Democrazia
e verità
Gustavo Zagrebelsky
Il presente contributo si articolerà in due parti. La prima, che potrebbe essere intitolata Democrazia e verità, svilupperà il problema della democrazia in relazione a coloro che si ritengono portatori della verità, per sfociare in un interrogativo conclusivo: la democrazia è un valore ultimo o ha solo carattere strumentale? In altri termini: ci si riconosce nella democrazia senza riserve mentali o, viceversa, lo si fa a certe condizioni? E, in quest'ultimo caso, chi giudicherebbe sul «se» riconoscersi e sul «quando» riconoscersi? La seconda parte del contributo sarà dedicata alla democrazia e ai suoi presupposti. Anche in questo caso si approderà a una domanda: la chiesa, con la propria dottrina sociale e le verità propugnate, può essere fondamento (o, se si vuole, il fondamento) della democrazia?
Per quanto riguarda i rapporti tra democrazia e verità, è necessario sottolineare come, in un recente passato, nelle posizioni della chiesa cattolica si sia verificata una svolta che ha fatto ritenere che questo binomio non si potesse più declinare al singolare: democrazia e verità. Alludo al travaglio vissuto dalla chiesa cattolica che ha portato papa Giovanni XXIII e poi il Concilio Vaticano II ad ammettere la possibilità di una presenza plurale dei cattolici nella vita politica. Questo significava che – ferme restando le verità di fede – nello spazio della discussione pubblica quelle stesse verità sarebbero scomparse o, per lo meno, sarebbero state interpretate a seconda degli orientamenti che il mondo cattolico nel suo complesso e nella sua ricchezza avrebbe manifestato. Questo tema era, di fatto, inedito: diverse condizioni storiche (la divisione bipolare del mondo, l'anticomunismo ecc.) avevano in precedenza indotto la chiesa a presentarsi sulla scena politica come corpo unitario che non ammetteva discussioni al suo interno. Negli anni di pontificato di Giovanni XXIII si è determinato un mutamento di indirizzo, che emerge da una lettera dello stesso pontefice: «Ora più che mai siamo intesi a servire l'uomo in quanto tale e non solo i cattolici, a difendere anzitutto e dovunque i principi della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica. Le circostanze odierne ci hanno condotto innanzi a realtà nuove». Si tratta di frasi semplici, foriere tuttavia di una svolta radicale: si annuncia l'apertura della chiesa al mondo moderno. Abbandonata la tendenza a individuare nei cattolici i propri esclusivi interlocutori, si ritiene di estendere il proprio interesse all'uomo in quanto tale.
L'enciclica Pacem in Terris del 1963 andava nella medesima direzione: «Si ammettono gli incontri e le intese nei vari settori dell'ordine temporale fra credenti e quanti non credono, o credono in modo non adeguato perché aderiscono ad errori. Queste intese possono essere occasioni per scoprire la verità e renderle omaggio». Emerge l'idea di una verità non data, ma oggetto di processi di avvicinamento. Con parole celeberrime, Giovanni XXIII invita a non confondere «l'errore con l'errante, anche quando si tratta di errore o conoscenza inadeguata della verità in campo morale e religioso. L'errante è sempre anzitutto un essere umano e conserva in ogni caso la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità». Parafrasando tale preposizione, si può arguire che l'errante va rispettato perché non è escluso che anche da questi il credente possa ricavare in futuro qualche spunto utile alla maturazione del suo percorso.
Nella medesima ottica si possono leggere la Lumen Gentium e la Gaudium et Spes: «Nella comunità politica si riuniscono insieme uomini numerosi e differenti, che legittimamente possono indirizzarsi verso decisioni diverse»: un chiaro riferimento al pluralismo. «Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica. Essi devono essere d'esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune, cioè da mostrare con i fatti come possano armonizzarsi» – questo è il problema – «l'autorità e la libertà». La Gaudium et Spes non dà indicazioni pratiche. Sono i cristiani che devono dimostrarlo pragmaticamente, e non in nome della ragione o della verità. «L'opportuna unità e la proficua diversità in ciò che concerne l'organizzazione delle cose terrene devono ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali e rispettare i cittadini che, anche in gruppo, difendono in maniera onesta il loro punto di vista». È evidente che la nozione di cittadini ha portata generale, ricomprendendo laici e cattolici. Queste proposizioni sono state intese, in quel contesto di profondo travaglio all'interno della chiesa cattolica, come un riconoscimento del pluralismo politico e sociale dei cattolici. Su questo punto hanno lavorato numerosi gruppi ormai dimenticati, fra cui i Cattolici Comunisti (esperienza in realtà antecedente), comunità di credenti di vario genere (dall'Isolotto al Vandalino, a Torino), i Cristiani per il Socialismo, l' ACPOL, le ACLI, il Movimento Politico dei Lavoratori, i Cattolici per il No al tempo del referendum, la Lega Democratica al-l' epoca del tentato rinnovamento della Democrazia Cristiana dopo il rapimento Moro e durante la segreteria Zaccagnini.
Questo fiorire di differenziazioni all'interno del mondo cattolico rompeva, o almeno metteva in discussione, l'idea dell'unità politica dei cattolici. Più in generale, il riconoscimento di un pluralismo politico e sociale organizzato dei cattolici poneva in causa l'idea fondamentale che il grande mondo della chiesa potesse presentarsi legittimamente in un solo modo: da qui il proliferare dei gruppi e il fermento all'interno dell'area cattolica. Su questa base si poteva affermare, come ha rilevato nell'ultimo libro-intervista Pietro Scoppola – protagonista delle dinamiche citate, con la Lega Democratica –, che quello è stato il momento in cui la chiesa pareva aver stabilito un rapporto di identificazione con la democrazia.
Per il resto, la relazione tra chiesa e democrazia è sempre stata problematica. Nemmeno nei documenti del Concilio Vaticano II si assume la democrazia come unica forma legittima di organizzazione politica, ma si introduce la formula dell'opzione preferenziale da parte della chiesa in favore della democrazia in quanto regime maggiormente conforme all'esigenza di rispetto dei diritti umani, della vita della persona. Ma perché, più in generale, il rapporto tra chiesa e democrazia è stato a lungo controverso e perché è ritornato à esserlo negli ultimi tempi? La democrazia è il regime in cui gli uomini si incontrano riversando nel dibattito pubblico le proprie opzioni di valore, cercando di affermarle secondo le procedure previste. Da questo punto di vista, il cattolico non si distingue affatto da chiunque altro si presenti nel dibattito pubblico per far valere le proprie preferenze: ciascuno di noi ha dietro di sé un retroterra, una visione del mondo, o si spera che ne sia depositario, a meno che non si sia nichilisti, relativisti estremi, indifferenti di fronte alle opzioni di valore. A questo riguardo, dunque, nulla quaestio, dal momento che la posizione dei cattolici nel dibattito pubblico non si differenzia minimamente da quella di coloro che si richiamano ad altri motivi ispiratori.
Il profilo dirimente è un altro: la democrazia è animata da uomini disposti non solo a dialogare, ma anche ad accedere alle ragioni altrui. Non c'è democrazia se non posso confidare sul fatto che colui con cui entro in dialogo è disposto tanto ad ascoltare i miei argomenti, come io lo sono nei confronti dei suoi, quanto a modificare le sue posizioni alla stregua delle mie. In assenza di tale condizione, si sarebbe indotti ad abolire le procedure di confronto della democrazia stessa. Qui affiora il vero problema, che in questa fase storica sembra interessare in misura prevalente la chiesa cattolica, ma in linea teorica può valere per chiunque. Se è vero che la democrazia presuppone non solo la partecipazione al confronto pubblico, ma anche la disponibilità ad aderire a posizioni diverse dalle proprie di partenza e a riconoscere le decisioni che il dibattito pubblico produce, si pone la questione della riserva nei confronti della democrazia espressa da alcuni soggetti. Ciò è palese per il mondo cristiano, segnato da una duplice e asimmetrica fedeltà che contiene in sé la possibilità del conflitto, risolto dal prevalere della parola di Dio (si pensi al passaggio degli Atti degli apostoli in cui Pietro afferma che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini). Di conseguenza, la democrazia non può essere accettata senza riserve mentali.
Chi non formula riserve si inchina alla nuda regola della maggioranza. In realtà, nessuno di noi sarebbe disposto a sacrificare del tutto le proprie premesse di valore. La democrazia, se ridotta a pura regola della maggioranza, può diventare un regime odioso, degno di essere combattuto. Contro questa degenerazione, la chiesa rivendica per sé alcune difese – tra cui l'obiezione di coscienza e addirittura la disobbedienza, in certi casi, alle leggi adottate de-mocraticamente – che potrebbero essere condivise da tutti coloro che sono portatori di un complesso di valori. La democrazia rappresenta certamente un valore, ma forse ve ne sono di superiori che neppure la democrazia può violare. Una guerra di aggressione, una politica imperialistica, la tortura, anche se democraticamente votate, creano forse imbarazzi solo al mondo dei credenti? Non è necessario aderire ai medesimi presupposti per formulare giudizi analoghi. A mio modo di vedere, dunque, la risposta alla difficile convivenza tra democrazia e valori non è categorica, in quanto non ricalca la separazione fra mondo dei credenti e quello dei non credenti. Semmai, divide nettamente il nichilismo assoluto da coloro che in qualche modo si richiamano alla dimensione dei valori che riguardano l'esistenza umana e i rapporti interindividuali. Si deve allora riconoscere che la democrazia è importante, ma nello stesso tempo rivendicare il diritto alla resistenza contro le decisioni ingiuste che toccano il nucleo irrinunciabile della nostra etica personale nella sua valenza pubblica.
Posto ciò, tuttavia, si riconosce come la democrazia porti inesorabilmente con sé il rischio del conflitto. Questa prospettiva sarebbe scongiurata a condizione che si assumesse la democrazia come mera regola della maggioranza, sulla base del principio che alla superiorità numerica della maggioranza ne corrisponda anche una di natura etica. Non è questa la mia posizione, anche se come cittadini responsabili, e forse anche come costituzionalisti, dovremmo adoperarci per restringere il campo del «non negoziabile» agli aspetti essenziali, per effetto di una considerazione di prudenza politica. Su tali questioni, ciascuno di noi e ciascuna forza politica – tra cui la chiesa, che è tale quando agisce nel dibattito pubblico – è giudice in causa propria. Solo il soggetto è in grado di definire quali punti non sono per lui negoziabili: è esclusa la possibilità di rivolgersi a un terzo che si assuma l'onere di elencarli. Ognuno di noi è sempre nelle condizioni di sottrarre una questione all'ambito della trattativa e del confronto, ma chi ama la democrazia dovrebbe considerare questa opportunità l' extremissima ratio e lasciare il più possibile aperto l'orizzonte del discorso e del dibattito. La decisione di arroccarsi ed escludere dal negoziato i temi eticamente sensibili implica un esercizio eccessivamente rigido di questa facoltà discrezionale che fa capo al soggetto, fino a pregiudicare l'avvio stesso della discussione. Quanto accaduto in Italia a proposito del testamento biologico o delle unioni di fatto è stato per l'appunto un divieto di discussione, tramite la frapposizione di un muro prima ancora che il dibattito vedesse la luce. La democrazia «discutidora», per utilizzare l'aggettivo che Donoso Cortés attribuiva alla borghesia, restituisce forse l'immagine di un parlamentarismo sterile, ma fornisce per lo meno la garanzia che, finché si discute, non si passa alle vie di fatto.
L'interrogativo, già anticipato, che conclude questa prima parte (la democrazia costituisce un valore ultimo oppure un valore strumentale?) non trova quindi una soluzione definitiva sul piano teoretico, confermando l'impressione secondo cui raramente i nodi politici sono sciolti attraverso le categorie del pensiero. Pare invece più opportuno affrontarli pragmaticamente, giovandosi della versatile arma della prudenza.
Veniamo ora al secondo punto: la democrazia e i suoi presupposti. Nella fase odierna della vita delle nostre democrazie, com'è noto, si denunciano insistentemente, e con toni talvolta così accesi da apparire strumentali, il disorientamento e la paura originati dall' assenza di rassicuranti certezze sul futuro dell'umanità, in presenza di una tecnologia che arriva a sfiorare perfino i fattori più elementari della vita, rendendo l'uomo padrone della propria esistenza e del proprio organismo. Si aggiungano a quanto appena detto le riflessioni sugli sviluppi dell'industria bellica, sulla possibile estinzione della vita sul nostro pianeta, sul mantenimento delle condizioni ecologiche e dell'equilibrio necessario per l'esistenza umana.
In questo scenario, si è posto l'accento sul problema dei presupposti della democrazia. Essa non trova fondamento in se stessa, ma presuppone come dato un insieme di principi e di valori condivisi che non sono oggetto delle procedure democratiche. La democrazia è quindi un positum: è stata stabilita convenzionalmente dagli esseri umani e come tale necessita di qualche cosa che le preesista e la sorregga. Quest'esigenza è comune a qualsiasi regime politico, ma è stata particolarmente messa in luce in riferimento alla democrazia, o – ricorrendo a una formula di Ernst Wolfgang Böckenförde che a mio avviso allude comunque alla democrazia – alle società basate sulla libertà: «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà». Per essere libero, lo Stato (inteso tanto come istituzione, quanto come condizione di convivenza) secolarizzato si è svincolato dai presupposti, senza peraltro poterli garantire. Anzi, questo particolare tipo di organizzazione sociale tende a distruggerli, consumandoli progressivamente. Böckenförde è l'ultimo allievo vivente di Cari Schmitt, del quale condivide la visione sostanzialistica della Costituzione, opposta al formalismo attribuito alla tradizione kelseniana. Il passo citato esprime l'esigenza che la vita costituzionale negli Stati basati sulla libertà si fondi su dati obiettivi, su verità oggettive, su una giustizia intesa come naturale.
L'applicazione di tale diagnosi alle nostre democrazie sarebbe infausta, arrivando a dipingerle come regimi che distruggono le proprie premesse, vale a dire i legami sociali che devono preesistere all'organizzazione democratica della vita comune. La libertà, nel-l' accezione di Böckenförde, è una condizione che consente ai singoli di avanzare pretese di soddisfacimento di bisogni individuali. Una volta che gli Stati liberali abbiano dato una risposta a queste istanze, si amplia la libertà del singolo, che qui è intesa come soddisfacimento di richieste di benessere, di pretese volte a garantirsi non tanto la vita buona, ma la vita bella, in senso propriamente eudaimonistico. Esaudito almeno in parte il desiderio di «dolce vita», per dirla in modo più efficace, la libertà risulta accresciuta, ma questa a sua volta produce nuove domande da soddisfare. Si innesca così un vortice che inghiotte tutti i legami di solidarietà e conduce al trionfo dell'egoismo sociale.
Si tratta di una valutazione che, a mio giudizio, non deve essere ignorata. Prendendo in esame le nostre società, non possiamo esimerci dal constatare che – benché non ancora fortunatamente in vista dell'ultimo stadio appena descritto – le componenti che si ergono a modello, si esibiscono, si configurano come avanguardie presentano tratti riconducibili allo schema tracciato da Böckenförde. Accentuare questi aspetti ha un esito quasi «terroristico» e sarebbe forse più responsabile valorizzare ciò che resta, la parte migliore che ancora sopravvive. Tuttavia, la diagnosi di Böckenförde, che mi pare riecheggiare la vecchia tesi, tipica degli anni Settanta, della crisi fiscale dello Stato, è degna di attenzione. Ciò che più conta, in ogni caso, è la possibile risposta a questa dinamica, che lo stesso autore tedesco paventa in un ulteriore quesito: «Fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere cioè un legame unificante che preceda tale libertà?», dove il termine che ho evidenziato è cruciale. Se questi legami non sono garantiti dalla libertà, ciò che precede la libertà non può che essere l' autorità. L'orizzonte è limitato a due possibilità: autorità o libertà. Secondo questa tesi, lo Stato liberale può reggersi solo se si fonda – in ultima analisi – sull' autorità. In linea teorica, tale formula potrebbe essere letta diversamente, con l' aggiunta della dimensione della solidarietà accanto a quelle dell'autorità e della libertà. Ma il contesto qui richiamato si riduce a due poli e la solidarietà è derubricata a sentimento che si sviluppa sulla base della libertà: l'una non può darsi senza l'altra. La domanda di Böckenförde è densa di significato poiché ne consegue che, se i regimi fondati sulla libertà non sono autosufficienti, tertium non datur: possono basarsi solo sull'autorità.
Da qui si aprono due strade. Si potrebbe seguire la linea appena illustrata e cercare di individuare l'autorità di cui si ha bisogno, concludendo che, nelle società secolarizzate del nostro tempo, l'unica riserva di autorità è rintracciabile nel mondo ecclesiastico. La chiesa rappresenterebbe cioè il tesoro di autorità cui riferirsi, ma dovrebbe essere posta nelle condizioni di esercitare la sua funzione autoritativamente. Questa è la via che assegna alla chiesa una posizione di privilegio nella nostra società. Lo sfondo di questo discorso è hobbesiano: il pluralismo dei fondamenti è interpretato come premessa di una lotta distruttiva e non come occasione di cooperazione per la costruzione dell'unità. In un recente intervento, Böckenförde ha osservato che alla chiesa cattolica (che si rivela più idonea allo scopo rispetto a quelle protestanti) deve essere riconosciuto un ruolo pubblico ed espressamente politico. Quale status attribuire agli «altri», vale a dire i credenti che non si riconoscono nella chiesa cattolica e i non credenti in generale? Su questo aspetto, la soluzione di Böckenförde mi pare inquietante: a suo giudizio, occorre che questi ultimi si abituino a vivere come nella diaspora. Tale proposta si tradurrebbe cioè nella cristianizzazione degli Stati, che consentirebbe esclusivamente ai cattolici di concepire lo Stato come propria dimora e relegherebbe gli altri alla condizione di semplici ospiti.
La strada alternativa, cui mi sento più vicino, passa attraverso il recupero delle componenti di valore della nostra società, senza considerarle monopolio della chiesa cattolica. Quando i cattolici si attribuiscono una sorta di superiorità etica fanno torto a molti altri e impediscono che si apra un dibattito costruttivo, in cui nessuno può vantare un primato morale. Anche questa seconda opzione trae spunto dalle pagine di Böckenförde che, in virtù della propria ambiguità, si prestano anche a un'interpretazione mite e dialogica, che convive con quella forte accennata in precedenza e spiega il successo ottenuto dall' autore presso lettori di differente estrazione. In particolare, il primo dei passi di Böckenförde che ho presentato – risalente alla metà degli anni Settanta – è stato citato in apertura del dialogo Habermas-Ratzinger che si è svolto a Monaco pochi anni fa. Entrambi gli interlocutori l'hanno richiamato: Ratzinger ha sottolineato l'esigenza che lo Stato liberale inverta la marcia sul cammino della secolarizzazione, riscoprendo la religione come strumento di coesione civile (se non proprio come «religione civile»); Habermas, convenendo sull'ipotesi che lo Stato liberale insidi i propri presupposti, ha suggerito lo strumento dialogico come alternativa all'autorità per potenziare la libertà, arricchendola dei contenuti di valore che permeano la nostra società. Quest'ultima è la via che noi tutti dovremmo percorrere, per quanto fedeli al principio della laicità dello Stato da cui discende il divieto che l' autorità pubblica si identifichi con una qualsiasi credenza religiosa, cui si ispira la prassi dell'equidistanza (che nel caso italiano non implica anche indifferenza).
La cooperazione fra credenti e non credenti, come fra credenti cattolici e «diversamente credenti», incontra peraltro delle difficoltà. Nel dialogo Ratzinger-Habermas si era tentato di lanciare un ponte. In particolare, era stato Habermas a farsi carico di tale tentativo, parlando di «disponibilità ad apprendere ed autolimitazione da entrambi i lati» e di «doppio processo di apprendimento». Da parte sua, Ratzinger aveva accennato a un «doppio processo di purificazione». Ma come possono interagire, in un dibattito pubblico, le argomentazioni laiche con quelle basate, viceversa, sull'adesione a una fede? Per Habermas, tutte le posizioni che si affacciano al dibattito pubblico devono farlo evitando di ricorrere alle proprie premesse considerate irrinunciabili, a partire da quelle di fede, e spendere argomenti comprensibili a tutti. Nel dibattito pubblico, dovranno cioè contare solo le argomentazioni che non mettono in campo la pretesa di verità della religione e della metafisica in quanto tali. Le premesse non sono illegittime, ma ciascuno è invitato a tenerle per sé, perché – se utilizzate – costituirebbero un ostacolo al dialogo, al compromesso, alla ricerca comune. Mettere in campo le proprie convinzioni argomentandole attraverso la fede impedisce di procedere.
Da questo punto di vista, i cattolici non si distinguono rispetto a chiunque aderisca a un generico mondo di valori. Tuttavia, sussistono dei problemi. Chi giudica se una posizione sostenuta nel dibattito pubblico è dettata da ragioni accessibili a tutti o se, al contrario, scaturisce da motivi legati all'adesione a una verità di fede? Nella discussione sulla famiglia, per esempio, la chiesa cattolica ritiene le proprie posizioni fondate teologicamente, ma le presenta contemporaneamente come un contributo al bene della società. Sotto questo profilo, la sua argomentazione dovrebbe incontrarsi con altre che si muovono sul medesimo terreno: il bene della società. Per focalizzare la questione, si pensi a una controversia ancor più concreta: l'apertura dei negozi alla domenica. Il cattolico difende ovviamente il principio di santificazione del «giorno del Signore», ma argomenta la sua posizione anche con altre ragioni (l'opportunità di ricostruire i rapporti sociali nel giorno festivo, l'esigenza di interrompere la routine quotidiana, ecc.).
Il mondo non cattolico può replicare legittimamente affermando l'irrilevanza di tali motivazioni e ricondurre tutto al movente teologico. La stessa legittimità dell'ingresso nel dibattito pubblico di un' argomentazione, in altri termini, dipende dall' atteggiamento che uno dei due dialoganti dimostra nei confronti dell' interlocutore. Si ritorna alla domanda iniziale: quis iudicabit? Chi giudicherà se la posizione della chiesa sulla famiglia o sul riposo festivo è fondata su argomenti spendibili nel dibattito pubblico oppure se sostenuta da riflessioni di natura teologica? La risposta è chiara: l'altra parte. Riducendo all'essenziale la formula habermasiana – rilevano solo gli argomenti che siano in grado di conseguire consenso indipendentemente dagli sfondi religiosi o di valore – concludiamo che hanno cittadinanza gli argomenti che le parti a confronto sono disposte ad accettare come validi, ciascuna dal proprio punto di vista. Questo non è altro che un modo per dire che si ammettono gli argomenti che si vogliono ammettere, splendida tautologia che non ci aiuta a procedere.
Anche a proposito del secondo punto che ho enucleato, dunque, mi vedo costretto a rilevare l'impossibilità di stabilire regole razionali che dividono il mondo tra ciò che si può e ciò che non si può, tra ciò che è utile e ciò che non lo è, utilizzando le tradizionali categorie e distinzioni. A prevalere è nuovamente l' appello alla prudenza nei rapporti reciproci e alla curiosità e all'apertura verso gli altri, con la consapevolezza che da più parti possono giungere contributi funzionali al percorso di ricerca del bene, del giusto, del buono, del bello, sforzo di per sé tutt'altro che insensato, ma forse destinato a non essere mai coronato dal successo.
In sede conclusiva, intendo semplicemente rilevare che non condivido l'interpretazione secondo cui la fine dell'epoca del diritto naturale, antico o moderno, avrebbe portato il diritto a essere semplicemente il coagulo di provvisori e insensati equilibri. In particolare, è il secondo aggettivo a suscitare perplessità: questo genere di affermazioni si fonda sulla premessa che nell'ambito dell'agire umano esista la verità oggettiva. Naturalmente, un equilibrio provvisorio è – rispetto a una verità oggettiva – anche insensato, perché l'unica opzione sensata è aderire alla verità. In questo modo di prospettare le cose, vedo la riproposizione di un monolitismo etico che è in contrasto con le esigenze della democrazia (su questo punto tornerò). Quando si deplora il venir meno di una morale o di una ragione oggettiva, di fronte al panorama in cui viviamo, che è segnato viceversa dal conflitto, dallo scontro, dal confronto fra morali e ragioni soggettive, non si evoca forse una battaglia per l'egemonia? Mi riferisco a una battaglia volta a far prevalere una concezione morale o una concezione della ragione sulle altre. Tutto ciò è incompatibile con la democrazia, che rappresenta invece un provvisorio, ma sensato, equilibrio. In questa formula, l'attributo «sensato» non presuppone l'esistenza di un mondo oggettivo, di una morale oggettiva, di una ragione oggettiva: è tuttavia «sensato» che le morali e le ragioni soggettive cooperino o confliggano in vista di equilibri sempre rinnovabili, in vista di una comune ricerca. La distinzione fondamentale oppone chi ritiene che esista un mondo oggettivo a coloro che, distaccandosi nettamente dal nichilismo puro o dall'indifferentismo, che costituiscono l'altro polo della dicotomia, ma non rappresentano posizioni costruttive nel dibattito democratico, muovono dall'ipotesi che il mondo oggettivo dei valori e delle ragioni può esistere o non esistere, ma non è in ogni caso irragionevole agire per un certo scopo. Questo salva il pluralismo e la democrazia così come la conosciamo. Viceversa, la comune ricerca, in un contesto in cui si confrontano varie posizioni, alcune delle quali si richiamano alla verità, pone dei problemi per la democrazia. Non comprendo perché, a proposito di questioni che attengono al giusto assetto delle relazioni sociali, interindividuali, tra le nazioni, si usi la parola «verità», quando sarebbe probabilmente più corretto ricorrere al termine «giustizia». L'una riguarda il piano della conoscenza, l'altra quello dei rapporti e dei valori: si tratta di due ambiti completamente diversi. Ricordando la legge di Hume, si discute se sia ancora valida la tesi per cui l'errore e il non errore si giustificano nel campo della conoscenza; quel che è certo è che, nel campo dei valori, le tecniche argomentative devono essere di natura differente. Io credo che attualmente il riferimento alla verità sia così frequente per una ragione retorica: chi si appella alla verità fa discorsi categorici, che implicano il binomio vero-falso. Al contrario, chi evoca la giustizia si appella a una dimensione in cui ci si può trovare d'accordo, in cui si possono formulare compromessi. Nel campo della verità, questo scenario è escluso per definizione.