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    Dottrina sociale

    della Chiesa

    e pastorale sociale:
    la Chiesa e il suo "altrove"

    Paolo Asolan

    La pastorale sociale come problema

    Ovvero: perché l'agire della comunità cristiana deve riguardare anche i temi teorico-pratici della dsc (dottrina sociale della Chiesa)? E in che modo i temi fin qui abbozzati costituiscono altrettanti cantieri aperti per la pastorale, cioè per l'agire che ha come soggetto la comunità cristiana? Perché tanto i laici che i pastori non possono estraniarsi dai temi sociali? E come va progettato questo agire sociale di pastori e di fedeli laici?

    Avanziamo l'ipotesi che finora la pastorale sociale sia stata perlopiù intesa generalmente come pastorale del lavoro o – ancor più specificamente – come cura pastorale degli operai o del mondo produttivo. Una pastorale che si è espressa o con interventi occasionali (sulla spinta di scioperi con cui solidarizzare, prese di posizione in occasione di particolari avvenimenti del territorio...) o con la creazione di reti imprenditoriali/sindacali, o – in altri anni – con il sostegno al partito cattolico e la fornitura di quadri dirigenti al partito stesso, o con la fascinazione dell'ideologia marxista che avrebbe riformato la Chiesa come "chiesa del popolo" dedita principalmente all'emancipazione sociale (e quindi all'assunzione di temi sociali "caldi" come temi immediatamente/induttivamente pastorali: ecologia, pace, diritti civili, questione femminile...), o, infine, con l'attivazione di scuole e di percorsi formativi di dsc.
    Azioni tra loro molto diverse, che hanno per comune denominatore quello di interessarsi di fatti/eventi/dimensioni considerati non prettamente intra-ecclesiali. La pastorale sociale si è venuta di fatto configurando come quel settore della vita pastorale che si doveva interessare di problemi o di emergenze che non riguardano la comunità cristiana, ma il suo "altrove".
    Pur coinvolgendo i cristiani (o in quanto operai, o in quanto eletti ed elettori, o in quanto destinatari di certi servizi sul territorio, o in quanto classe protagonista del movimento emancipatore), la pastorale sociale si è strutturata come un settore "ponte" tra Chiesa e mondo, nella quale la Chiesa – intesa non immediatamente come popolo dei battezzati, ma piuttosto come istituzione (corpo intermedio) presente sul territorio –poteva offrire un certo tipo di servizi (scuole, propaganda, raccolta firme, corteo/manifestazione), esauriti i quali l'istituzione non aveva altro da dire/fare.

    Alcuni fenomeni hanno messo in seria difficoltà una pastorale intesa in questo modo: la fine del collateralismo col partito cattolico per ciò che riguarda il sostegno ad un'unica forma di presenza partitica organizzata dai/di cattolici; la crisi dell'ideologia marxista e il crollo del cosiddetto socialismo reale che l'aveva implementata; le modificazioni del mercato del lavoro e della produzione, per ciò che riguarda l'operaismo ancora possibile nei primi anni Ottanta; la transizione infinita della politica italiana e i fenomeni ambigui che l'hanno contraddistinta, i quali hanno spento la carica di interesse e di impegno successiva alla rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli; l'accresciuta mobilità imprenditoriale, che ha reso difficoltosa la creazione di una rete di imprenditori che insista su uno stesso territorio, e dunque in grado di condividere le stesse frequentazioni o partecipare alle medesime occasioni formative.
    La formazione dei presbiteri più giovani pare risentire di una vistosa lacuna (non soltanto teorica, ma più ancora pratica) che riguarda proprio la Dottrina sociale e più generalmente l'impegno pastorale in campi sociali, non più avvertiti come rilevanti in ordine alla missione propria dei pastori o alla vita del gregge.

    È stata questa pastorale "occasionale" e "esclusivamente ad extra" a non saper più che senso avesse la sua azione, non tanto l'interesse della Chiesa per la società, poiché tale interesse – come si sa – è costitutivo dell'identità e della missione della Chiesa stessa, che esiste "per evangelizzare" le società umane (i popoli di Mt 28,19-20).

    Un'inadeguata mappatura pastorale

    Più in particolare, si può verificare come sia stata la mappatura dell'azione ecclesiale – così come si è venuta configurando nel trinomio evangelizzazione/liturgia/carità – ad aver contribuito in maniera decisiva all'isolamento della pastorale sociale dal resto della pastorale cosiddetta "ordinaria".

    Fu all'origine della modernità che tale triade iniziò la sua fortuna nella riflessione teologico-pratica, a partire dalla comprensione del ministero di Gesù suddiviso in sacerdotale, profetico e regale. Ripresa in ambito protestante, soprattutto dal filone calvinista, quella suddivisione fu usata per sostenere la teologia del sacerdozio comune (contrapposta antagonisticamente a quella del sacerdozio ministeriale dei preti cattolici), configurato proprio grazie al trinomio sacerdote/re/profeta. Tale trinomio vale certamente e correttamente (quando sia compreso unitariamente) per Gesù Cristo e il suo sacerdozio pastorale e vale anche per il cristiano, che nel battesimo è assimilato a Cristo. In ambito cattolico – già nel contesto post-tridentino – venne usato sempre più per strutturare la figura e la missione del pastore, soprattutto del parroco, al quale vennero attribuite le tre competenze fondamentali: magisterium verbi, ministerium gratiae, regimen animarum. Tale trinomio passò quindi a caratterizzare anche il mondo laicale cattolico, quando si cominciò (a partire dalla metà del Novecento) a valorizzare il sacerdozio comune dei fedeli, naturalmente con qualche coerente modifica: non più magisterium verbi, ma formazione catechistica; non più ministerium gratiae o dei sacramenti, ma partecipazione liturgica; non regimen anima-rum ma governo delle anime ma vita di carità.
    Nella formula più usata: catechesi/liturgia/carità.

    Dobbiamo ritenere che questo crescente ricorso al trinomio parola/liturgia/carità sí sia verificato per una ragione più profonda e cioè proprio per il progressivo differenziarsi della Chiesa dalla società, iniziato a partire dalla modernità.
    La destrutturazione della christianitas e il venir meno della coincidenza Chiesa-società, comportò per la Chiesa lo sforzo di definire se stessa e la propria presenza nella società, quindi a dover necessariamente rispondere alla domanda in che cosa consistesse l'azione pastorale. La differenziazione e la secolarizzazione sempre più pervasive hanno comportato una revisione complessiva dell'azione pastorale e la necessità di ricomporre, in maniera più persuasiva, un "intero pastorale". Questo intento, lodevole e corretto, è stato di fatto realizzato in chiave remissiva: cedendo, cioè, a quella spinta socioculturale che delimitava il campo della religione al privato e il senso pubblico della Chiesa a ruoli di supplenza socioassistenziale.
    In questo modo non solo si è contribuito all'instaurarsi della differenziazione, ma anche alla ritirata pratica della pastorale dai luoghi e dalla vita quotidiana della gente, ritenuta profana, laica, secolare, e quindi non più appartenente al proprium dell'azione pastorale. La pastorale rischia da allora di ridursi a quell'insieme di attività che si svolgono dentro la comunità, dentro la Chiesa, addirittura dentro le mura dell'edificio parrocchiale.
    Così, secondo l'interpretazione restrittiva di quel trinomio, trova autocopertura e, in qualche modo, autogiustificazione il ritrarsi circoscritto e intraecclesiale dell'azione pastorale.

    Dobbiamo riconoscere che il trinomio è messo seriamente in crisi dalle esigenze della nuova evangelizzazione. L'idea stessa di una "nuova evangelizzazione" mostra categoricamente – non solo e non tanto dal punto di vista teoretico, ma dal punto di vista pratico – che la pastorale reale, quella che effettivamente cerca di fare i conti con la postmodernità e con la differenziazione, non può essere limitata o progettata dentro a quello schema.
    È importante rilevare che una adeguata mappatura dell'azione ecclesiale in questo nostro tempo e in questo contesto deve saper distinguere senza dividere ciò che serve ad edificare la comunità nel proprio vissuto interno (ad intra) e le azioni che servono ad extra, cioè quelle che riguardano l'evangelizzazione, la missione e l'animazione delle realtà temporali (che è quanto dire – per quest'ultima – la pastorale sociale).
    Il trinomio evangelizzazione/liturgia/carità ha spinto/spinge verso una azione pastorale fortemente squilibrata: dedica molto tempo alla parte ad intra (strutturando organicamente le celebrazioni, i sacramenti, i vari momenti della vita interna di una comunità) e fatica molto ad organizzare il resto, configurando la pastorale ad extra più come una pastorale di iniziative più o meno occasionali, che come una pastorale strutturata organicamente.

    Altrove [1] è stata sostenuta la tesi di come un nuovo modello di azione ecclesiale possa utilmente essere progettato a partire dall'antropologia drammatica di Hans Urs von Balthasar, il quale ha individuato tre polarità antropologiche costitutive (anima/corpo, uomo/donna, individuo/società [2]) che a loro volta identificano tre grandi campi del vissuto umano: quello della cura dell'anima (ciò che in tedesco è espresso dal termine Seelsorge, classico e specifico nella letteratura e nel pensiero teologico-pastorale) e del corpo (le attuali pastorali della salute e del tempo libero), quello della vita affettiva (di coppia e di famiglia, alla quale appartengono tutte le generazioni), quello della vita sociale che qui ci interessa, con i temi correlati del lavoro, dell'economia e dei fenomeni/modelli che strutturano appunto la vita sociale.
    La scelta di questo paradigma romperebbe il dilemma insito nello schema ad intra/ad extra e scioglierebbe il nodo, pastoralmente così inibente, se il pastore debba occuparsi dei vicini o dei lontani, dei pochi o dei molti, di chi "viene in parrocchia" o di chi "non viene in parrocchia", della evangelizzazione o della promozione umana.
    Si tratta, infatti, di dimensioni che appartengono contemporaneamente al vissuto dell'uomo in quanto uomo (a prescindere dalla sua appartenenza o no a una religione istituzionale) e al vissuto cristiano specifico, perché sono dimensioni strutturali della persona alle quali l'ottica del Vangelo e la grazia dello Spirito Santo danno una forma specifica e originale, plastica e dinamica; dimensioni, quindi, che contemporaneamente sono missionarie e di edificazione della comunità cristiana.
    Non c'è essere umano (cristiano o non cristiano) che non sia interessato alla propria vita affettiva o che non la viva; o che non sia posto in relazione con una società di cui parla la lingua e della quale ha assunto la cultura; o che non si ponga il problema del rapporto con l'autorità civile che promulga le leggi alle quali deve sottostare. Non c'è essere umano, che non si trovi oggi a fare i conti con la questione antropologica, dalla quale dipende non solo il presente ma anche il futuro degli individui, della società e della Chiesa.
    Dunque non c'è essere umano che non sia in condizione di valutare, comprendere ed eventualmente scegliere, la via cristiana per fronteggiare le tensioni che queste polarità antropologiche quotidianamente gli pongono.

    La polarità individuo/ società

    Una tale pastorale deve potersi progettare e porre sul doppio versante di una proposta teorica culturalmente idonea (che renda ragione a livello pubblico della natura drammatica dell'uomo [nel senso di cui sopra] nonché della capacità che il Vangelo ha di interpretare correttamente quella natura) e dell'attivazione di strumenti che accompagnino strutturalmente (non episodicamente o occasionalmente) l'incarnazione di quella stessa proposta (gruppi ecclesiali, centri culturali, comitati di fabbrica, forum per professionisti, scuole, consultori, ...) nella vita concreta della comunità cristiana, secondo il principio della sussidiarietà (ciò che fa la parrocchia, non deve farlo la diocesi e viceversa).

    La polarità individuo/società si presenta così come un capitolo decisivo (e non discrezionale) per sostenere l'azione ecclesiale e segnatamente quella del pastore di una comunità.
    La giustificazione di una necessaria appartenenza a un popolo, il riconoscimento degli inalienabili (non negoziabili) diritti della persona all'interno di qualunque forma di organizzazione sociale, la critica al corrosivo soggettivismo moderno e postmoderno, passa per l'assunzione del compito – da parte del pastore – di rendere ragione dell'ineliminabile struttura sociale della vita e della cultura di ogni uomo:
    della vita di ogni uomo: «occorre qui ricordare lo zoón politikón di Aristotele, con tutte le varianti interpretative succedutesi lungo i secoli, la cui gamma si estende, vasta, tra i due estremi. Da un lato quello strutturalmente ottimistico di una Natura paradisiaca, che costituisca il modello di un'assoluta spontaneità cui guardare [...], dall'altro quello, altrettanto strutturalmente pessimistico, dell'homo homini lupus, in cui la legge (nomos) sta davanti all'uomo come completamente esterna e – ciò che soprattutto conta – vista come l'esito convenzionale dell'iniziativa di sopravvivenza dell'umana libertà» [3].
    della cultura di ogni uomo: «l'uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede» [4].

    Questa tensione tra individuo e società non è eliminabile: è strutturale, appartiene costitutivamente alla missione evangelizzatrice (gestis verbisque, Dei Verbum, 2) della Chiesa. Dunque la pastorale sociale non può che ritenersi necessaria, e la sua identità attuale deve essere compresa allargandone l'orizzonte: dalle «cose da fare per le classi lavoratrici» al compito di risignificare in Cristo la dimensione sociale della vita umana, così come essa è venuta articolandosi in questo tempo della post-modernità.
    Essa, infatti, «abbandona gli assetti sociali coesi e si assesta su una pluristratificata, complessa articolazione di sottosistemi; abbandona la cultura della stabilità, di una quasi immutabilità dell'ambiente sociale per adottare la regola del cambiamento, in cui tutto è temporaneo e provvisorio. Con l'inevitabile indebolimento delle eredità tradizionali, una conseguente labilità dei riferimenti normativi, retrocessi nel privato, e una crescente attenzione pubblica agli ambiti procedurali e produttivi. L'ambiente sociale si trasforma da comunità in società, dove la soggettività sociale non fa riferimento alla comunità, ma a ruoli formalizzati, a persone giuridiche e ad attori corporativi, che partecipano alla vita sociale, che non hanno alcun denominatore comune e nemmeno un'istanza universalmente riconosciuta. Il loro reciproco rapporto e la loro totalità come sistema sociale sono determinati unicamente dalla loro reciproca delimitazione, concorrenza e lotta, con risultati sempre e solo provvisori, che possono raggiungere un carattere vincolante solo relativo. [...] la soggettività individuale si trova così in dialettica aperta, quando non conflittuale, con la soggettività della comunità, che non appare più il luogo naturale della stessa identità del soggetto.
    Senza la soggettività della comunità, l'uomo smarrisce la propria identità: si aggrappa alla propria individualità per sostenersi, ma è come chi si appoggia sul ramo che sta tagliando: gli uomini non possono diventare tali senza le comunità sociali in cui nascono e in cui concretamente imparano a parlare, ad agire e a pensare» [5].

    La nuova questione sociale

    La nuova questione sociale, da affrontare pastoralmente, potrebbe essere così formulata: esiste qualcosa che rompa il fatto, che la totalità del sistema sociale consiste nella reciproca delimitazione/concorrenza/lotta dei vari soggetti? Che integri l'attenzione pubblica agli ambiti procedurali e produttivi e corregga la labilità dei riferimenti normativi? È possibile per un pastore sostenere ancora la possibilità di un'imprescindibile dimensione sociale della persona umana, che non sia scissa da quella privata? Della sua costitutiva e reciproca relazione a una società e a un popolo? Della sua necessità di appartenere a una società e a un popolo per essere in comunione con Cristo e poter essere così salvato?
    Si può affermare che rientra tra i compiti pastorali oggi ineludibili farsi carico di questa sfida. In un certo senso, il compito dell'evangelizzazione inscritto nel ministero pastorale passa per il coinvolgimento in tale sfida, che deciderà sia dell'inculturazione della fede sia della sua forma ecclesiale e perciò oggettiva e comunitaria.

    All'interno di questa prospettiva, assume necessariamente un'importanza decisiva la corretta comprensione del compito che spetta ai laici coinvolti nell'azione pastorale della Chiesa e quello che spetta invece ai pastori.

    a) i laici
    Affrontiamo qui il tema della corresponsabilità, della partecipazione e della cooperazione, frequentemente ed erroneamente interpretati come interscambiabili tra loro, e dunque fonte di equivoci nel momento in cui si tratta di precisare i compiti dei vari soggetti dell'agire ecclesiale [6]. H. Legrand, con una certa approssimazione, descrive l'equivoco in questi termini: «Ai nostri giorni, il ruolo dei laici e la loro responsabilità sono meno apprezzati e meno sostenuti [...] poiché la promozione dei laici sta per prendere la forma di una loro più grande partecipazione nell'attività che spettava tradizionalmente ai preti e alle suore. Ma durante lo stesso lasso di tempo, il servizio specifico che spettava ai laici, uomini e donne, che si svolgeva essenzialmente nell'ambito della professione e del lavoro è stato trascurato, come pure le sue responsabilità per trasformare il mondo della politica, dell'economia, delle istituzioni sociali. Il risultato è preoccupante. Si constata il declino delle organizzazioni dell'apostolato laico, il disdegno dei laici nelle loro occupazioni quotidiane e molto probabilmente la scomparsa di una generazione di militanti. Non vi sarebbe un'ironia della storia in rapporto al Vaticano II? Questo concilio, come era necessario, aveva aperto le finestre della Chiesa sul mondo, ma ecco che sta per uscire una Chiesa che rischia di rinchiudersi in se stessa» [7].
    Non si tratta di favorire la partecipazione dei laici, quanto la loro corresponsabilità.
    Tale corresponsabilità è radicata nella consacrazione battesimale e richiesta dalla missione evangelizzatrice implicita in quella stessa consacrazione (è il tema del sacerdozio di Cristo, a cui partecipano tutti i battezzati). La corresponsabilità non è, prima di tutto, un aiuto ai pastori, ma un'espressione della vita cristiana, che trova luogo e forma principalmente non nella cooperazione ai compiti pastorali intra-ecclesiali, ma nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro.
    È molto importante partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale innanzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intra-ecclesiali, ma in forza piuttosto della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di ognuno.
    È la cosiddetta "indole secolare" (diversamente da come riteneva Lutero) che definisce la qualità specificamente teologica del laico. È all'interno di questo orizzonte che si giustifica quella responsabilità condivisa per il Vangelo che può implicare anche il coinvolgimento attivo nella vita della comunità (dal diritto di parola alla presenza negli organismi ecclesiali).
    L'ambito dell'impegno laicale non è peculiarmente la cura pastorale della comunità cristiana, ma si esprime nella responsabilità testimoniale e nel servizio della comunità ecclesiale e sociale.
    «L'indole secolare esprime la modalità – la forma –con cui la costitutiva dimensione secolare della Chiesa si realizza nella vita della maggior parte dei fedeli, i laici: cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio». [...] L'indole secolare ha significato teologico perché dice la modalità specifica con cui il cristiano laico partecipa alla instaurazione del Regno edificando la Chiesa e operando nel mondo. [...] Il fatto che la teologia del laicato si collochi correttamente nell'ambito della teologia pratica può sembrare riduttivo soltanto a chi – con persistente distorta ignoranza – considera tale ambito teologico secondario (come se l'uomo e la storia fossero un mero accidens dell'opera di salvezza, come se l'alleanza e l'incarnazione non fossero costitutivi e "formativi" della elaborazione teologica). In tale ambito, la corresponsabilità va vissuta nella testimonianza attiva senza necessitare di mandati speciali» [8].

    b) i pastori
    Se vale questa tesi di una diversa mappatura della azione ecclesiale in questo nostro tempo e in questo contesto – che nell'individuo/società individua una delle sue priorità, e nel lavoro/vita sociale un campo che realmente occupa gran parte del tempo, delle energie e delle cure degli uomini – la centratura di tutta la pastorale a partire dalle grandi polarità costitutive renderebbe presente e attiva la guida del pastore in dimensioni centrali per la vita delle persone (centrali sia per l'interiorità che per la socialità). La reinterpretazione della funzione direttiva (o di guida) del sacerdote pastore andrebbe nella direzione di un recupero del suo ruolo – oggi offuscato se non misconosciuto – di figura autorevole in ordine alla chiarificazione e alla trasmissione del senso della vita.
    In una società dove tutta la vita era interpretata attraverso il prisma ermeneutico sacrale, tale visione sacrale delle cose, benché imperfetta, appariva senz'altro culturalmente adeguata, cioè capace di senso, compresa dalla gente anche più semplice, e integrata nel tessuto sociale. Il cambiamento rapido ed epocale dell'ultima modernità ha sfaldato tale concezione nei suoi presupposti culturali. Il codice del sacro si sta debilitando in esoterico e paranormale e non serve più a dire in forma simbolicamente accettabile le figure del ministero ordinato. Se mantenuto, infatti, le dequalifica, derubricandole nella interpretazione decisamente funzionale dei prestatori d'opera (funzionari del sacro).
    L'interpretazione sacrale dell'identità pastorale del ministero apostolico, allora, rischia o di irrigidirsi in una riduzione anacronistica, che può soddisfare alcuni, ma a prezzo dell'uscita dalla società e dalla storia; o di deformarsi nella contraffazione del santone o del guru, che trascina, manipola e plagia: sublimazioni entrambe rischiose, da cui fuoriescono i fondamentalisti e i fanatici. Agli antipodi, l'interpretazione secolarizzata, che ne declina la figura in attore sociale e/o sostegno e consigliere psicologico: assorbimento nella funzione di servizio pubblico (ma a fruizione privata), o di relazione intimistico-privatistica.
    La scelta di una diversa mappatura pastorale avrebbe come conseguenza rendere obiettivamente (e non solo teoricamente) i laici maggiormente soggetti dell'azione pastorale, in quanto direttamente e specificamente coinvolti in ciò che riguarda le polarità costitutive, famiglia e lavoro in particolare.
    L'azione di guida dei pastori si configurerebbe come promovente la vita dei laici, a servizio della valorizzazione della loro specifica vocazione, senza i riduzionismi già denunciati (clericalizzazione del laicato, schiacciamento dei laici in attività puramente intra-ecclesiali, fuga dall'impegno nel mondo).
    In questa ipotesi di riconfígurazione dell'azione ecclesiale, andrà ben compreso il "posto" occupato dalla liturgia, che non può essere né considerata né trattata al rango di un settore accanto ad altri, per la sua irriducibile natura di fons et culmen (Sacrosanctum Concilium, 10) di tutto l'agire della Chiesa.
    In una strutturazione del genere (più agile e più flessibile, ma anche meno arbitraria e indeterminata di quella attualmente vigente), gli stessi consigli consultivi o pastorali assumerebbero più efficacemente il loro ruolo di luoghi deputati al discernimento comunitario a proposito della concreta vita delle comunità, e di ciò che è necessario attivare in ordine alla maturazione delle dimensioni costitutive della vita pastorale. L'attivazione della corresponsabilità, in questo caso, sarebbe una specie di necessità interna.

    NOTE

    1 Cfr. il capitolo sulla Grammatica della socialità in P. ASOLAN, Il pastore in una Chiesa sinodale – Una ricerca odegetica, San Liberale, Treviso 2005, pp. 248- 269.
    2 H.U. VON BALTHASAR, Teodrammatica II – Le persone del dramma. L'uomo in Dio, Jaca Book, Milano 2000, pp. 335-369. Cfr. Mysterium salutis 11/2, Queriniana, Brescia 1970, pp. 243-531.
    3 A. SCOLA, G. MARENGO, J. PRADES LOPEZ, La persona umana. Antropologia teologica, Jaca Book, Milano 2000, p. 180.
    4 GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, nn. 47-48.
    5 S. LANZA, in P. ASOLAN, op. cit., p. 245.
    6 Cfr.. Ivi, pp. 434-435.
    7 H. LEGRAND, Nuovi modelli di animazione pastorale in Francia. Analisi, soluzioni pratiche e questioni ecclesiologiche, in A. TONIOLO (a cura di), Unità pastorali. Quali modelli in un tempo di transizione?, Edizioni Messaggero, Padova 2003, pp. 161-201.
    8 S. LANZA, in P. ASOLAN, op. cit., pp. 432-433.

    (da: Flavio Felice - Paolo Asolan, Appunti di dottrina sociale della Chiesa. I cantieri aperti della pastorale sociale, Rubbettino 2008, pp. 129-143)


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