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     Etica e umiltà gli antidoti

    a post-verità e «fake news»

    Perché le bufale proliferano nell'era dell'arroganza

    Chiara Giaccardi

    Per la morte della verità si cerca il colpevole, e in questi primi giorni del 2017 il web diventa terreno di scontro tra opposte fazioni che, accusandosi tra loro, mancano però il nocciolo della questione.
    Da una parte, i media tradizionali accusano i social media di inquinare l’informazione con la diffusione virale di bufale, fake news (notizie false, diffuse e/o costruite ad hoc per raggiungere certi obiettivi) e hate speech (discorso violento che istiga alla violenza). Dall’altra i social polemizzano contro una informazione faziosa, che tutela gli interessi di pochi, non sopporta di aver perso il monopolio della verità e vorrebbe mettere il bavaglio a chi parla con libertà. «Postverità », parola dell’anno 2016 secondo l’Oxford English Dictionary e termine che indica che «i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione degli appelli a emozioni e delle credenze personali», sarebbe dunque l’etichetta con cui l’establishment cerca di neutralizzare ciò che lo mette in discussione. E al fondo c’è la polemica contro ogni idea di 'verità', intesa come la visione dominante, legittimata dal potere, che si impone con violenza, e che di fatto è propaganda.
    Entrambe le posizioni colgono un punto importante ma cadono nella fallacia di chi attribuisce all’altro tutte le colpe, senza ombra di autocritica. Che ci sia un problema con l’informazione è vero. E non da oggi. Scivolata sempre più verso l’intrattenimento, monopolizzata da pochi soggetti influenti, condizionata dalla politica e dall’economia, disposta a normalizzare ciò che guardato con un minimo di lucidità è quantomeno grottesco, versa in una profonda crisi di legittimità. E ben venga il fatto che alcuni eventi mettano in evidenza tale crisi. È una buona occasione per farsi delle domande, e ripensare la funzione dei media oggi. Quanto è lontana l’epoca in cui Denis McQuail definiva i media come i 'cani da guardia' della democrazia, addetti a sorvegliare i poteri forti a servizio dei cittadini. Oggi molti di essi sembrano aver perso completamente questa capacità, trasformandosi piuttosto in cani da salotto e da compagnia, fedeli a chi offre l’osso più grosso. Ciò però non porta alla conclusione che i social in quanto tali siano il luogo della libertà e dell’indipendenza dal potere, della parresìa contro l’ipocrisia dei media tradizionali, in particolare stampa e televisione, che sarebbero i veri piazzisti di 'fuffa'.
    Anche sul web, insieme a voci e notizie che aiutano a capire, che informano su ciò che non trova spazio altrove (anche per vere forme di censura, opportunamente denunciate), che innescano processi virtuosi di consapevolezza e mobilitazione circolano istigazioni all’odio, notizie non verificate o addirittura costruite appositamente per interferire con i processi democratici, forme di populismo che alimentano odio e razzismo. Con il paradosso che il linguaggio 'politicamente scorretto' (in realtà aggressivi e spesso anche volgare) diventa una marca di 'autenticità' e onestà comunicativa. L’essere informati viene confuso con la rancorosa esibizione di appartenenza. Dimmi con chi ti schieri, e ti dirò chi sei. E se ti schieri insultando, allora significa che sei davvero convinto. È il tranello della 'doppia negazione': non nascondere la propria 'scorrettezza politica' mentre ci si scaglia contro l’establishment di turno non vuol dire essere in buona fede. La negazione di una bugia non è per forza una verità. In realtà, la crisi di legittimità dell’informazione non è un effetto della proliferazione di fake news prodotte e diffuse dal web.
    Nessun medium è immune dalla modalità di comunicazione dove le opinioni contano più dei fatti: in quanto 'discorso' sulla realtà, la notizia è inevitabilmente sempre costruita, a partire da un punto di vista. Da sempre, anche nei media tradizionalmente ritenuti autorevoli. Nessuno può pretendere di dire 'le cose come stanno': per questo occorre prudenza, rispetto, consapevolezza del limite. Tanto più che l’informazione 'ufficiale', persa dietro gli interessi di pochi, rischia sempre di smarrire il contatto con la realtà, con il mondo di cui dovrebbe parlare, con le persone ridotte a numeri e statistiche. Come aveva scritto Walter Benjamin, l’informazione diventa incapace di comunicare quando il lato 'epico' della verità, la saggezza 'cucita nella stoffa della vita vissuta', viene meno. Più concretezza sarebbe già un antidoto all’autoreferenzialità. L’unico rimedio alle fake news non è in ogni caso, come si tende a sostenere, il fact-checking, le prove a sostegno. Perché non c’è solo un problema di aderenza ai fatti: i fatti richiamati possono essere veri, ma non i più rilevanti e non è un 'positivismo 3.0' la soluzione che ci serve. La selezione è inevitabile: cosa e come selezionare è questione di giudizio e quindi di giustizia e di etica, non di una presunta neutra aderenza alla realtà. Perché, allora, le due posizioni in campo mancano il punto? Perché si tengono l’un l’altra nel fare della verità un feticcio da possedere o da distruggere.
    Il problema è che non siamo solo vittime innocenti della post-verità e dei suoi effetti antidemocratici, ma ne siamo in qualche modo responsabili, anche quando diciamo di combatterla. Quando, ad esempio, pieghiamo la complessità delle cose alle nostre ragioni, o trasformiamo questioni antropologiche fondamentali in chiacchiera o in spada da brandire contro qualcuno. O in trampolini di lancio per un po’ di notorietà personale. Quando siamo più preoccupati di posizionarci difensivamente o contro rispetto a una questione (occupare spazi) piuttosto che cercare di comprenderla nelle sue radici, nel suo sviluppo, nelle sue prospettive (nel tempo). Quando pensiamo che il giornalismo deve colpire allo stomaco, parlare alla pancia. O diventare veicolo di egemonia culturale. Viviamo in un’epoca dove il cielo è troppo basso, dove non si respira perché tutto è ridotto a misura stretta, a vantaggio immediato e individuale. A moda del momento. Dove abbiamo perso la capacità di cogliere le connessioni, e così ci rassegniamo alle schegge di nonsenso che ogni giorno ci colpiscono. O pensiamo di contrastare questa deriva facendoci crociati di una verità che pensiamo di possedere.
    E invece la verità è inesauribile e inoggettivabile (Pareyson). Dunque non si coglie che all’interno di una prospettiva sempre parziale. Che è insieme vera – dal momento che è una finestra sulla vita e sul mondo – e non vera, se pretende di esaurire quella verità con una parola definitiva e ultima. Per questo la ricchezza delle interpretazioni non è per forza segno di relativismo radicale, equivalenza e indifferenza. La verità poi non può mai essere tutta esplicita. C’è sempre una parte di mistero, una parte che ci sfugge, che chiede ascolto, silenzio per essere compresa. Umiltà. L’era della post-verità è quella, arrogante, che ha bandito il mistero e il silenzio. Daremo un contributo non se urleremo più forte degli altri, ma se sapremo custodire questo spazio di eccedenza e di libertà.

    (Avvenire giovedì 5 gennaio 2017)


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