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    La politica

    e «il prossimo»

    Dove si fonda l’integrazione

    Francesco Occhetta

    Nel 1958 Eleanor Roosevelt scrisse: «Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli luoghi, vicini a casa […]: il quartiere in cui si vive; la scuola o il college che si frequenta; la fabbrica, il luogo di lavoro. Sono questi i luoghi dove ogni uomo, donna e bambino cercano un’equa giustizia, pari opportunità e dignità senza discriminazione.
    Se questi diritti non hanno significato in questi luoghi, hanno poco significato anche altrove» [1].
    A 10 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Roosevelt, che era stata una delle protagoniste della stesura del testo, volle ricordare al mondo politico che l’idea del prossimo si concretizza anzitutto nell’avere responsabilità verso l’altro nei suoi bisogni concreti.
    Durante la redazione della Carta, approvata il 10 dicembre 1948, la tensione fra gli Stati era stata mediata da Jacques Maritain, all’epoca ambasciatore della Francia presso la Santa Sede, quando propose di accordarsi su «princìpi pratici comuni». Il suo approccio «pragmatico» limitò la ricerca di un fondamento al consenso su una «finalità pratica», a condizione che «non ci si domandi il perché» [2]. Ci si accordò sull’idea che la persona umana, «senza distinzione alcuna» (art. 2.1 della Dichiarazione), «ha dei diritti per il fatto stesso che è persona» [3], il cui riconoscimento pone limiti alla sovranità degli Stati, qualunque sia la loro natura ideologica e politica.
    È per questo che il testo della Dichiarazione si fonda sull’incipit: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1), perché condividono la stessa dignità. Questa scelta ha consegnato alla storia una sorta di dovere morale per i Parlamenti, «una rivoluzione umanocentrica», con al centro la persona, che è costitutivamente relazione ed è portatrice di diritti innati e indisponibili, che si possono solo riconoscere.
    Per quei leader politici lungimiranti, come Eleanor Roosevelt, Jacques Maritain, John P. Humphrey, René Cassin, dire «persona umana» ha significato optare per un valore universale, quello della dignità dell’uomo, umiliata dai due conflitti mondiali. Così la Magna Charta del diritto internazionale dei diritti umani – tradotta in 336 lingue nazionali e locali – è stata il punto di riferimento per le legislazioni statali; i suoi princìpi hanno ispirato le 130 Convenzioni giuridiche internazionali attualmente in vigore e le circa 90 Costituzioni nazionali nate o revisionate dopo il 1948. Essa però è come un vaso di cristallo, perché non è vincolante giuridicamente per la legislazione degli Stati: si limita a esserne ispiratrice e ha bisogno di politici che la condividano nei fatti, e non solo a parole.
    Alla vigilia dei 70 anni dall’emanazione di tale documento, il rispetto per la dignità del prossimo si sta eclissando: in molte parti del mondo esso è affermato negli intenti e mortificato nell’applicazione; anzi, in nome della dignità si giustificano le più feroci atrocità. Lo dimostrano alcuni grandi temi all’ordine del giorno nelle agende politiche internazionali, come la gestione dell’immigrazione, il diritto di cittadinanza, le riforme della giustizia, in cui si accentuano forme punitive rispetto a quelle riparative. Oppure l’esasperazione dei diritti soggettivi, che ha portato il Belgio a permettere a un bambino ammalato di chiedere l’eutanasia a determinate condizioni, e una parte della cultura a voler inserire tra i diritti umani la scelta di abortire, come diritto di disporre della propria libertà e di decidere della vita altrui.
    Allora ci chiediamo: che cosa rimane, nell’agire della politica, della Regola d’oro: «Non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te», e del comandamento giudaico-cristiano: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»?

    Il prossimo lontano

    In molte parti d’Europa stanno gradualmente affiorando simboli nazisti e sentimenti di intolleranza profonda che, come piccole fiammelle, potrebbero incendiare e devastare tutto ciò che di buono è stato costruito dopo la Seconda guerra mondiale. Lo scorso agosto è bastato un post (falso) su Facebook per far emergere ciò che rimane occulto e nascosto. Due uomini di colore, ritratti in foto a Forte dei Marmi, in Versilia, vengono definiti online «immigrati che bivaccano sulle panchine». I due sono Samuel Jackson e Magic Johnson: il primo una star del cinema, il secondo un personaggio famoso del basket. Sono stati fotografati dai fan mentre si stavano riposando su una panchina dopo aver fatto spese. In molti, nel racconto dei social, non li hanno guardati in volto, e così i due sono stati coperti di insulti.
    Il diverso è percepito come un pericolo, e ciò avviene quando nello spazio pubblico scompaiono i volti e non si ha più tempo di incontrarsi e di ascoltare le storie personali. Inoltre, la situazione sociale si aggrava quando i politici creano il nemico per scopi elettorali, istigano alla violenza, insinuano sospetti sui fatti e inventano notizie false.
    Il tema del prossimo e dei suoi bisogni – il fine della missione politica – è tornato a essere oggetto della riflessione di molti autorevoli uomini di cultura. Alcuni studiosi, come lo psicanalista Luigi Zoja, ritengono che la cultura occidentale, oltre alla morte di Dio – dichiarata dalla Rivoluzione francese, e poi da Nietzsche –, oggi debba elaborare un nuovo lutto: quello della morte del prossimo, la persona vicina che si vede, si sente e si tocca. La vicinanza, a livello sociale, è avvertita come un pericolo, mentre la lontananza è considerata una (pseudo) salvezza. Se nel passato incontrare da vicino uno straniero era una ricchezza, oggi ciò si è trasformato in una sorta di minaccia.
    Ma la storia insegna il contrario. Nel 1538 la Scuola di Salamanca aveva definito lo ius communicationis un «diritto naturale», che prevedeva il diritto di circolare e l’obbligo di rispettare la legge penale e i doveri del Paese ospitante. Oggi invece, quando il lontano ci viene incontro, la cultura politica non lo riconosce più come «l’altro che ti sta vicino» (in greco, plēsios). Questa nuova dimensione antropologica trova un terreno fertile nella comunicazione in Rete, che favorisce i rapporti tra lontani e la lontananza tra vicini, fra chi vive nella stessa città, nella stessa via, lavora nello stesso ufficio o abita nella stessa casa.
    Questa dinamica di allontanamento si riflette anche nello spazio vitale dell’interiorità, che l’uomo contemporaneo abita sempre meno, a causa dei ritmi di vita e degli impegni. È da qui che crescono in lui la fiducia o la paura. Così, per governare i processi umani gli attori politici sono chiamati a riconoscere la dimensione di «prossimità», che cambia la prospettiva sul lontano e sul diverso. Si distinguono positivamente i politici che amministrano conoscendo le persone e il territorio, quelli chiamati alla realizzazione di progetti inclusivi e alla coesione sociale, quelli che costruiscono comunità e comprendono i bisogni dei loro «vicini».
    Questo lo insegna anche il Vangelo. L’esperienza del buon samaritano è quella dell’uomo che diventa «politico» per gli altri, quando si ferma ad aiutare il prossimo, l’uomo spogliato e picchiato, lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. L’evangelista Luca, nel capitolo 10, descrive colui che si fa prossimo nello spazio pubblico attraverso dieci verbi precisi: «lo vide», «si mosse a pietà», «si avvicinò», «scese», «versò», «fasciò», «caricò», «lo portò», «si prese cura», «pagò»; fino all’undicesimo verbo: «Al mio ritorno salderò».
    Questo sembra un programma politico per tutti gli uomini di buona volontà chiamati ad amministrare la cosa pubblica. Secondo la Scrittura, il prossimo è una persona con una sua storia personale e un suo bisogno specifico. Questa dimensione spezza l’incantesimo degli stereotipi e delle categorie dei diversi, come i poveri, gli ammalati, gli immigrati ecc. Il buon samaritano si ferma, perché sente compassione: è l’appello del suo io a un «tu» che necessita di essere curato [4].
    L’azione buona in politica è misurata non su programmi teorici, ma sul bisogno delle persone, grazie a un «movimento mediante cui un soggetto si avvicina ed entra in contatto con un altro soggetto, così da aiutarlo e salvarlo» [5]. Per questo la pagina del Vangelo termina capovolgendo, per il lettore, la domanda iniziale: da «chi è mio prossimo?» a «chi si è fatto prossimo?».
    Ignorare il prossimo porta a fare i conti con una nuova solitudine.
    Scrive Luigi Zoja: «Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento» [6].
    Cambia anche la dimensione dell’alienazione: «Se ne parla meno, perché è ovunque. Non è più solo nella struttura produttiva, ma in quella della società, dove nessuno più è prossimo. Se tutti sono distanti, sono distanti da dove? Non esiste più un punto da cui si sono allontanati» [7]. Ma è la nostalgia di ritrovare un equilibrio e una relazione «in carne e ossa» a risvegliare la coscienza sociale. La parodia sul mondo adulto cantata da Lorenzo Fragola e Arisa lo esprime con lucidità: «Siamo l’esercito del selfie/ Di chi si abbronza con l’iPhone / Ma non abbiamo più contatti / Soltanto like a un altro post / Ma tu mi manchi […] in carne ed ossa».
    Nel rapporto tra la dimensione globale e quella locale, quest’ultima può rappresentare al tempo stesso la soluzione e il problema. La comunità politica locale può creare le condizioni per l’incontro e il dialogo a partire dall’opera di educazione alla virtù e dalla condivisione di spazi comuni. Ma la stessa comunità, al contrario, può trasformarsi in luogo di chiusura e di separazione. È per questo che, per alcuni politici, i muri sono le uniche soluzioni: «Il muro vuole “chiudere fuori”, ma al tempo stesso chiude i privilegiati dentro: proprio come la paura dei ladri spesso condanna a un ergastolo dietro le sbarre non i malfattori, ma i benestanti che li temono» [8]. È lo stesso effetto boomerang che si vive nella Rete, quando si sceglie di stare in gruppi chiusi e faziosi.
    In occasione degli esodi, quando i mari vengono attraversati – da chi ce la fa – e i muri scavalcati, questi ultimi rimangono come monumenti per ricordare nella storia la separazione. La costruzione di ponti, con i loro controlli e le loro leggi, si basa su quella premessa che viene descritta così da Umberto Eco: «La dimensione etica inizia quando entra in scena l’altro. Ogni legge, morale o giuridica che sia, regola sempre dei rapporti interpersonali, compresi quelli con un altro che la impone […]. Non si tratta di una vaga propensione sentimentale, bensì di una condizione fondante» [9].

    Il prossimo e le scelte politiche

    Tutto questo ha risvolti pratici. Qui ci limitiamo a considerare due esempi: la gestione politica dell’immigrazione e quella del lavoro.
    È noto che negli ultimi tempi c’è stata una diminuzione del numero dei migranti che arrivano sulle coste italiane. Nel luglio 2016 erano arrivati 21.229 immigrati, mentre nel luglio 2017 ne sono arrivati 2.245. Sulle acque e sulle spiagge libiche è aumentato il pattugliamento, ma – scrive l’agenzia britannica Reuters – le stesse persone che si arricchivano con i barconi oggi lavorano con i guardiacoste, grazie ai finanziamenti dell’Ue e dell’Italia. Partono meno migranti, ma le milizie libiche hanno accresciuto il loro potere.
    Quali sono le condizioni in cui versano i migranti? La loro dignità è rispettata? Che cosa significa «sicurezza», se in Libia non vengono garantiti i diritti umani fondamentali? Quale prezzo umano, dal punto di vista delle sofferenze e dei diritti negati, siamo disposti a pagare per garantire la tranquillità sociale? Queste domande si possono condensare in una sola: «Chi è il mio prossimo?».
    Nel Messaggio di papa Francesco per la 104a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato (14 gennaio 2018), quattro verbi esprimono le coordinate dell’azione politica in vista di un’integrazione umana: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
    Tornando dal suo viaggio apostolico in Colombia, il Papa ha voluto anche chiarire il metodo: «Un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza.
    Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli». Seguendo l’insegnamento di Benedetto XVI, papa Francesco esorta ad anteporre la sicurezza personale a quella nazionale, per evitare di cadere nel conflitto etnico che nel Novecento ha portato alle drammatiche «pulizie etniche».
    Rimane poi il rispetto della dignità umana stabilito nella Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
    Questi tre elementi – fine, metodo e fondamento dell’agire – ci consegnano un modello per l’integrazione dei migranti che includa la legalità e la sicurezza, come è stato ribadito più volte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
    Il secondo esempio è quello del lavoro, che oggi è afflitto da sette grandi mali che umiliano la dignità delle persone: investimenti senza progettualità; mercato senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza (princìpi); politica senza società; privilegi senza ridistribuzione; sviluppo senza lavoro.
    Ma è anche vero che il cambiamento possibile richiede che si sostituiscano i «senza» con altrettanti «con», attraverso un mutamento culturale e l’attuazione di tante scelte concrete che dimostrino che la persona vale più di qualsiasi profitto.
    Non mancano tanti esempi virtuosi a cui ispirarsi, ma occorre che il legislatore premi gli imprenditori con incentivi e sgravi fiscali, quando essi pongono al centro delle loro imprese la dignità dei lavoratori e la dimensione comunitaria.

    Il volto e la condivisione

    Su questi fondamenti antropologici e morali si basa l’agire cristiano in politica, che oggi però rischia di trasformarsi in una sorta di ritirata, in un «controesodo», simile all’esperienza – di cui parla il Vangelo di Luca (cfr Lc 24,13-25) – dei due discepoli di Emmaus, che camminavano tristi e delusi insieme a un forestiero. Tuttavia, per la Scrittura, l’atto del riconoscersi nello spazio pubblico ha un fondamento: la condivisione dello stesso pane. Nell’episodio raccontato dall’evangelista, il Signore si presenta come uno sconosciuto.
    Per i due discepoli egli è «lo straniero» per eccellenza, perché la sua vicinanza a noi va sempre «al di là delle nostre frontiere», si manifesta nella persona che ha bisogno di essere vestita, visitata, curata, sfamata.
    Lo ricorda il gesuita Michel de Certeau, quando afferma che nell’esperienza di fede Dio rimane lo sconosciuto, «altro da noi, ma anche il “misconosciuto”, colui che non vogliamo conoscere e accogliere». Non si tratta di trovarlo «più in alto», ma «sempre più lontano di là dove lo cerchiamo» [10]. L’infinito, afferma de Certeau, si sperimenta «nel passo in più», e non difendendo la propria stanzialità. Coloro che si fermano – culture, partiti, comunità – vivono nell’al-di-qua e negano l’apertura al futuro [11]. Questo è un atteggiamento personale e politico da superare, se non si vuole diventare sterili.
    Gli antichi greci parlavano di «sradicamento» (xeniteia): «Questo movimento […] consiste nel partire per altrove» [12], come aveva fatto Abramo, il padre delle religioni monoteiste. La conoscenza e la relazione si approfondiscono attraversando quelle regioni culturali, geografiche, sociali, intellettuali in cui si fa esperienza di riconoscersi nell’altro. In definitiva, le differenze che creano paura e sconcerto sono anche il luogo della ricchezza.
    Non basta affermare, come fanno i politologi, che la politica non deve occuparsi più del fondamento del suo agire. Certo, la secolarizzazione delle idee basate su proposte «deboli» e di corto respiro ha fatto dimenticare il fine verso cui tendere, lasciando posto agli emotivismi, che legittimano le convinzioni particolari come verità assolute. La politica però non è né una somma di princìpi, né una forma di governo, ma è premessa e condizione per l’agire politico. Il lievito della presenza cristiana in politica, oltre a fecondare i processi in corso, può essere solo la difesa della dignità. Ce lo ricorda la «Regola d’oro»: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12), declinata dalle principali religioni e culture. Tutto questo parte da un incontro, dal bisogno di riconoscere il prossimo e di farsi riconoscere come prossimo in una relazione che accoglie, protegge, promuove e integra.


    NOTE

    1. E. Roosevelt, Discorso per il decennale dell’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 1958.
    2. Cfr Dei diritti dell’uomo. Testi raccolti dall’Unesco, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, 12.
    3. J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, Vita e Pensiero, 1977, 60.
    4. Lo ha ribadito recentemente anche Massimo Cacciari: «Il samaritano vede l’uomo massacrato sulla strada e il suo cuore – così dice il termine dell’originale greco – va a pezzi. Il suo cuore viene ferito così come il corpo dell’altro. Una ferita che potrà essere guarita soltanto guarendo la ferita dell’altro» (M. Cacciari, «San Francesco in viaggio verso l’altro», in la Repubblica, 14 settembre 2017).
    5. P. Bovati, La porta della Parola. Per vivere di misericordia, Milano, Vita e Pensiero, 2017, 134.
    6. L. Zoja, La morte del prossimo, Milano, Einaudi, 2009, 13.
    7. Ivi, 24.
    8. Ivi, 59.
    9. U. Eco, Cinque scritti morali, Milano, Bompiani, 1997, 85.
    10. M. de Certeau, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, Magnano (Bi), Qiqajon, 1993, 29.
    11. Cfr ivi, 30.
    12. Ivi, 15.

    © La Civiltà Cattolica 2017 IV 145-152 | 4016 (21 ott/4 nov 2017)


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