalista e, sostanzialmente, guerrafondaia: «La ripresa della chiesa – scrive – viene sicuramente da una specie di nuovo monachesimo, che abbia in comune con l'antico solo l'assenza di compromessi di una vita secondo il discorso della montagna, nella sequela di Cristo. Credo che sia arrivato il tempo di raccogliere uomini per questo» (D. Bonhoeffer, Gli scritti 1928-1944, cit., pp. 392-393). Non si tratta di un rifugio o di una fuga nel privato, ma di prendere sul serio la sfida del vangelo e di farlo con tutta la radicalità che essa richiede. Sappiamo dalla biografia di Bonhoeffer che egli arriverà perfino al punto, quando questa via gli risulterà del tutto impraticabile, di entrare a far parte della cospirazione contro Hitler e dunque in modo diretto e attivo nell'agone politico e perfino militare del suo tempo. E, tuttavia, gli anni nei quali ha abbracciato il radicalismo cristiano – trovando, come scrive all'amica Elisabeth, anche «dei compagni che condividono quello scopo con me» – sono davvero i più fecondi ed esemplari nella sua pur breve esistenza, spesi soprattutto in quel campo dell'ecumenismo che costituisce un altro fortissimo collegamento con il nostro tempo.
    In effetti, il venticinquenne pastore convertito al pacifismo individua immediatamente, anche sull'esempio e probabilmente il consiglio di Jean Las-serre, il terreno nel quale poter dare voce e concretezza alla sua scelta evangelica. Si tratta del movimento ecumenico, di incontro e dialogo delle varie confessioni cristiane presenti in Europa e non solo, che proprio in questi anni ha uno sviluppo di grande rilievo. Dopo tutto, se dici ecumenismo dici fraternità, e se dici fraternità dici pace. Non solo, ma dici anche Europa, continente in cui il cristianesimo si è diffuso e ha creato quella matrice comune che abbiamo visto riaffiorare anche tra le trincee della prima guerra mondiale. In altre parole: la pace è un ottimo e urgente banco di prova dell'autenticità del desiderio di dialogo e di fraternità delle chiese cristiane.
    Due sono i discorsi cruciali che ci sono rimasti dell'impegno ecumenico in favore della pace di Bonhoeffer, quello tenuto a Gland il 29 agosto 1932 e quello svolto a Fano nell'agosto 1934, l'ultimo convegno cui egli fu in grado di partecipare a causa dell'aggravarsi della situazione politica internazionale. L'attacco del primo, fortemente provocatorio secondo il suo stile, ci riconduce al cuore stesso della nostra situazione contemporanea: «"La chiesa è morta", mi diceva poco tempo fa un tedesco serio; "Che potete fare voi, con tutto il vostro darvi da fare, con tutta la vostra serietà e il vostro pathos, se non preparare alla chiesa un decoroso funerale?" [...] Tutta la nostra attività cristiana ecclesiastica, in patria e qui, proprio in quanto si svolge con serietà, in quanto è coronata da successo, è forse qualcosa di diverso dall'intrecciare splendide corone, dall'intonare una solenne musica funebre?» (ODB 9, p. 473).
    La tesi è chiara: lo scenario mondiale è tale che le chiese cristiane non possono far altro che ammettere la propria impotenza e il proprio fallimento. Ma è proprio al cuore di questa morte che esse continuano a proclamare la paradossale vittoria di Cristo sulla morte. Così prosegue Bonhoeffer: «Perché la comunità dei fratelli nella Chiesa di Cristo che si manifesta nel Weltbund [la lega mondiale per l'ecumenismo] soffre di uno stato di angoscia? Perché conosce il comandamento della pace e vede, con quel chiaro sguardo che è dato alla chiesa, il dominio dell'odio, dell'inimicizia, della violenza nella realtà. È come se tutte le potenze del mondo avessero fatto una congiura contro la pace: il denaro, economia, l'istinto del potere, addirittura l'amore per la patria sono tutti presi al servizio dell'odio – odio dei popoli, odio di un connazionale contro l'altro» (ivi, p. 476).
    Mancano ancora sette anni all'inizio della seconda guerra mondiale, ma Bonhoeffer coglie già con grande precisione il clima di escalation che la farà scoppiare: «Un mondo con lo sguardo fisso sulle armi come mai prima, un mondo che corre febbrilmente alle armi per garantire la pace con l'armamento, un mondo il cui idolo è diventato la parola sicurezza. [...] come può uno in questo stato di cose chiudere gli occhi sul fatto che i demoni stessi hanno assunto il dominio del mondo e possono irrompere in ogni momento» (ivi, p. 477).
    Nessun appello alla buona volontà potrà fermarli, continua Bonhoeffer, non si può scongiurare il demonio con il semplice appello: «mai più la guerra!». «Cristo deve farsi presente fra di noi nella predicazione e nel sacramento, così come ha riconciliato Dio con gli uomini facendosi crocifiggere. Il Cristo crocifisso è la nostra pace. Egli solo scongiura gli idoli dei demoni. Solo davanti alla croce trema il mondo, non davanti a noi. E ora innalzate la croce sul mondo sconvolto. [...] E questa croce di Cristo proclama ora sul mondo dell'odio l'ira e il giudizio che annuncia la pace. Oggi non ci deve più essere una guerra: la croce non lo vuole». Bonhoeffer giunge perfino a suggerire l'esplicita disobbedienza civile da parte delle chiese, un gesto radicale, l'unico significativo in questa congiuntura drammatica: «La chiesa si rifiuta di obbedire, se deve sanzionare la guerra. La chiesa di Cristo è contro la guerra per la pace tra gli uomini, tra í popoli, le classi e le razze. [.. E con l'annuncio della pace la chiesa dà il messaggio della nuova umanità, della santa fraternità in Cristo. Questa fraternità è fondata sulla pace che Cristo sulla croce ha portato al mondo: la comunità degli eletti di Dio, degli umiliati sotto la croce, di coloro che aspettano, che credono, che ubbidiscono, e la comunità di coloro verso í quali Dio vuol essere misericordioso, questa è la nuova fraternità» (ivi, pp. 478-479).
    Due anni più tardi, quando, con l'avvento al potere in Germania di Adolf Hitler, il cammino verso la guerra si è fatto, se possibile, ancora più deciso, il discorso di Bonhoeffer assume toni drammatici. Non c'è più tempo da perdere, afferma: in nome della pace, le chiese sono chiamate a unirsi e ad alzare con forza la propria voce, la pace non è un tema da discutere, ma un comandamento da vivere e annunciare. Così afferma: «La pace deve esistere perché Cristo è nel mondo, cioè la pace deve esistere perché c'è una chiesa di Cristo, soltanto per amore della quale il mondo intero è ancora in vita. E questa chiesa di Cristo vive contemporaneamente in tutti i popoli, persino al di là di ogni confine di tipo nazionale, politico, sociale, razziale, e i fratelli di questa chiesa sono legati fra loro mediante l'osservanza del comandamento dell'unico Signore Gesù Cristo, in maniera più indissolubile di quanto ogni vincolo della storia, del sangue, delle classi e delle lingue possa legare gli esseri umani» (ODB 10, p. 63).

    L'«arma» della fraternità cristiana

    È la fraternità cristiana la sola vera arma per sconfiggere le dinamiche di morte che dominano in ogni tempo: «Questi fratelli in Cristo osservano la sua parola e non pongono domande, ma rispettano il suo comandamento della pace e non si vergognano, a dispetto del mondo, a parlare persino di pace eterna. Non possono imbracciare le armi gli uni contro gli altri, perché sanno che in questo modo imbraccerebbero le armi contro Cristo stesso. Per loro, pur con tutte le paure e le angustie della coscienza, non ci sono scuse per sfuggire al comandamento di Cristo che deve esserci la pace» (ivi, pp. 63 -64). Non c'è via alla pace sulla strada della sicurezza, continua Bonhoeffer, la pace infatti va osata, è l'unico grande rischio e mai e poi mai può essere assicurata: «Pace è il contrario di sicurezza. Esigere sicurezze significa essere diffidenti e a sua volta tale diffidenza genera la guerra. Cercare delle sicurezze significa volersi proteggere. Pace significa abbandonarsi completamente al comandamento di Dio, non volere sicurezza, ma, nella fede nell'obbedienza, mettere nelle mani di Dio la storia dei popoli e non volerne disporre egoisticamente. Le battaglie non vengono vinte con le armi, ma con Dio» (ivi, p. 64). Un invito radicale nel quale Bonhoeffer giunge perfino a formulare una proposta paradossale, sulla scorta dell'episodio biblico di Gedeone: «A chi di noi, infatti, è lecito dire di sapere che cosa potrebbe significare per il mondo se un popolo, invece che con le armi in pugno, accogliesse l'aggressore pregando, inerme e proprio perciò armato con le uniche vere armi e difese?» (ivi).
    È la stessa linea di pensiero che Bonhoeffer seguirà commentando, nel suo testo più conosciuto, Sequela, la settima beatitudine: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Scrive infatti: «I seguaci di Cristo sono chiamati alla pace. Quando Gesù li chiamò essi trovarono la loro pace. Gesù è la loro pace. Ora non devono accontentarsi della loro pace, devono anche farla. Questo vuol dire rinunciare a violenza e ribellione. Queste infatti non servono mai alla causa di Cristo. Il regno di Cristo è un regno di pace, e la comunità di Cristo si scambia il saluto di pace. I discepoli di Gesù mantengono la pace soffrendo loro stessi il male piuttosto di farne ad altri; conservano la comunione dove un altro la rompe, rinunciando all'auto affermazione e subiscono in silenzio odio e ingiustizia. Così vincono il male con il bene. Essi diffondono la pace divina in mezzo a un mondo che si nutre di odio e di guerra. Ma la loro pace non sarà da nessuna parte maggiore che lì dove vanno incontro al malvagio offrendogli pace e sono pronti a subire del male da parte sua. I pacifici porteranno la croce con il loro Signore: infatti sulla croce fu conclusa la pace. Essendo così attirati nell'opera di pace di Cristo, chiamati a partecipare all'opera del Figlio di Dio, essi stessi saranno chiamati figli di Dio» (D. Bonhoeffer, Sequela, ODB 4, p. 105). La conclusione del discorso di Bonhoeffer a Fano potrebbe trasformarsi in un appello da rilanciare proprio oggi, nel cuore del conflitto ucraino. Un appello, a suo modo, richiamato recentemente da Alberto Melloni, sulla cui proposta torneremo fra poco. Un appello "sinodale": le chiese sono riunite, afferma Bonhoeffer, non occorre nient'altro perché possa risuonare un grido di pace rivolto a tutte le nazioni. Ecco le sue parole: «Come si crea la pace? Chi invoca la pace, cosicché il mondo ascolti, sia obbligato ad ascoltare? Il singolo cristiano non può farlo [...]. Soltanto l'unico grande concilio ecumenico della santa chiesa di Cristo radunato da tutto il mondo può dirlo in modo tale che il mondo, digrignando i denti, sia costretto a udire la parola pace in modo tale che i popoli si rallegrino, perché questa chiesa di Cristo, nel nome di Cristo, toglie di mano le armi ai suoi figli e vieta loro la guerra e proclama la pace di Cristo sul mondo furioso. Perché temiamo l'ululato di rabbia delle potenze mondiali? Perché non sottraiamo loro il potere e lo restituiamo a Cristo? Oggi possiamo ancora farlo. Il concilio ecumenico è riunito, può indirizzare ai credenti in Cristo questo appello radicale per la pace. In Oriente e in Occidente è quanto attendono i popoli [...]. L'ora incalza – il mondo è armato fino ai denti e la diffidenza brilla terribile in ogni occhio, alle fanfare di guerra si può dar fiato domani stesso – che altro aspettiamo? [...] Vogliamo dire al mondo non una mezza parola, ma una parola intera, una parola coraggiosa, una parola cristiana. Vogliamo pregare che ci vengano date queste parole, oggi stesso; chissà se l'anno prossimo ci riuniremo ancora?» (ODB 10, pp. 64-65).

    Quale futuro?

    C'è una certa impotenza nel nostro annuncio di pace. La forte e inequivocabile presa di posizione di papa Francesco contro l'escalation militare e la nuova corsa agli armamenti è stata accolta con imbarazzo da parte del sistema della comunicazione – si pensi solo alla polemica tra Marco Tarquini, direttore di «Avvenire», e Federico Rampini, storico corrispondente dagli Stati Uniti di «Repubblica» e del «Corriere della Sera» –. Merita, forse, in questa nostra fragilità e debolezza, riascoltare le parole del Papa, le quali, di fatto, non sono altro che il tentativo di collegare quello che sta accadendo con un orizzonte più ampio, l'invito ad alzare, in un certo modo, lo sguardo verso una prospettiva più lontana, appunto verso il futuro. Il futuro che immancabilmente ci attende. E che sarà o pieno di pezzi di ferro e di fosse e di macerie, oppure di prati fioriti e di nuvole nel cielo azzurro – la bellissima bandiera dell'Ucraina! –.
    Così ha affermato papa Francesco lo scorso 24 marzo 2022: «È insopportabile vedere quello che è successo e sta succedendo in Ucraina. Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica. La storia degli ultimi settant'anni lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po' dappertutto; fino ad arrivare a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero. Ma il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno "scacchiere", dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri. La vera risposta dunque non sono altre armi, altre sanzioni. Io mi sono vergognato quando ho letto che non so, un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del Pil nell'acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare». E ancora, nell'udienza generale del giorno precedente: «Con la guerra tutto si perde, tutto. Preghiamo perché i governanti capiscano che comprare e fare armi non è la soluzione al problema. La soluzione è lavorare insieme per la pace, come dice la Bibbia, fare delle armi strumenti per la pace». Tutto è collegato. Papa Francesco ha cercato di illustrarlo nelle sue due ultime encicliche, Laudato si' e Fratelli tutti, le quali sono profondamente connesse nel loro tema di fondo. Si tratta, appunto, di cercare insieme un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato. Di mettere tutte le nostre conoscenze a servizio di questa sfida, la sola sfida che conta. C'è chi guarda al presente, e spara bombe. C'è chi guarda al futuro e getta semi. Da che parte ci collochiamo?
    Un giorno, rispondendo a Giuda che aveva sollevato l'obiezione circa lo "spreco" di 300 libbre di profumo preziosissimo utilizzato per ungere i piedi del Maestro, Gesù fece un'affermazione singolarmente realistica e profetica: «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). Come a dire: il mondo perfetto non si realizzerà mai – Bonhoeffer stesso ne era ben consapevole –. Possiamo e dobbiamo, dunque, impegnarci nell'opera di miglioramento del mondo, senza tuttavia perdere la consapevolezza che ci saranno sempre contrasti e difficoltà. E che il nostro impegno di cura e di costruzione di un mondo a misura d'uomo non deve mai dimenticare la dimensione della profezia: dell'annunciare sempre quello che è lontano – forse impossibile –, ma che può orientarci qui e ora. È questo che fanno i testimoni, i profeti, í giusti che si ricordano nei tanti giardini nati in loro nome in varie parti d'Italia e del mondo: compiere gesti profetici, come quello che auspicava Bonhoeffer. Quello proposto a Fano, purtroppo, non fu compiuto e forse, se mai i rappresentanti delle chiese cristiane vi avessero aderito, non avrebbe modificato le sorti del mondo in quegli anni freneticamente e furiosamente in corsa verso la seconda guerra mondiale. Eppure, la profezia ha senso, ha senso che proviamo sempre di nuovo ad alzare lo sguardo e invitare chi lo desideri a farlo. Allora, perché non recarci in tanti, guidati dai grandi leader religiosi delle nostre chiese e religioni, sul sepolcro di Gesù, a Gerusalemme? E sostare lì finché non torni la pace? Almeno quella in Europa?

    (FEERIA, 2022/1 - n. 61, pp. 37-44)

     


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