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    L'evoluzione storica

    della "dottrina sociale"

    e i diversi

    modelli interpretativi

    Giannino Piana

    La "dottrina sociale" della Chiesa è racchiusa in una serie di documenti che vanno dalla Rerum novarum di Leone XIII (1891) alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991). Tra questi meritano di essere ricordati, oltre ai due citati, l'enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931), alcuni Radiomessaggi di Pio XII (in particolare quelli del 1 giugno 1941, cinquantesimo anniversario della Rerum Novarum, del 1 settembre 1944 e del 24 dicembre 1944), le encicliche Mater et Magistra (1961) e Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, la costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II (1965), l'enciclica Populorum progressio (1967) e la lettera apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI, il documento del Sinodo dei vescovi Giustizia nel mondo (1971) ed infine le due encicliche Laborem exercens (1981) e Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II.

    Oltre a questi testi, che costituiscono il corpus più consistente, importanti riferimenti alla questione sociale si trovano anche in altri interventi papali o delle Congregazioni romane; mentre notevole interesse rivestono le prese di posizione di molte Conferenze episcopali nazionali o di interi continenti (si pensi soltanto ai documenti conclusivi degli incontri della Conferenza episcopale latino-americana di Medellin e di Puebla).

    Un ruolo del tutto particolare nell'ambito della dottrina sociale va senz'altro ascritto alla Rerum novarum, la quale non è soltanto il primo documento in ordine cronologico, ma ha avuto il ruolo di magna charta, divenendo il paradigma letterario e dottrinale al quale le altre encicliche si sono successivamente ispirate nella loro stesura; è significativo infatti che esse siano state, in larga misura, promulgate come ricordo di quell'evento. Fa eccezione la Populorum progressio, la quale - come osserva Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis - considera la questione sociale, tenendo conto degli sviluppi verificatisi a partire dagli anni '60, come questione non riducibile ai rapporti tra le classi, ma da estendere alle relazioni tra i popoli, in particolare tra Nord e Sud del mondo.

     

    Le categorie interpretative della realtà sociale

    I documenti cui si è accennato presentano letture della realtà sociale con angolazioni diverse a seconda del diverso momento storico in cui sono stati redatti e della diversa personalità dei Pontefici cui fanno capo. Molti sono stati i tentativi di procedere a una loro periodizzazione, spinti dalla preoccupazione di individuare, nel succedersi delle varie fasi storiche, la presenza di alcuni blocchi omogenei, tanto sul terreno metodologico che dei contenuti1. La via che sembra più seriamente perseguibile è quella che li suddivide a partire dalle diverse accezioni di "dottrina sociale" cui fanno riferimento. Utilizzando questo criterio si possono individuare quattro fondamentali tappe evolutive, che corrispondono ad altrettanti modelli di interpretazione del ruolo dei cristiani e della Chiesa nell'ambito della realtà sociale: a) la prima è costituita dal prevalere di un modello ideologico-dottrinale, che giustifica pienamente l'uso del termine "dottrina sociale" e che è chiaramente presente nelle encicliche di Leone XIII e di Pio XI; b) la seconda è caratterizzata dalla produzione di un modello antropologico-etico, anticipato in parte dai radiomessaggi di Pio XII, ma formulato in termini più precisi nei documenti del magistero di Giovanni XXIII, di Paolo VI e del Concilio; c) la terza coincide con l'affermarsi di un modello critico-profetico, che ha le sue radici nell'ecclesiologia conciliare e la cui preoccupazione principale è quella di sottrarre il pensiero sociale cristiano al rischio dell'ideologia (il documento in cui è espressa questa posizione è l'Octogesima adveniens di Paolo VI); d) la quarta (e ultima) fa invece proprio un modello di "dottrina sociale" (il termine torna qui con forza) orientato in senso etico-teologico, secondo l'indicazione della Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II.

    Prima di entrare nell'analisi dettagliata dei modelli indicati ci sembra tuttavia importante fermare l'attenzione su alcune categorie interpretative della realtà, presenti nella dottrina sociale, che costituiscono i capisaldi della lettura del "sociale" fatta propria dalla Chiesa.

    1. Il concetto di giustizia sociale

    La categoria fondamentale in base alla quale la Chiesa è venuta formulando il proprio giudizio sul "sociale" e ha elaborato la propria proposta di cambiamento è la categoria di giustizia sociale. Grazie ad essa la dottrina sociale ha assunto, fin dall'inizio, il ruolo di importante fattore di innovazione. L'affermarsi, in termini sempre più accentuati, del liberalismo in campo economico e sociale aveva infatti ridimensionato il concetto di giustizia, riducendolo - come già si è detto - alla sola "giustizia commutativa" concepita come relazione di uguaglianza di mutue prestazioni tra soggetti non solidali.

    Le encicliche sociali, a partire dalla Rerum novarum, ricuperano invece la centralità del concetto di "giustizia sociale", sfatando i pregiudizi ricorrenti che la relegavano al rango di giustizia di seconda classe i cui doveri si aggiungevano a quelli della "giustizia commutativa" – l'unica vera giustizia – e non rivestivano pertanto la stessa forza di obbligazione. Affermando il primato della giustizia sociale e delle sue esigenze, alle quali ci si deve riferire anche nella determinazione dei contenuti della giustizia particolare, il magistero della Chiesa capovolge l'ottica dominante. Oggetto della giustizia sociale è infatti indissociabilmente il bene di tutti e di ciascuno, in quanto essa tende, in termini immediati, al bene comune e, in termini mediati, a quello di ciascuna persona. La giustizia sociale è dunque identificabile con la giustizia tout court, di cui le varie forme di giustizia particolare non sono che specificazioni.

    Questa prospettiva, presente lungo tutto il successivo sviluppo della dottrina sociale, è tuttavia approfondita gradualmente dai vari documenti. La Mater et Magistra, sostituendo l'espressione "giustizia sociale" con "giustizia ed equità" (cfr. nn. 21, 24-25, 33, 77) – espressione che ha risonanze bibliche (cfr. Col 4, 1) e patristiche – pone soprattutto l'accento sulla concretezza della giustizia. La formula è infatti spesso usata dai Padri della Chiesa (Lattanzio, Girolamo, Basilio, Giovanni Crisostomo e Agostino) per significare la partecipazione di tutti a una stessa sorte e viene ripresa da Giovanni XXIII per sottolineare con forza le esigenze della giustizia nell'ambito delle relazioni economico-sociali. L'equità appartiene costitutivamente alla giustizia sociale, ma indica, nello stesso tempo, come essa debba adeguarsi alla varietà delle situazioni, tendendo a mediare gli aspetti personali e quelli sociali. L'uomo è infatti un essere sociale, ma è fine e non mezzo; questo significa che il bene della comunità umana deve essere trascendentalmente riferito al bene delle persone che la compongono, le quali sono, a loro volta, legate da vincoli di solidale comunione, anteriori a ogni forma di organizzazione concreta.

    Un'ulteriore elaborazione del concetto di "giustizia sociale" si trova poi nella Populorum progressio, in diretto rapporto con il concetto di "umanesimo plenario", il quale implica un'idea di sviluppo integrale ("tutto l'uomo") e universale("tutti gli uomini"). Le esigenze della giustizia sociale devono, in questo quadro, essere commisurate alla promozione di ciascun uomo nel rispetto della sua vocazione e, insieme, alla promozione dell'intera umanità. La questione sociale non riguarda qui più soltanto i rapporti tra le classi, ma coinvolge i rapporti tra i popoli, con particolare attenzione a quelli meno sviluppati del Terzo (e Quarto) Mondo. Il concetto di giustizia sociale, che non va disgiunto da quello di carità (n. 22), acquisisce in tal modo dimensione mondiale e si identifica sempre più con il concetto di sviluppo dei popoli, condizione necessaria per la realizzazione della pace.

    Nella stessa direzione si muove la Sollicitudo rei socialis. Partendo dall'analisi della stretta connessione tra i mali del sottosviluppo e quelli del sovrasviluppo (nn. 17-20), Giovanni Paolo II afferma la necessità di superare il modello di sviluppo, attualmente in corso fondato sulla presunzione illuministica di un progresso illimitato e legato a una concezione economicistica della vita. La via da privilegiare è quella che finalizza lo sviluppo all'uomo mediante il riferimento a un parametro interiore, che conduca alla crescita di ciascuno e si faccia, nello stesso tempo, garante del rispetto della uguale dignità dei popoli (nn. 27-33). La visione umanistica dello sviluppo elaborata da Paolo VI è integrata in un quadro più ampio, grazie al rilievo conferito al rapporto uomo-ambiente e alla particolare insistenza sulle condizioni da rispettare se si vuole garantire un vero sviluppo umano alle generazioni future (n. 34).

    2. Il rapporto dell'uomo con i beni della terra

    Alla categoria di giustizia sociale si connette strettamente l'interpretazione della dottrina sociale circa il rapporto dell'uomo con i beni della terra; interpretazione che è determinante per la costruzione dell'ordinamento economico-sociale. I documenti del magistero presentano, al riguardo, una sorprendente evoluzione. L'intervento della Chiesa è inizialmente soprattutto preoccupato di difendere la proprietà privata: di fronte alla minaccia del collettivismo totalitario2 la Rerum novarum, influenzata dalle concezioni liberali del tempo, rivendica con forza l'inviolabilità del diritto di proprietà (nn. 6-12), pur insistendo sulla funzione sociale del suo uso (n. 19).

    Un'analoga posizione è presente anche nella Quadragesimo anno, in cui si fa tuttavia più chiara la distinzione tra diritto ed esercizio del diritto. L'abuso e il non uso della proprietà sono moralmente condannati, in ragione della funzione sociale che ad essa inerisce (nn. 44-52); ma anche in questo caso il diritto non è di per sé estinto perché fondato sull'ordine naturale.

    Un significativo passo avanti è costituito dal radiomessaggio di Pentecoste del 1 giugno 1941 di Pio XII, cinquantesimo anniversario della promulgazione della Rerum novarum. Qui si afferma l'esistenza di una netta gerarchia tra il diritto di tutti gli uomini all'uso dei mezzi necessari alla vita e il diritto di proprietà: quest'ultimo va infatti subordinato alla possibilità di accesso ai beni da parte di tutti. Considerando la proprietà privata come uno strumento essenziale per la tutela e l'espansione della libertà della persona e della famiglia, il Pontefice si fa promotore di un accesso sempre più allargato ad essa e sottolinea l'importanza dell'intervento dello Stato per favorirne un'equa distribuzione.

    Le profonde trasformazioni della struttura e dell'organizzazione sociale hanno stimolato in seguito la Mater et Magistra a ridefinire lo stesso concetto di proprietà, non più identificabile con il fondo agrario, come nell'ambito della società rurale, ma neppure coincidente con il possesso dei mezzi di produzione. La dissociazione determinatasi, soprattutto nella grande impresa, tra possesso dei mezzi ed esercizio delle responsabilità direttive fa sì che la nozione di proprietà debba essere sempre più sostituita con quella di potere sui beni, cioè di esercizio del dominio su di essi. Questo mutamento di significato è, d'altronde, convalidato dalla perdita di importanza della proprietà come baluardo dell'autonomia della persona; l'evoluzione dello Stato sociale ha infatti favorito l'emergere di altre garanzie, quali le assicurazioni e la previdenza sociale, la partecipazione al reddito nazionale e le attitudini professionali. Una posizione analoga è espressa dalla Gaudium et spes (nn. 69-71), dove si omette significativamente l'uso della categoria di "diritto naturale" e dove il concetto di proprietà viene assunto nel più vasto concetto di "potere sui beni".

    Il punto di arrivo di questo processo evolutivo è tuttavia costituito dalla Populorum progressio, sulla quale in seguito torneremo in modo più analitico. Facendo appello a una concezione "umanistica" dello sviluppo, incentrata sul primato dell'essere, e ridefinendo in dimensione planetaria il senso della solidarietà tra gli uomini, Paolo VI afferma con forza il principio della destinazione universale dei beni (n. 22) e relativizza, di conseguenza, la proprietà privata, sia nelle sue forme storiche che nel suo significato, assegnandole un carattere puramente strumentale, quello cioè di mezzo attraverso il quale perseguire la partecipazione di tutti alle risorse della terra.

    3. Sussidiarietà e solidarietà: principi dell'ordinamento sociopolitico

    In questo contesto vanno inseriti, per essere correttamente intesi, gli stessi principi di sussidiarietà e di solidarietà, che sono alla base dell'ordinamento sociale e politico. Il primo – quello di sussidiarietà – ha l'obiettivo di consentire la massima espressione della libertà ai singoli e ai corpi intermedi della società, giustificando l'intervento dello Stato e delle istituzioni pubbliche soltanto quando emergono esigenze di bene comune. A formulare per la prima volta tale principio è stata la Quadragesimo anno di Pio XI (n. 80), la quale delineando ambiziosamente un modello puntuale di società che i credenti sono chiamati a costruire, fa del principio di sussidiarietà il perno attorno a cui ruota, osservando come esso "da una parte, sostiene il diritto al proprio spazio per sé della persona e dei gruppi ed istituzioni intermedie tra il singolo e lo Stato (funzione di "tutela"); dall'altro – secondo il significato originario della parola – esige `aiuto' (subsidium) dall'alto verso il basso, se il singolo o gruppi minori, per esempio la famiglia con il suo compito educativo, con o senza colpa falliscono (funzione `sociale')"3. Il pericolo di un'eccessiva ingerenza dell'apparato burocratico dello Stato spinge il Pontefice a ridefinire i rapporti tra intervento delle istituzioni pubbliche e ruolo delle libere associazioni (nn. 25-44), sollecitando, nello stesso tempo, una forma di collaborazione tra le classi sociali mediante la nascita delle corporazioni (nn. 83-98)4. Ripreso con forza dalla Summi Pontificatus il principio di sussidiarietà, che ha avuto storicamente il merito di difendere l'individuo dallo strapotere dello Stato, è stato successivamente ridimensionato, anche in conseguenza della acquisita consapevolezza della sua interpretazione nel quadro dell'ideologia liberale, contrassegnata da una visione individualistica dell'uomo e della vita sociale, e viene pertanto integrato con un principio più ampio e determinante: quello di solidarietà. Pur conservando una indiscutibile validità esso è, dunque, con il passare del tempo, sempre meno considerato come il principio costitutivo della dottrina sociale della Chiesa ed è invece semplicemente ritenuto come un principio; non si può infatti fare della difesa, pur legittima, del singolo di fronte al potere politico il criterio ultimo di giustificazione e di promozione dell'associazionismo umano. Ad assumere sempre maggiore importanza nella conduzione della vita sociale è allora il principio di solidarietà, per il quale ogni essere umano viene considerato corresponsabile del bene di ogni altro essere umano e delle forme associative attraverso le quali tale bene si concretizza.

    A segnare l'inizio di questa svolta è anzitutto la Mater et magistra, la quale ha messo fortemente in discussione il ruolo centrale del principio di sussidiarietà, rifacendosi soprattutto alla lettura dei profondi cambiamenti intervenuti nei processi socioeconomici e politici. Con essa fa la sua apparizione, nell'ambito della dottrina sociale, il concetto di "socializzazione" – rifiutato dai precedenti Pontefici – e ritenuto invece qui essenziale per motivi non solo di carattere storico-sociale, ma soprattutto di ordine antropologico legati alla naturale tendenza degli uomini ad associarsi (nn. 63-64), e assume un ruolo determinante il concetto di Stato sociale come strumento volto a garantire una condizione di equità tra gli uomini. La situazione di complessità, conseguenza dello sviluppo del sistema industriale e della invadenza di poteri sovranazionali, rende sempre più difficile la distinzione tra ruolo della società civile e ruolo dello Stato (n. 58). Il mutato scenario internazionale impone l'integrazione del principio di sussidiarietà con quello di solidarietà, che acquisisce pieno diritto di cittadinanza nella Populorum progressio, la quale riconosce la funzione essenziale dei pubblici poteri, soprattutto nella soluzione dei più gravi problemi di ordine strutturale. L'affermazione del primato della persona umana, considerata come fine di ogni autentico sviluppo (n. 14), in contrasto tanto con la concezione capitalista quanto con quella marxista, comporta attenzione alla sua promozione integrale ed universale (nn. 17 e 43); questo significa che il bene umano è il bene di tutto l'uomo, realizzato mediante lo sviluppo armonico dei vari aspetti della sua personalità, ed è insieme il bene dell'intera umanità concepita come un'unica famiglia. L'economia, la tecnica e la politica devono essere finalizzate a questo progetto secondo una logica che privilegia l'essere delle persone e considera l'avere e il dare come mezzi, non dimenticando la connaturale ambivalenza dei beni economici, cioè la possibilità che vengano prodotti e distribuiti secondo criteri di puro profitto (nn. 6 e 58). Il principio di solidarietà diventa in questo quadro il presupposto fondamentale (nel senso di fondante) dell'intero ordine sociale. Come tale non può essere ridotto ad atteggiamento facoltativo, ma deve essere considerato come un dovere di ogni essere umano e come il criterio in base al quale vanno regolati i rapporti tra le categorie sociali e i popoli della terra (nn. 59-61).

    Tale principio è approfondito, nella sua valenza teologica ed etica, da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis. La constatazione dell'interdipendenza economica, culturale, politica e religiosa, che unisce tra loro i popoli della terra impone lo sviluppo, sul terreno morale e sociale, di una solidarietà universalistica, incentrata sulla responsabilità di ciascuno verso tutti e comporta la creazione di un sistema di collaborazione tra i popoli della terra (nn. 38-39). Questa forma di solidarietà ha la sua ultima giustificazione e il suo orientamento essenziale nell'orizzonte della fede. La coscienza della comune paternità di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo e dell'azione vivificante dello Spirito fonda un preciso modello di unità del genere umano e conferisce un importante criterio per interpretare la realtà del mondo. La solidarietà supera così la semplice valenza etica, assumendo i caratteri della gratuità, della riconciliazione e del perdono, e si fa espressione di quella "comunione" che ha la sua sorgente nel mistero trinitario e che la Chiesa è chiamata a vivere nella storia, se intende diventare "sacramento" di salvezza dell'intera umanità (n. 40).

    Giovanni Paolo II non rinuncia tuttavia a dare, nel contempo, spazio al principio di sussidiarietà, soprattutto nella Centesimus annus (n. 39), dove esso è proposto come via da seguire per favorire la crescita di ambiti di libertà e di responsabilità e per stimolare il dinamismo e la creatività della libera iniziativa in campo economico.

    Indispensabile è, in definitiva, la ricerca di un equilibrio tra i due principi; un equilibrio che riconosca al principio di solidarietà il significato di orizzonte ultimo cui riferirsi e a quello di sussidiarietà il carattere di strumento necessario per determinare il coinvolgimento responsabile dei vari soggetti sociali nel processo di ricerca del bene comune.

    4. Lavoro e sistema economico

    Le categorie e gli orientamenti segnalati hanno esercitato (ed esercitano) una grande influenza sull'approccio ai problemi del lavoro e, più in generale, dello strutturarsi del sistema economico. La difesa dell'attività lavorativa e dei diritti dei lavoratori è una costante della dottrina sociale. Di fronte alla mercificazione del lavoro, conseguenza del sistema capitalistico-borghese, e alla conseguente alienazione dell'uomo, espropriato della sua dignità, la Chiesa reagisce proponendo di volta in volta interventi volti a salvaguardare la dignità umana. La riflessione ecclesiale è venuta, anche in questo caso, evolvendo. Il modello delle prime encicliche era infatti improntato a uno schema difensivo ed essenzialmente moralistico. Così Leone XIII, pur opponendosi alla riduzione del lavoro a merce e valorizzandolo come espressione della persona (nn. 16-34), in ragione della dura condanna nei confronti del socialismo, che egli considera una falsa soluzione della questione operaia (nn. 3-12), evita accuratamente di mettere sotto processo i meccanismi strutturali che sono la causa dello stato di ingiustizia esistente. A sua volta, Pio XI, oltre ad ampliare il concetto di giusto salario, introducendo la doverosa attenzione alle necessità della famiglia (nn. 65-76), insiste sull'esigenza di dar vita ad un sistema di compartecipazione e di cogestione dell'impresa e sulla importanza della partecipazione dei lavoratori agli utili aziendali (m. 58). Ciò che la Chiesa tende in questa prima fase a tutelare è soprattutto la libertà di associazione dei lavoratori, il rispetto della loro integrità fisica e morale e della loro possibilità di inserimento, a pieno diritto, nella vita sociale. Minore attenzione è invece riservata alla realizzazione della persona attraverso l'attività lavorativa e alle carenze strutturali del sistema, che sono i motivi principali dello stato di alienazione.

    Alla base di questa impostazione vi è ancora una visione che considera il lavoro soprattutto nei suoi aspetti di "penosità" (conseguenza del peccato di origine) e di "doverosità": l'esito non è perciò la contestazione del sistema economico oppressivo, ma, più modestamente, la sollecitazione ad operare per la sua moralizzazione modificandone gli aspetti più deteriori. Il magistero della Chiesa non è tanto preoccupato del lavoro in sé, del suo significato liberante per l'uomo, ma piuttosto della salvaguardia di alcune condizioni necessarie ad assicurare all'interno di esso il rispetto della dignità umana.

    A segnare un ulteriore passo avanti nella riflessione sul lavoro e sulla vita economica ha contribuito in seguito la Mater et magistra, sia sollecitando la partecipazione attiva dei lavoratori alla vita delle imprese5, sia riconoscendo l'esigenza di una loro presenza nelle sedi politiche in cui si decidono gli orientamenti delle scelte economiche. Ma solo con la promulgazione della Gaudium et spes si fa strada una posizione nuova e più positiva, frutto di una rinnovata riflessione teologica e di una più marcata attenzione al contesto socioculturale. Facendo propri gli stimoli della ricerca teologica - in particolare della teologia delle "realtà terrestri", sviluppatasi a partire dagli anni '50 - la costituzione del Vaticano II ricupera una visione più ottimistica del lavoro incentrata sulle grandi categorie della storia della salvezza. Il lavoro viene ridefinito nei suoi significati come prolungamento dell'attività creazionale, come partecipazione al mistero redentivo di Cristo e come mezzo per l'edificazione dei "cieli nuovi" e delle "nuove terre", segno dell'escatologia già in atto. Nello stesso tempo, la Gaudium et spes pone con forza l'accento sulla situazione storico-concreta dell'attività lavorativa, denunciando con coraggio gli aspetti strutturali che ne producono l'espropriazione. L'obiettivo è il perseguimento della sua umanizzazione attraverso un profondo rinnovamento dell'azione politica, cioè mediante la costruzione di un nuovo modello di sviluppo.

    Una presa di posizione più articolata è espressa infine dalla Laborem exercens. Giovanni Paolo II considera qui il lavoro - e più ancora l'uomo lavoratore - come l'asse attorno a cui ruota l'intera questione sociale, se la si guarda a partire dalla centralità dell'uomo. Opponendosi radicalmente all'economicismo, presupposto fondante tanto del sistema capitalista che di quello marxista, egli sottolinea il primato dell'aspetto soggettivo dell'attività lavorativa, in quanto ambito in cui si estrinseca la vocazione dell'uomo. Il dato antropologico è assunto in quello teologico grazie alla mediazione del mistero dell'incarnazione, che fa del lavoro umano un'attività teandrica. In questo consiste il Vangelo del lavoro: esso, oltre a prolungare il mistero della creazione - sintomatico è il rimando a Gen 1, 27-28, filo conduttore dell'intera riflessione dell'enciclica - diviene partecipazione all'attività divina, nel suo farsi storico che culmina nel mistero pasquale. La nobiltà del lavoro rende anzitutto doveroso il compito di umanizzarlo, contestando le logiche di una società che lo mercifica ed espropria per questo l'uomo della possibilità di realizzarsi; per questo è necessario ridefinire lo statuto dei diritti dell'uomo lavoratore e creare condizioni per lo sviluppo di una solidarietà allargata, che non può essere soltanto frutto di un impegno interno al mondo dell'impresa, ma deve coinvolgere, in senso più vasto, l'intera società e in particolare le responsabilità di chi gestisce la "cosa pubblica" (datore di lavoro indiretto). Ma ancora: per questo è soprattutto necessario sviluppare una spiritualità dell'uomo lavoratore, incentrata sulla valorizzazione del lavoro come attività in cui si fa esperienza della partecipazione alla storia della salvezza, trasformando il mondo secondo il progetto di Dio e divenendo immagini di Cristo mediante il coinvolgimento nel suo mistero redentivo.

    Riprendendo queste considerazioni nella Centesimus annus, Giovanni Paolo II non esita a riconoscere la ineludibilità di alcuni dati della scienza economica, quali il rispetto della libera iniziativa, l'importanza del mercato e del profitto, ma ribadisce l'esigenza che anche il confronto con tali dati non prescinda da un'attenzione privilegiata alla centralità dell'uomo, e dunque non significhi rinuncia a sviluppare il sistema in una logica di solidarietà (nn. 30-43), evidenziando pertanto, in questo quadro, le responsabilità della politica e la necessità di una sua rifondazione etica (nn. 44-52).

    5. L'interdipendenza mondiale e i rapporti tra i popoli

    I termini tradizionali con cui la questione sociale veniva affrontata, mettendo al centro il rapporto tra capitale e lavoro, perciò il conflitto tra le classi, appaiono insufficienti ad interpretare la situazione creatasi a livello internazionale, a seguito dell'introduzione di tecnologie sempre più potenti, che hanno provocato la caduta delle barriere geografiche e culturali. Le nuove possibilità di comunicazione hanno determinato l'insorgenza, a tutti i livelli, di una situazione di interdipendenza, che esige, per essere correttamente affrontata, il riferimento a nuovi parametri valutativi e l'individuazione di nuove prospettive di impegno. La questione sociale non può più limitarsi a considerare le diseguaglianze tra le classi e a cercare ad esse rimedio; deve porre sempre più al centro delle sue attenzioni il tema dei rapporti tra i popoli, denunciando lo stato di sperequazione tra Nord e Sud del mondo e avendo come obiettivo la costruzione di un nuovo ordine mondiale.

    A dare il via a questa nuova prospettiva è la Populorum progressio, che, partendo dalla considerazione dei legami esistenti tra le nazioni nei diversi settori della convivenza umana, denuncia i meccanismi perversi dello sviluppo che hanno provocato l'accentuarsi delle diseguaglianze tra Nord e Sud del mondo (nn. 8-9) e sollecita ad abbandonare l'attuale concezione liberista (n. 26) per costruire un sistema in grado di favorire un'equa distribuzione dei beni della terra in modo da soddisfare le esigenze di ciascuno e di tutti (n. 32). L'enciclica è incentrata su una visione dello sviluppo attenta tanto al rispetto e alla promozione dell'identità integrale della persona quanto alla crescita di tutta l'umanità (nn. 14-21). La solidarietà a cui qui ci si riferisce va estesa all'intera famiglia umana e deve tradursi nell'elaborazione di programmi di collaborazione mondiale e di relazioni commerciali ispirate a criteri di equità (n. 50 e 56-61).

    Il tema dello sviluppo plenario è ripreso in seguito dalla Sollicitudo rei socialis, edita non a caso nel XX anniversario di promulgazione della Populorum progressio, dove, accanto ad un ulteriore approfondimento delle questioni di fondo (n. 29), si dà ampio spazio alla definizione della categoria di solidarietà, mettendo l'accento sulla sua dimensione teologale prima ancora che etica (n. 40), e si ripropongono con forza alcuni criteri-guida, che vanno posti alla base dell'impegno dei credenti e delle chiese quali condizioni imprescindibili per il perseguimento di un ordine economico-sociale giusto a livello mondiale (n. 42).

    I contenuti del messaggio sociale del magistero della Chiesa, codificati attraverso i vari documenti segnalati, mentre evidenziano l'esistenza di una profonda convergenza attorno agli imperativi di fondo, denunciano la costante evoluzione delle indicazioni di carattere operativo legate alle costanti trasformazioni della realtà. Il rapido mutamento sociale esige, d'altronde, la stessa rielaborazione delle categorie teologiche desunte dalla rivelazione e dalla successiva tradizione ecclesiale.

    Il risultato più maturo di questa evoluzione è condensato in due documenti di Paolo VI, la Evangelii nuntiandi e la Octogesima adveniens, e nell'enciclica Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II. Nel primo documento di Paolo VI sono mirabilmente definiti, alla luce delle acquisizioni della teologia contemporanea, gli aspetti di continuità e insieme di differenza tra evangelizzazione e promozione umana; nel secondo, è delineato in modo preciso il compito dei credenti e delle comunità cristiane nel contesto di una realtà sociale caratterizzata dal pluralismo delle situazioni storiche e delle ideologie. La proposta qui avanzata è strettamente legata al ricupero della "utopia"

    evangelica, in quanto realtà che spinge a sottoporre costantemente a vaglio critico le forme storiche della vita sociale e i sistemi dottrinali, e offre puntuali indicazioni per lo sviluppo di un progetto di liberazione umana e di umanizzazione del mondo. La Sollicitudo rei socialis, sottolineando il carattere di assolutezza e insieme di storicità della dottrina sociale (n. 3), mette chiaramente a fuoco il suo significato teologico-etico e rileva con precisione i compiti che ad essa spettano: denunciare le situazioni di ingiustizia presenti nel mondo e annunciare la possibilità del loro superamento attraverso l'assegnazione di centralità ad alcune istanze irrinunciabili, quali l'opzione preferenziale per i poveri e il principio della destinazione universale dei beni (nn. 41-42).

    Il carattere storico-evolutivo della dottrina sociale fa sì che essa non possa essere concepita come un blocco monolitico e chiuso, e costringe perciò ad accostarvisi non rinunciando a sottoporla a costante verifica, distinguendo con cura gli orientamenti di fondo, che hanno un carattere permanente, dalle indicazioni concrete, che rivestono invece un carattere del tutto contingente.

     

    Modelli di sviluppo della dottrina sociale

    La restituzione di plausibilità alla dottrina sociale è legata alla individuazione di un modello fedele ai dettami del vangelo e capace di rispondere alle esigenze del momento attuale. Per questo è importante analizzare con puntualità i modelli che si sono succeduti nel tempo verificandone potenzialità e limiti. Non si tratta di classificare, in termini assoluti, in base ad essi i documenti magisteriali, che presentano talora oscillazioni dall'uno all'altro modello, ma di individuare le linee di tendenza in essi prevalenti, con la consapevolezza che ogni tentativo di classificazione, per quanto necessario, è inevitabilmente riduttivo.

    1. Il modello dottrinale-ideologico

    Il primo modello si caratterizza per la presenza di un magistero ideologico-dottrinale. La Chiesa ha per molto tempo concepito il suo intervento nel "sociale" come offerta di un proprio progetto di società, fondato sulle grandi indicazioni della bibbia e sulla mediazione di categorie filosofiche, in particolare quella di "diritto naturale". Con tale progetto essa intendeva contrapporsi, da un lato, al liberalismo, rivendicando l'esistenza di un ordine oggettivo capace di dare fondamento al bene comune al di là del consenso collettivo, e, dall'altro, al collettivismo marxista, affermando il primato della persona sulla struttura sociale.

    Leone XIII ha dato per primo – con la pubblicazione della Rerum novarum – all'insegnamento sociale cristiano un carattere organico, in sintonia con le urgenze del tempo6. Il taglio dell'enciclica è nettamente speculativo e la tendenza prevalente è ad accentuare l'aspetto apologetico reagendo nei confronti delle correnti ideologiche del momento. Alla base di tale dottrina vi è la legge naturale, radicata nell'essere dell'uomo e la cui conoscenza ha luogo attraverso la retta ragione. La pretesa di individuare mediante il ricorso ad essa le fondamentali esigenze umane – quelle che comportano un rispetto incondizionato – conduce alla elaborazione di un sistema statico e destoricizzato7.

    Sulla stessa lunghezza d'onda si muove la Quadragesimo anno di Pio XI, caratterizzata da un'analisi più matura della realtà sociale e politica e soprattutto da un pensiero progettuale più robusto, legato a una precisa filosofia sociale. Il notevole impegno teorico conferisce all'enciclica un vero carattere "dottrinale" – siamo di fronte alla fondazione organica di una "dottrina" – e la rigorosa scientificità dell'impostazione è la ragione della maggiore serenità con cui si fa l'accostamento alla realtà e del profondo rispetto che si manifesta nei confronti delle scienze umane e dei loro principi (n. 42).

    La crisi di questo modello si è fatta in seguito progressivamente sentire grazie all'affiorare di fenomeni sociali e culturali nuovi. Il processo di secolarizzazione ha infatti concorso a vanificare la pretesa totalizzante delle ideologie tradizionali, determinando una loro profonda modificazione; mentre ha, nello stesso tempo, eroso le basi che giustificavano la presenza istituzionale dei cattolici in campo politico. D'altra parte, la crescente diversificazione dei problemi e delle situazioni, unita alla sempre più complessa tecnicizzazione della realtà, ha reso problematica l'ipotesi di unificazione dottrinale e meno sicure alcune convinzioni tradizionali, non suffragate da conoscenze scientifiche adeguate. La possibilità di un'unica sintesi, per quanto aggiornata, appare pertanto sempre più impraticabile. Senza dire che essa finirebbe per comportare gravi pericoli, primo fra tutti quello della ideologicizzazione del messaggio cristiano, in quanto la dottrina sociale si configurerebbe – e di fatto si è per un certo tempo configurata – come una ideologia cristiana per deduzione, cioè come un sistema chiuso tendente a prospettare una "terza via" alternativa ai progetti politici delle altre ideologie.

    2. Il modello antropologico-etico

    Il secondo modello è contrassegnato da un approccio antropologico – etico. La presenza di tale modello è da alcuni già intravista negli interventi del magistero di Pio XII; tuttavia la valutazione del loro contributo non è univoca. Vi è infatti chi (e sono i più) ritiene che il pensiero di Pio XII rientri, a pieno titolo, nel modello ideologico-dottrinale, perché ancorato a un metodo rigidamente deduttivo e orientato in senso prevalentemente filosofico (e non teologico), e soprattutto perché contrassegnato dalla presenza di una rigida distinzione tra "naturale" e " soprannaturale", perciò del tutto disattento alla dimensione storica8. Ma vi è anche chi (con buone ragioni) esprime un giudizio più positivo, rilevando come l'introduzione del concetto di "creazione" (in luogo di quello di "natura") implichi il superamento della distinzione tra "naturale" e "soprannaturale" e apra la riflessione a una visione antropologica di carattere universale9.

    Al modello antropologico-etico vanno tuttavia soprattutto ascritti alcuni documenti di epoca conciliare, quali la Mater et magistra, la Populorum progressio, la Gaudium et spes del Vaticano II e infine la Laborem exercens di Giovanni Paolo II. La Chiesa non ha qui la pretesa di elaborare un proprio sistema ma si limita ad indicare alcuni valori irrinunciabili che ogni sistema sociale deve acquisire e porre alla base del proprio progetto di sviluppo se intende conferirgli un significato umanizzante. La fede è concepita come ispiratrice di una visione dell'uomo da cui discendono le istanze che definiscono i criteri per valutare i processi storici e indicano gli orientamenti da seguire se si vuole favorire un corretto sviluppo della vita sociale.

    All'interno di questa prospettiva è possibile distinguere una serie di documenti più radicalmente orientati nella direzione segnalata da altri nei quali, per una maggiore esigenza di concretezza, risulta ancora forte il bisogno del ricorso all'ideologia; bisogno che si traduce nell'appoggio a una ideologia esistente. La consapevolezza dell'impossibilità di dare vita a un ordine sociale e politico cristiano, in quanto dal Vangelo non è possibile ricavare, immediatamente e per via deduttiva, un progetto sociopolitico e la convinzione che esistano in ogni caso nella rivelazione precise istanze morali capaci di investire anche l'ordinamento sociale spingono la Chiesa a dare una lettura storica della realtà, vagliando con gli strumenti critici a disposizione – conoscenze sociologiche e antropologiche – le ideologie esistenti per assumere come via di mediazione delle provocazioni evangeliche l'ideologia che meglio si compone con i valori del messaggio cristiano. La fede mantiene pertanto i connotati di realtà metaetica; essa rappresenta un punto di vista escatologico, al quale è doveroso riferirsi anche nell'ambito delle scelte sociali, le quali, implicando un concreto coinvolgimento nella realtà e dovendo diventare operative, esigono l'utilizzo di un'ideologia storica – la più seguita è quella personalista – pur nella coscienza del suo limite, cioè della sua parzialità e provvisorietà. Il rischio è tuttavia che si sacralizzi un'ideologia e un sistema sociale – ideologia cristiana per designazione – ai quali la Chiesa si lega perdendo la propria autonomia e la propria forza critica.

    Diversa è invece la posizione di altri documenti – in particolare della Gaudium et spes – dove la preoccupazione fondamentale è di rifondare, in chiave teologica, il rapporto tra cristianesimo e ordinamento sociale e dove l'aspetto antropologico assume una rilevanza esclusiva10. Alla luce di alcune opzioni di grande rilievo fatte dal Concilio, quali la riscoperta della inesauribilità del vangelo, la piena ricezione dell'autonomia delle realtà terrestri, la centralità del ruolo del laicato e il riconoscimento del carattere evolutivo della realtà sociale (Gaudium et spes, nn. 43 e 75), laicità e pluralismo vengono identificati come i tratti che la riflessione sul "sociale" deve assumere, se vuole interpretare correttamente la realtà ed essere nel contempo fedele all'evangelo.

    Nella stessa direzione si muovono la Mater et magistra e la Pacem in terris, entrambe di Giovanni XXIII. Nella prima è pienamente attuata la destrutturazione dottrinaria grazie all'abbandono degli orientamenti operativi di ordine sociopolitico e alla loro sostituzione con generali idealità antropologiche11; nella seconda grande rilievo è assegnato alla fondazione teologica della dottrina sociale con l'introduzione della categoria dei "segni del tempo" che provoca un cambio di prospettiva nella lettura della storia, il passaggio cioè da un giudizio di condanna a un atteggiamento positivo incentrato sulla capacità di riconoscere in essa il farsi del regno12. Ha luogo così il ricupero del valore della storia e l'affermarsi di un'attitudine nei confronti della realtà sociale attenta alle dinamiche e alle leggi che la guidano, senza che questo significhi rinuncia ad interpretarne il corso in una prospettiva trascendente". L'attualità della impostazione antropologica ed etica risulta evidente, se si considera la profonda crisi di valori propria della nostra società e, ancor più radicalmente, la crisi dell'uomo che da essa scaturisce. Il declino della politica è infatti anzitutto connesso alla caduta di tensione morale, alla rinuncia ai valori per fare unicamente spazio a criteri di efficienza e di crescita del consenso sociale: il che conduce all'assunzione di una prospettiva estremamente limitata per la quale tutto si riduce alla mediazione tra interessi corporativi, con il pericolo che si privilegino le categorie forti e vengano penalizzate quelle deboli e che l'assenza di un riferimento oggettivo favorisca lo sviluppo di sistemi autoritari. Ma vi è di più. L'adozione di questa ottica risponde anche ad un'esigenza interna alla proposta cristiana: l'esperienza di fede, come emerge dalla rivelazione, ha un'immediata ricaduta etica, in quanto fornisce modelli comportamentali e stili di vita che riguardano l'arco complessivo delle situazioni umane e che, integrandosi, danno il via a un ethos capace di permeare di sé la vita sociale. Inoltre – anche questo non va dimenticato – l'etica è il luogo in cui diviene possibile l'incontro (e dunque il dialogo e il confronto) tra le istanze di umanizzazione provenienti da un'interpretazione "laica" della realtà – perciò frutto di argomentazioni razionali – e le istanze scaturenti dal messaggio evangelico.

    Anche questo modello presenta tuttavia alcuni inconvenienti. Esso si limita infatti ad offrire alcune costanti di carattere generale, che hanno un significato prevalentemente formale. Il passaggio da tali costanti alla determinazione dei contenuti di una vera antropologia avviene nella bibbia attraverso l'utilizzo di mediazioni storiche su cui pesano, in modo decisivo, i condizionamenti delle culture e dei sistemi sociali del tempo. Ciò riguarda, analogamente e a maggiore ragione, l'etica nel passaggio dal livello metaetico – proposta di un orizzonte di ordine valoriale – a quello normativo o prescrittivo. I pericoli più rilevanti sono in questo caso rappresentati dall'astrattezza, perciò dalla scarsa incidenza nella realtà sociale, qualora ci si attenga ai semplici orientamenti di fondo, o dalla tentazione di assumere un'antropologia e un'etica particolari, identificandole indebitamente con l'antropologia e l'etica cristiana e proponendole perciò come alternative ad altre antropologie e ad altre etiche presenti nella società, nel caso in cui si voglia dare maggiore concretezza all'impegno dei cristiani nella realtà sociale. Finirebbe per riaffiorare, in questa seconda ipotesi, sotto altro rivestimento, il rischio già segnalato dell'ideologia, la presunzione di poter dedurre cioè dalla rivelazione un'immagine globale e contenutisticamente definita di uomo e un sistema di norme etiche da applicare alla vita sociale, eludendo il confronto con le scienze umane e con le proposte storiche; rinunciando, in altre parole, allo sforzo necessario, ma faticoso, della mediazione.

    L'accentuazione della prospettiva antropologico-etica può inoltre condurre all'attenuazione e persino alla vanificazione del carattere contestativo della fede, la quale, pur non potendo essere disgiunta dal momento etico, non è tuttavia ad esso riducibile.

    3. Il modello critico-profetico

    Le forti critiche alla dottrina sociale della Chiesa, che si sono sviluppate soprattutto nell'ambito della riflessione teologica postconciliare" fino a rimetterne in discussione il concetto, sono le ragioni che hanno provocato l'esigenza dell'elaborazione del modello critico-profetico.

    Il cammino attraverso il quale si è giunti a tale esito è stato lungo e difficile. Il concetto di dottrina sociale, introdotto per la prima volta da Pio XII, ha subìto le prime critiche (sia pure elitarie) già negli anni '50 15; ma l'abbandono del termine è avvenuto soprattutto negli anni del Vaticano II. Mentre esso si trova infatti ancora nella Mater et magistra (n. 204), il Vaticano II sancisce decisamente la sua abolizione a seguito di un'accesa discussione interna16. L'aprirsi di un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo rende evidente l'impossibilità di conservare l'impianto dottrinale non più in grado di interpretare la complessità dei problemi del tempo. Il termine "dottrina" evoca infatti una lettura rigida della realtà in un ambito – quello sociale – che è invece, per definizione, mutevole, e introduce una prospettiva di carattere dogmatico, che sfocia in un sistema analogo a quello delle ideologie, con il conseguente pericolo dell'integralismo.

    A segnare decisamente non solo la rinuncia all'uso del termine, ma soprattutto il rifiuto del concetto, aprendo una stagione nuova è stato il magistero di Paolo VI, in particolare l'enciclica Populorum progressio e l'esortazione apostolica Octogesima adveniens17. Mentre la prima è significativa per l'apertura della questione sociale a una prospettiva mondiale – centrale è il rapporto tra Nord e Sud del mondo –; la seconda, oltre a scegliere la dizione molto più modesta di esortazione apostolica (anziché di enciclica) per ridimensionare il peso dottrinale dell'insegnamento sociale (cfr. n. 4) e metterne il luce l'aspetto dinamico (n. 42), presenta caratteri decisamente innovativi anche sul terreno della proposta di impegno dei cristiani. Riconoscendo che la Chiesa non è portatrice di un proprio progetto politico, ma può semplicemente indicare i valori in base ai quali regolare i rapporti di convivenza nel rispetto del pluralismo delle opzioni concrete, ed accettando la profonda differenza delle situazioni e la natura dell'annuncio mai riducibile a scelte particolari (non identificabile dunque con una "terza via"), l'enciclica spinge la comunità cristiana a esercitare un permanente discernimento critico e una testimonianza adulta (n. 4), e soprattutto a ricercare, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, soluzioni creative animate da una forte "immaginazione sociale" (n. 19) e da una tensione prospettica (nn. 36-40), per rispondere in modo adeguato ai bisogni delle situazioni concrete. Non ha torto M.-D. Chenu di rilevare che si tratta di "una dichiarazione che, nell'apparente continuità di un insegnamento sociale, in realtà capovolge il metodo seguito fino a quel momento per questo insegnamento; non più una 'dottrina sociale' insegnata in vista di un'applicazione a situazioni in movimento, ma queste stesse situazioni divengono il 'luogo' teologico di un discernimento guidato dalla lettura evangelica dei segni dei tempi. Non più deduzione, ma metodo induttivo"18.

    Rinunciando a interventi puntuali di carattere dottrinale (e ideologico) e accontentandosi di offrire direttive e criteri di giudizio più generali ispirati alla radicalità dei valori evangelici e lasciando alle singole comunità locali il compito di tradurli in soluzioni operative, ma soprattutto introducendo la categoria di "utopia" quale sporgenza critica nei confronti delle ideologie storiche, Paolo VI ha voluto sottolineare la necessità che i cristiani e le chiese assumano un atteggiamento nuovo nell'ambito della società moderna segnata da una crescente complessità e da un accentuato pluralismo culturale e ideologico.

    Diversa è, invece la posizione assunta da Giovanni Paolo II, il quale reintroduce la dizione "dottrina sociale della Chiesa"19, assegnandole tuttavia un significato diverso da quello tradizionale di carattere ideologico-dottrinale e ascrivendola direttamente all'ambito della teologia, anzi della teologia morale20.

    Non si discosta da tale visione la Centesimus annus, in cui le espressioni "dottrina sociale", "insegnamento sociale" e "magistero sociale" vengono usate in modo equivalente (cfr. n. 2) e dove peraltro l'approccio a questioni legate a situazioni in cambiamento si traduce in una maggiore contingenza dei giudizi e nell'attenuazione della rigidità delle posizioni dottrinali, nonché nella disponibilità a dare spazio al convergere di competenze diverse e al contributo specifico dei laici ai quali spetta la mediazione sul terreno operativo21.

     

    Conclusioni

    La vicenda storica della "dottrina sociale" è strettamente connessa ai profondi mutamenti che si sono verificati, negli ultimi cinquant'anni, sia nell'ambito della realtà sociale che ecclesiale. La geopolitica mondiale ha infatti subìto trasformazioni radicali, determinate tanto dal progresso tecnologico quanto dal nuovo ordine internazionale provocato dal processo di sviluppo, mentre, d'altra parte, la profonda revisione della ecclesiologia operata dal Vaticano II - basti qui ricordare testi come la Lumen gentium e la Gaudium et spes - ha costretto la Chiesa a ripensare il proprio rapporto con il mondo in un'ottica più dialogica e più costruttiva. Come giustamente osserva E. Benvenuto, la dottrina sociale non poteva non avvertire il bisogno di ridefinire "la sua ragion d'essere e il suo statuto epistemologico, all'interno della fede cristiana, della riflessione filosofica e della missione propria affidata da Dio alla Chiesa nella storia e nel mondo"22. L'orientamento dottrinale, prevalso nella prima fase, è andato soggetto ad un progressivo declino - declino che ha comportato la ridiscussione dello stesso concetto di "dottrina sociale" con l'abbandono del nome divenuto improprio -; ad esso è subentrata la tendenza a considerare la riflessione sull'impegno sociale e politico dei credenti e delle comunità cristiane in un quadro più generale, come un aspetto del progetto riguardante la missione della Chiesa nel mondo.

    La fase attuale è caratterizzata invece - come si è visto - dal prevalere di un atteggiamento più problematico, per il quale diventa centrale l'esigenza di ridiscutere l'identità concettuale della dottrina sociale e di definire a quale teologia del sociale possa (debba) ispirarsi. La soluzione non è, al riguardo, facile. Un utile contributo di chiarificazione può forse venire dalla definizione (peraltro sintetica) che di essa si dà nel documento Libertatis conscientia della Congregazione per la dottrina della fede, dove si afferma che la dottrina sociale è "un insieme di principi di riflessione e di criteri di giudizio, e quindi di direttive di azione, perché siano realizzati quei profondi cambiamenti che le situazioni di miseria e di ingiustizia esigono, e ciò sia fatto in un modo che contribuisca al vero bene degli uomini" (n. 72). Emergono qui i tre livelli nei quali la dottrina sociale si articola: i principi generali, che si riferiscono alla tradizione biblica e patristica, i criteri di giudizio che consentono un corretto discernimento delle situazioni storiche, e infine le direttive d'azione che rendono possibile un intervento diretto sulla realtà per modificarla. I limiti della dottrina sociale sono assodati, ed è evidente la necessità di orientarla, per renderne fruibile il messaggio, nella direzione di un approccio più critico-profetico. Se si vuole evitare infatti sia il pericolo dell'astrattezza, che si verifica quando ci si accontenta dell'enunciazione di principi generali, sia quello (non meno grave) dell'ideologia, che ha luogo quando si ricerca una maggiore concretezza non è sufficiente ricuperare la laicità con il pieno riconoscimento della mondanità del mondo, ma è soprattutto essenziale fare spazio alla dimensione della storicità, che dà il giusto rilievo alla diversità delle situazioni, e dunque anche alla relatività delle posizioni assunte; ed è infine fondamentale creare le condizioni per l'apertura a un sempre più ampio pluralismo sia nella elaborazione della dottrina - si pensi all'importanza di restituire centralità alla Chiesa locale e alla collegialità episcopale - sia nella individuazione delle opzioni operative.

    La dottrina sociale si presenta dunque come un corpus problematico, il cui significato è oggetto di permanente discussione e la cui fecondità è legata al verificarsi di precise condizioni capaci di assicurarle un chiaro indirizzo.

    (Giannino Piana, Vangelo e società, Cittadella 2005, pp.91-120)

     

    NOTE

    1 Tra le varie ipotesi di scansione della dottrina sociale sembra interessante quella di G. Angelini, che suggerisce una periodizzazione in tre momenti: a) "prima della contestazione"; b) "gli anni della cautela" (Concilio e Paolo VI); c) "rilancio e collocazione nell'ambito della teologia morale" (Giovanni Paolo II). Cfr. G. ANGELINI, «La dottrina sociale della Chiesa», in: AA.VV., La dottrina sociale della Chiesa, Glossa, Milano 1989, pp. 15-111.

    2 Tutta la prima parte della Rerum novarum è dedicata alla contestazione della "inefficace e ingiusta soluzione socialista". Il socialismo è soprattutto identificato con la soppressione violenta di ogni forma di proprietà privata. Probabilmente Leone XIII ha direttamente di mira il socialismo agrario di Henry George, che negava il diritto di proprietà terriera. La confutazione delle teorie socialiste è condotta "in maniera aspra e sommaria" (l'espressione è di M.- D. CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origini e sviluppi (1891-1971), Queriniana, Brescia 1977, p. 26). La Rerum novarum fa propria una concezione organicistica della società, che si discosta, come tale, anche dalla logica capitalistico-borghese, perché incentrata su un'idea di Stato che riserva maggiore attenzione alle classi più deboli.

    3 W. WEBER, «Società e stato, problemi della Chiesa», in: AA.Vv., La Chiesa del XX secolo, Milano 1980, p. 173.

    4 Si discute se la posizione di Pio XI si discosti o meno dal corporativismo statale proposto dal fascismo. Rimane, in ogni caso, vero che, con la caduta del fascismo, la sua dottrina ha perso di significato.

    5 Cfr. Th. MULDER, «Sviluppo della dottrina sociale», in: AA.Vv., I nuovi termini della questione sociale e l'enciclica Mater et magistra, Milano 1961.

    6 Tra gli studi dedicati all'analisi dell'influenza dei movimenti cristiani sulla elaborazione della Rerum novarum ricordiamo (perché più recenti) R. SCHAFERS, "Rerum novarum". Risultato dei movimenti cristiani dal "basso", in: "Concilium" 5 (1991), pp. 211-37; J. JOBLIN, La dimensione europea del movimento cristiano-sociale prima della "Rerum novarum", in: "Communio" 117 (1991), pp. 8-16.

    7 Cfr. per un approfondimento di questo aspetto J. MESSNER, Das Naturrecht, Innsbruck 1950; J. LECLERQ Leçons de droit naturel, Namur 1937. La tendenza a radicalizzare questa visione statica della realtà è confermata da Pio X, la cui azione restauratrice si manifesta soprattutto nei confronti dei movimenti sociali e politici più aperti presenti nel mondo cattolico (cfr. E. BENVENUTO, Il lieto annunzio ai poveri. Riflessioni storiche sulla dottrina sociale della Chiesa, EDB, Bologna 1997, pp. 49-95).

    8 Cfr. G. ANGELINI, «La dottrina sociale della Chiesa», in: AA.Vv., La dottrina sociale della Chiesa, Glossa, Milano 1989, pp. 22-25; H. CARRIER, Dottrina sociale. Nuovo approccio all'insegnamento sociale della Chiesa, Milano 1993, p. 109.

    9 A sostenere tale posizione è soprattutto E. Benvenuto (Il lieto annunzio ai poveri. Riflessioni storiche sulla dottrina sociale della Chiesa, EDB, Bologna 1997). Egli fa riferimento soprattutto alla Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939, rilevando come il Pontefice, introducendo, in luogo dell'appello alla legge naturale o al diritto di natura, il riferimento all'ordine della creazione come fondamento dell'uguale dignità di ogni persona, si muove tanto sul piano epistemologico che ontologico in un orizzonte diverso, che restituisce unità alla realtà, superando il dualismo tra ordine naturale e ordine soprannaturale.

    10 Decisiva è in tal senso la svolta antropologica di K. Rahner, che riporta l'attenzione sull'unità tra storia profana e storia di salvezza, contestando ogni forma di dualismo. "Non si rende certo onore a Dio – egli scrive –quando si limita il suo operare a qualche punto dello spazio e del tempo nel mondo e nella storia" (K. RAHNER - K.H. WEGER, Problemi di fede della nostra generazione, Brescia 1982, p. 105). A formulare questa impostazione hanno contribuito numerosi altri teologi – da G. Thils a H. De Lubac – i cui scritti hanno gettato le basi di una vera e propria "teologia sociale". La teologia cattolica sviluppa, in quegli anni, la cosiddetta teologia delle realtà terrestri, attenta alle reali condizioni del mondo e destinata a ridiscutere il rapporto tra naturale e soprannaturale. Grande importanza ha avuto in proposito la pubblicazione di Umanesimo integrale di J. MARITAIN (Parigi 1936), dove si afferma il pieno riconoscimento dell'autonomia del "temporale" e si sottolinea che l'ordine sociale va costruito collaborando con tutti gli uomini di buona volontà.

    11 La Mater et magistra segna per prima il passaggio ad un metodo induttivo, assumendo come punto di partenza il confronto con le esigenze della realtà contemporanea. Essa, distinguendo nettamente il momento dottrinale da quello della diagnosi storica e della proposta politica, riconosce pienamente il valore della laicità. Il fatto che la realtà non possa essere irrigimentata evidenzia la necessità del rispetto di un reale pluralismo delle opzioni politiche.

    12 Le novità introdotte dalla categoria dei "segni del tempo", che verrà successivamente ripresa anche dalla Gaudium et spes del Concilio, sono in verità molte. La prima è di ordine epistemologico, ed è costituita dalla sostituzione dell'argomento deduttivo, che faceva immediatamente appello ai principi dell'etica per giudicare la storia, con quello induttivo che rinvia all'ascolto della realtà e al discernimento nella prospettiva della speranza: si tratta del passaggio da un'ottica astratta e dall'alto a un'ottica storica e dal basso. La seconda novità, non meno importante, è rappresentata dalla piena accettazione della dimensione della laicità: i segni del tempo infatti includono processi del tutto profani che fioriscono ovunque, coinvolgendo tutti gli uomini di buona volontà, ai quali per la prima volta l'enciclica si rivolge, e segnano la fine del regime di cristianità (iniziato nella Chiesa con la svolta costantiniana), nonché la definitiva consegna ai laici dell'impegno politico. A rilevare con forza tali novità è stato soprattutto M.- D. Chenu il quale, riferendosi in particolare alla Gaudium et spes, osserva come "invece di cercare di applicare una dottrina generale ai casi particolari l'attenzione si concentra sulla lettura della storia come tale, per distinguere in alcuni fatti il loro valore simbolico, nella misura in cui questi avvenimenti costituiscono dei punti di convergenza per molte persone ed esprimono in qualche misura la loro attesa. Leggere il senso divino o evangelico di questi eventi non significa affatto astrarli dalla loro realtà terrena; è in se stessi, nella loro piena e propria pregnanza umana che sono segni. E proprio in questa realtà che la Chiesa legge in essi un'attitudine a divenire richiamo al Vangelo e soggetto di grazia" (M.- D. CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origini e sviluppo (1891-1971), Queriniana, Brescia 1977, p. 53).

    13 R. Cortese respinge con decisione le due (opposte) accuse che spesso sono state sollevate, soprattutto nel periodo dell'immediato postconcilio, nei confronti di tale categoria. "Hanno torto a mio avviso – egli scrive – sia coloro i quali hanno accusato la Chiesa, riguardo alla lettura dei segni dei tempi, di neomodernismo o di smarrimento del senso della trascendenza –quasi che l'attenzione ai nuovi valori emergenti nel mondo possa compromettere il depositum fidei – sia quanti l'hanno accusata di giocare a carte truccate, di leggere l'altro per ricuperare l'identico" (R. CORTESE, Un impegno critico e profetico. Il magistero sociale della Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1984, p. 74).

    14 Cfr. M.- D. CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origini e sviluppo (1891-1971), Queriniana, Brescia 1977.

    15 Nel 1954 H. Bartoli sottolinea la "profonda ambiguità del termine dottrina sociale della Chiesa" (H. BARTOLI, Conditionnement de la foi, in: "Esprit", novembre 1954, p. 594), e prima ancora J. Folliet evidenzia lucidamente i rischi di una dottrina sociale che sta sul crinale tra ispirazione di fondo e offerta di indirizzi operativi. "Storicamente – scrive – il cattolicesimo sociale presenta due aspetti complementari. Per il primo, viene a trovarsi nella pienezza spirituale e appare come una dipendenza della Chiesa. Per il secondo tocca il temporale e la tecnica, allontanandosi così dalla zona raggiunta dall'insegnamento sociale della Chiesa per orientarsi verso quella zona che è lasciata libera alla discussione dei cristiani..." (J. FOLLIET, Encyclopedie du catholicisme, vol. 11, col. 710)

    16 Cfr. R. Tucci, «La vie de la communauté politique», in: AA.Vv., L'Eglise dans le monde de ce temps, Paris 1967, 11, pp. 544ss. Pur avendo carattere essenzialmente "pastorale", il Concilio, che si sviluppa in un clima di grande effervescenza con una precisa volontà di rinnovamento, ha in realtà messo in radicale discussione alcuni "punti fermi" del tradizionale sistema cattolico. In verità, secondo alcuni la Gaudium et spes conserverebbe il termine al n. 76. Ma – osserva G. Angelini – "il testo è discusso. La prima formula è quella scelta dall'edizione tipica vaticana, e corrisponde al testo distribuito in aula per la expansio modorum. La seconda formula è invece quella del testo distribuito per il voto complessivo, e dovrebbe costituire quindi quella autentica" (G. ANGELINI, «La dottrina sociale della Chiesa», in: AA.Vv., La dottrina sociale della Chiesa, Glossa, Milano 1989, pp. 27-28).

    17 La Populorum progressio non usa mai l'espressione "dottrina sociale", che è sostituita con "insegnamento sociale dei papi" (n. 2), mentre tale espressione si trova una volta nella Octogesima adveniens, anche se scompare nella versione ufficiale italiana, dove è tradotta con "insegnamento": dottrina e insegnamento sono in realtà, nella lingua latina, sinonimi. La formula che, in questo ultimo documento, è prevalentemente usata è "insegnamento sociale della Chiesa" (nn. 4 e 42). B. Sorge propone in alternativa "magistero sociale" (cfr. B. SORGE, È superato il concetto tradizionale di dottrina sociale della Chiesa?, in: "Civiltà cattolica" 119, I (1968), pp. 423-436.

    18 M.- D. CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppi (1891-1971), Queriniana, Brescia 1977, pp. 44-45.

    19 La riesumazione del termine "dottrina sociale" da parte di Giovanni Paolo II avviene a Puebla il 27 gennaio 1979 nel discorso inaugurale per la terza Conferenza generale dell'Episcopato latino-americano. Partendo anche da questo dato geografico (ma non solo) G. Colombo sostiene che tale riesumazione (e rilancio) "è stata suggerita dalla reazione contro la teologia della liberazione" (G. COLOMBO, «Per l'idea della dottrina sociale della Chiesa», in: AA.Vv., La dottrina sociale della Chiesa, Glossa, Milano 1989, p. 226). E. Benvenuto, dal canto suo, osserva che la riproposta della dottrina sociale da parte di Giovanni Paolo II si inserisce "nel quadro di un disegno ecclesiologico che presenta non lievi analogie con il progetto di 'restaurazione in Cristo di tutte le cose' perseguito da Pio X" (E. BENVENUTO, Il lieto annunzio ai poveri. Riflessioni storiche sulla dottrina sociale della Chiesa, EDB, Bologna 1997, p. 92).

    20 "La dottrina sociale della Chiesa– si legge al n. 41 della Sollicitudo rei socialis – non è una 'terza via' tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un'ideologia, ma l'accurata formulazione dei risultati di un'attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o la difformità con le linee dell'insegnamento del vangelo sull'uomo e sulla sua vocazione terrestre e insieme trascendente; per orientare, quindi il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell'ideologia, ma della teologia, e specialmente della teologia morale".

    21 Cfr. tra gli studi sulla dottrina sociale quello di F. APPI, Cos'è la dottrina sociale della Chiesa, Agrilavoro edizioni, Roma 1996.

    22 E. BENVENUTO, Il lieto annunzio ai poveri. Riflessioni storiche sulla dottrina sociale della Chiesa, EDB, Bologna 1997, p. 159.           


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