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    Congresso Nazionale

    ACLI 2008

    Andrea Olivero


    “Certo alimentare di azioni un invisibile corso di storia è un atto di coraggio.
    Ma appunto la nostra fede non è una una chiara visione di contorni reali e definiti, ma una profonda tensione dello spirito che sa vedere con altro sguardo che non sia l’umano.
    Una fede autentica apre vie nuove e profonde, dà vita a una storia che non è comparabile con la vicenda di ogni giorno, ha risorse di fiducia e di speranza che non si esauriscono per un fallimento e sorpassano di gran lunga ogni concreto prodotto della sempre deficiente azione dell’uomo”. (Aldo Moro, “Presenza spirituale”, 1946)


    INTRODUZIONE
    I PARTE - MIGRARE dal ‘900
    1. FIGLI INQUIETI DEL NOVECENTO
    1.1. Migranti per passione
    1.2. Un’eredità complessa, un bagaglio leggero
    1.3. Un esodo di popolo
    2. DOPO LE IDEOLOGIE
    2.1. Passione e disincanto
    2.2. Chi capisce l’Italia?
    2.3. Schierati per il bene comune

    II PARTE - ABITARE IL PRESENTE
    1. NEI LUOGHI DEL RISCHIO
    1.1. La sfida della globalizzazione
    1.2. La sfida della multiculturalità
    1.3. La sfida dell’ambiente e dei beni comuni
    2. ASCOLTARE, PARTECIPARE E DECIDERE. VERSO UNA DEMOCRAZIA
    SOCIALE E DELIBERATIVA
    2.1. Quale governance mondiale
    2.2. Quale governance europea
    2.3. Quale governance locale
    2.4. Quale governance associativa
    3. NUOVA RETE, NUOVA ASSOCIAZIONE

    III PARTE - SERVIRE IL FUTURO
    1. RIAPRIRE I SENTIERI INTERROTTI DELLA SPERANZA
    2. EDUCARE A NUOVE FORME DI CITTADINANZA E DI PARTECIPAZIONE
    2.1. Rispondere all’emergenza educativa
    2.2. Finanza etica e consumo responsabile come strumenti di coesione sociale
    2.3. Per una cittadinanza familiare
    2.4. Dall’integrazione all’innovazione: il Punto Famiglia
    CONCLUSIONI


    Cari amici, carissimi ospiti che avete voluto essere qui con noi in questo giorno speciale, il primo maggio per noi aclisti è carico di valore: richiama alla memoria il 1955, la grande folla a piazza del Popolo e a piazza San Pietro, trepidante nell’attesa dell’annuncio di Pio XII che rese quella giornata festa liturgica di San Giuseppe Artigiano, dando così ai lavoratori un protettore e un senso cristiano alla festa del lavoro. Ma il primo maggio vuol dire anche lotta, sofferenza in tante battaglie perse e vinte nel cammino per dare dignità ad ogni lavoro e ad ogni lavoratore.
    Anche oggi, entrati nel XXI secolo, abbiamo festeggiato: in modo insolito, forse anche bizzarro agli occhi di qualcuno. Eravamo stamattina con i bambini di Roma, in Galleria Alberto Sordi, per proporre loro, attraverso la pedagogia del gioco, una riflessione sulla più drammatica sfida che il mondo del lavoro ci ha messo in questo anno trascorso davanti agli occhi: la sicurezza delle persone, la tutela della vita e della salute. Abbiamo voluto dire ai bambini – e, tramite loro, a tante famiglie – che la sicurezza è diritto e dovere di tutti, da esigere, ma anche da costruire insieme. Forse per sfida, forse per missione, abbiamo iniziato questo Congresso, che vuol farci migrare dal Novecento, con chi quel secolo lo sentirà lontano. E abbiamo modificato il nostro linguaggio, il nostro stile comunicativo, come faremo in altri momenti di questo Congresso, illustrando la straordianria esperienza di Scommessa Italia, la campagna che ci ha portati ad incontrare centinaia di storie di “ordinaria follia” di cittadini generosi e a raccontarle per renderci tutti più ricchi.
    Cari aclisti, siamo qui per celebrare il nostro XXIII Congresso nazionale che ha per tema, già nella sua formulazione, una evidente indicazione programmatica: “Migrare dal Novecento, abitare il presente, servire il futuro. Le ACLI nel XXI secolo”.
    Anche questa volta la posta in gioco è alta, non meno che in altri decisivi ‘passaggi’ della nostra storia di oltre 60 anni, da quando cioè, il nostro fondatore Achille Grandi, nel 1944, ha osato scommettere su una scelta che fin da subito apparve ai suoi occhi come un “grande compito”.
    Si, cari amici delle ACLI, la bellezza e la tensione emotiva di questo momento sta proprio nella consapevolezza di essere chiamati a vivere anche oggi un nuovo “esodo” come popolo di pellegrini che, lasciandosi alle spalle l’intenso e travagliato XX secolo, percorrono strade che conducono verso una terra incognita e carica di futuro.
    Siamo consapevoli che «ogni generazione deve anche recare il proprio contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di bene», come scrive Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, incoraggiando i cristiani di oggi.
    Ma proprio perché figli, a nostra volta, di generazioni che ci hanno preceduto nella preghiera, nella speranza, nella sofferenza e nella lotta, da buoni pellegrini sappiamo anche che la nostra bisaccia non è assolutamente vuota poiché non pochi valori e segnali di percorso, che ci hanno accompagnati in passato, li custodiamo ancora oggi dentro di noi, con orgoglio e fierezza.
    La ricca e intensa tradizione del Movimento aclista, che siamo abituati a riassumere nelle tre storiche fedeltà al mondo del lavoro, della democrazia e della Chiesa, e che rappresentano lo spazio pubblico entro cui si è espressa la nostra azione sociale e politica, dovranno essere rideclinate alla luce di quella nuova “consegna” che ci è stata affidata direttamente da Benedetto XVI nei termini di una fiduciosa e sorprendente fedeltà al futuro.
    Fin dalle loro origini le ACLI hanno imparato a stare nel cambiamento, al punto che esse sono venute forgiandosi come movimento di frontiera tra modernità e tradizione, tra appartenenza ecclesiale e impegno laicale nel mondo, tra cultura del lavoro e cultura d’impresa e, negli anni più recenti, tra questione sociale e questione antropologica.
    Ma in quali avamposti della storia - ci chiediamo oggi - saremo chiamati a collocarci per poter essere anche in futuro un movimento di frontiera?
    Il tratto di strada che abbiamo già compiuto ci ha insegnato che prima del cambiamento delle strutture e delle istituzioni, viene il cambiamento che saremo in grado di attuare nelle nostre coscienze, a partire dal modo di pensare e di agire, poiché il cambiamento più profondo e decisivo inizia proprio da noi stessi.

    I PARTE - MIGRARE dal ‘900

    1. FIGLI INQUIETI DEL NOVECENTO

    1.1. Migranti per passione
    Le ACLI vogliono “migrare dal ‘900”. Vogliono pensare il mondo in modo nuovo, vogliono congedarsi dal secolo nel quale sono nate. Perché?
    Nei nostri “Orientamenti congressuali” abbiamo parlato di una “migrazione cognitiva”. Sembrava un’istanza un po’ astratta, una dichiarazione d’intenti e perfino una velleità.
    Due elementi hanno smentito questa legittima preoccupazione.
    Anzitutto: il ricchissimo percorso congressuale, che ha discusso, integrato, declinato nella concretezza del radicamento capillare del nostro movimento, una tematica ambiziosa. Attraverso le voci che numerose si sono levate dalle diverse realtà, provinciali e regionali, dagli interlocutori istituzionali e sociali che hanno accolto il nostro invito a misurarsi con questa riflessione, ci siamo convinti che questa “migrazione” ci appartiene, proviene dalla nostra stessa storia, dalla responsabilità che come laici credenti impegnati nel sociale ci interpella. È nel cuore della nostra mission .
    Siamo migranti per passione, vogliamo capire il mondo nel quale viviamo perché ci stanno a cuore le persone, i loro bisogni, i loro desideri, le relazioni nelle quali è in gioco il senso della loro vita.
    A partire dalle famiglie, nelle quali imparano ad amare e ad essere amati, a riconoscere e ad essere accolti. Dai luoghi del lavoro che rimangono al centro dell’impegno aclista, banco di prova della dignità e dei diritti inalienabili della persona umana che nessuna trasformazione del mercato può mettere in discussione.
    Dall’azione volontaria che dà forma al bisogno di prossimità e gratuità, di fratellanza e di solidarietà, dentro un’economia del dono che la prevalenza della dimensione utilitaristica dello scambio rende ancora più urgente e umanamente irrinunciabile. Fino ai nuovi “nomi” della questione sociale: globalizzazione, vita, immigrazione, che si aggiungono, e certo non si sostituiscono a quelli più antichi di giustizia, pace , fraternità.
    Un’altra e più recente circostanza ci ha convinto della validità di questo nostro “esodo”. Le recenti consultazioni elettorali, da qualunque punto di vista e di appartenenza le si voglia guardare, hanno radicalmente cambiato il panorama politico del nostro paese. Tornerò più dettagliatamente su questo punto. Per ora mi preme sottolineare che la democrazia italiana e le sue forme di rappresentanza sociale e politica hanno subito un’accelerazione così forte che ha sorpreso tutti. Vincitori e vinti. Non siamo usciti solo dalla Seconda Repubblica o dal bipolarismo imperfetto dall’ultimo quindicennio. Il “voltare pagina” questa volta ha travolto culture politiche novecentesche e perfino ottocentesche (pensiamo al partito socialista...). È un fatto che si impone all’osservazione prima di essere un fenomeno che chiede una valutazione.
    Dunque: il coraggio di congedarsi dalle categorie, dagli “occhiali” che ci ha lasciato il secolo scorso è una sorta di necessità. Lo rivestiamo della nostra passione civica, perché non si trasformi in una triste “de-moralizzazione” nel senso letterale: non vogliamo che la fine delle ideologie ci consegni ad una politica senz’anima. Che il disincanto che si accompagna al tramonto delle utopie novecentesche e alle “grandi narrazioni” ,anziché liberare nuove energie del pensiero e dell’azione abbia come esito finale un cinismo diffuso.
    La voglia di guardare al Novecento dalla prospettiva del futuro, di superare “nella testa e nel cuore” quello che va salutato, con rispetto ma senza rimpianto, viene alle ACLI dalla profondità della loro vocazione popolare. Non siamo storici di mestiere. Non ci interessano operazioni di ambiguo revisionismo o frettolosi rovesciamenti di prospettiva sul passato.
    Migriamo dal Novecento condotti dalla passione e dall’impegno per coloro che, nei mutamenti impetuosi del nuovo secolo, rischiano l’invisibilità , rischiano di non avere più voce, rappresentazione sociale e rappresentanza politica. Vogliamo capire il XXI secolo per interpretare i bisogni popolari, della gente comune, di quanti lavorano, sperano, soffrono, desiderano nell’ordinarietà della vita quotidiana.
    La passione civile è anche profezia spirituale. La lettura del presente con occhi nuovi o rinnovati è fede incarnata nella storia e nelle sue vicissitudini, spesso tumultuose, sempre kairòs, tempo opportuno per la responsabilità dei discepoli del Signore della storia.

    1.2. Un’eredità complessa, un bagaglio leggero
    Siamo e ci sentiamo eredi del ‘900. Le ACLI vogliono entrare nel XXI secolo senza indulgere alla smemoratezza o al nuovismo. Rischieremmo perfino di incorrere in una forma di modernizzazione conservatrice, di cui vediamo esempi eloquenti nel panorama politico italiano. Il fenomeno leghista, per entrare nel concreto, può essere interpretato in questa chiave, là dove incarna gli interessi dinamici del Nord produttivo e insieme le paure xenofobe per un mercato globale che rischia di travolgerlo.
    Un’innovazione autentica delle ACLI passa invece attraverso un passaggio al nuovo che fa i conti con la complessa eredità del secolo scorso. Bisogna esercitare la virtù del discernimento e scegliere con attenzione e rigore quello che vogliamo portare con noi, nella nuova pagina di storia che vogliamo scrivere.
    Il bagaglio deve essere leggero. Vale a dire, essenziale. Dobbiamo portare nel nuovo secolo i nostri tratti identitari, reinterpretandoli alla luce delle nuove sfide e dei nuovi bisogni sociali. Poggiamo sul ‘900 uno sguardo appassionato e lucido, nello stesso tempo.
    Ce ne sentiamo protagonisti e, per la nostra parte, anche responsabili.
    Le conquiste che ha portato nella vita di milioni di persone – prevalentemente, occorre riconoscerlo, nella parte sviluppata del mondo – non vanno dimenticate. Anzitutto, nel mondo del lavoro, quello che ci è più vicino, nel quale la centralità della persona umana non si è mai allontanata dall’orizzonte della consapevolezza dei lavoratori, anche a fronte di una finanziarizzazione dell’economia crescente e ormai globalizzata. Voglio dire che se oggi la precarietà è riconosciuto come un problema che mette in forse la dignità e il senso del lavoro, e non solo la sopravvivenza del lavoratore, ciò si deve alla cultura del lavoro comunque affermatasi nel secolo scorso.
    Ma possiamo aggiungere, nel patrimonio che non va perduto, anche il tema essenziale dei Diritti umani, della cui Dichiarazione Universale ricorre proprio quest’anno il sessantesimo anniversario. Lo ha ricordato nel suo recente e forte appello alle Nazioni Unite papa Benedetto XVI ricordando che essi “ sono sempre più presentati come linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali”: da qui per il pontefice la deduzione di un “nuovo” diritto-dovere e di un nuovo principio da lui originalmente definito come responsabilità di proteggere. Siamo oltre l’ingerenza umanitaria. La declinazione post-novecentesca della solidarietà tra i popoli nelle parole di Benedetto indica il fondamento etico dell’interdipendenza. Per noi delle ACLI questo significa che aver “assunto” la globalizzazione implica ora il compito di trasformare un”dato” storico ed economico in un nostro riconoscibile valore.
    Il secolo scorso ci consegna anche il compito di riaffermare la nostra responsabilità di laici credenti impegnati nel sociale e dunque nella poltica. Come onorare e rivitalizzare questa eredità, così impegnativa? Ce lo siamo chiesto più volte, anche in tempi recenti, a fronte delle fibrillazioni delle forme partitiche di una politica italiana implicata in una transizione che sembrava infinita. La responsabilità dei cattolici rispetto alla democrazia del nostro Paese affonda le sue radici nel ‘900. È frutto di un lungo percorso che è approdato - nei primi decenni del secolo - alla fondazione del Partito Popolare di Don Sturzo, e poi alla fase decisiva della Assemblea Costituente. Le origini delle ACLI sono qui situate e il nome di Achille Grandi è l’emblema di questo storico intreccio.
    Una storia complessa, un’eredità da portare con legittimo orgoglio, ma anche con la consapevolezza che anche in questo come in ogni altro modo in cui la fede e la politica si incontrano, la prima è destinata a non riconoscersi mai compiutamente nella “provvisorietà” della seconda. Le parole di Aldo Moro che ho scelto come esergo della mia relazione, lo dicono con rara efficacia. E mi voglio fermare ancora sulla figura di Aldo Moro. I trent’anni che esattamente ci separano dalla sua tragica morte sono stati occasione di rivisitazioni di carattere storico e giornalistico. Eppure, non possiamo non riconoscere che si annida nel delitto Moro un nodo della storia del nostro ‘900. Certamente, una cesura tragica nella vita politica italiana. Tutti sappiamo che in quella morte l’accecamento ideologico del terrorismo toccò il suo vertice, andando a colpire l’uomo-simbolo della stagione di rinnovamento aperta con il centro-sinistra dei primi anni sessanta. Ma è altrettanto vero che quella morte, con gli aspetti “privati” legati alle lettere alla famiglia, con l’intervento drammatico del vecchio pontefice Paolo VI e il suo appello “agli uomini delle Brigate Rosse” rappresenta per chi, come noi, crede nella necessità di testimoniare la fede nella storia e nel concreto impegno sociale, un monito da portare oltre il Novecento e le sue ombre più dense.

    1.3. Un esodo di popolo
    Dobbiamo migrare dal Novecento come grande associazione popolare. Tra tutti questo è forse il compito più arduo, ma anche quello più necessario.
    Se l’ingresso nel XXI secolo fosse riservato ad un ristretto gruppo di dirigenti che l’hanno pensato e voluto in solitudine aristocratica, sarebbe un vero tradimento della nostra più profonda identità. E questo toglierebbe al coraggio di voltare pagina gran parte del suo valore . Anzi: della sua stessa legittimità e credibilità.
    Sì, un esodo di popolo è quello a cui le ACLI sono chiamate, misurandosi con le nuove sfide e ricorrendo a nuove chiavi interpretative, restando fedeli ai valori e ai bisogni – di democrazia, giustizia, partecipazione e solidarietà- che non mutano nel variare delle fasi storiche, se non nelle forme con cui si presentano.
    “Sortire insieme” dai problemi, come diceva il forse troppo citato Don Milani, è politica. Dunque è solo la popolarità di questo cammino che, traghettandoci compiutamente nel nuovo millennio può, in un certo senso, garantire che siamo sempre noi e che il rinnovamento delle nostre idee e delle stesse forme organizzative non intacca il nucleo identitario che ci accompagna da sessant’anni.
    La nostra identità di associazione popolare richiama la nostra vocazione pedagogica originaria e originale. Il compito si fa più arduo proprio in questo crinale nuovo, in questo andare verso una terra “incognita” che si apre nella direzione del futuro, solo in parte già avvistabile. Di qui due fondamentali indicazioni operative: la centralità della formazione e la necessità di ripensare le nostre forme organizzative. Sono due volti di una stessa strategia. La formazione intra-associativa assolve il compito di trasformare un’esigenza cognitiva in una consapevolezza diffusa. Le forme organizzative traducono il passaggio nella quotidianità del “fare le ACLI”, con efficacia ed efficienza.

    2. DOPO LE IDEOLOGIE

    2.1. Passione e disincanto
    Possiamo interpretare la nostra collocazione post-novecentesca in diversi modi. Il più semplice è quello di sentirci non tanto eredi di un secolo complesso, ma piuttosto orfani e per così dire postumi a noi stessi.
    Nella proliferazione dei post- (post-moderno, post-fordista, perfino post-global…) in cui si esprime la temperie del nostro tempo, certamente quella più diffusa nella vulgata politica è l’accoppiata post-ideologico. Difficile negarla, troppo facile tirare un sospiro di sollievo che fa piazza pulita non solo delle ideologie, ma anche delle idee e perfino degli ideali, con i valori che li accompagnano.
    Le ideologie hanno costituito per tutto il secolo scorso – e almeno fino al “fatale” ’89 con il crollo del Muro berlinese – delle grandi cornici di riferimento. Apparentavano le masse, davano identità, dispensavano molti dalla fatica di comprendere “in proprio”, erano “narrazioni” condivise immediatamente disponibili. L’ideologia semplificava ciò che diventava sempre più complesso, ma allontanava dalla concretezza e dalla realtà. Sembrava il prezzo da dover pagare al “pensare in grande”.
    Mi piace ricordare una canzone di Giorgio Gaber (tra i primi e più discussi critici di quella cultura) che interloquiva con gli appassionati del genere con un provocatorio “Chiedo scusa se parlo di Maria”. Era il richiamo alla dimensione privata e affettiva che allora non trovava posto nei proclami ideologici.
    Forse il ’68 ha rappresentato il punto di massima emersione delle ideologie, e per questo il giudizio che se ne dà, nel suo quarantesimo anniversario, ancora oggi è un segno di…appartenenza ideologica, un discrimine tra detrattori e irriducibili, nel quale tornano in vita le certezze destabilizzate dall’esaurimento delle culture politiche del secolo scorso. Nel coro di pamphlets, articoli e di giudizi spesso troppo interni (complici o di repulsa), nei quali la testimonianza fa agio sulla valutazione pacata, emerge l’orgoglio dell’”io c’ero” e perfino - come è stato acutamente osservato- una “concezione patrimoniale della storia” che apparterrebbe solo a chi l’ha vissuta.
    La domanda più interessante però non riguarda l’allora, l’interrogativo se dobbiamo o meno disfarci del ’68 e del suo mito. Analoga controversia è emersa recentissimamente a proposito della Resistenza e il capo dello Stato ha risposto come meglio non si poteva, nel suo intervento a Genova. Dobbiamo invece chiederci che cosa ne è della politica e della democrazia oggi in questo paesaggio post-ideologico.
    Le ACLI sono nate con una vocazione ideale forte, nella passione civile e democratica del primissimo dopoguerra. Quel “grande compito” a cui con trepidazione e slancio alludeva il nostro fondatore Achille Grandi era, lo possiamo ben comprendere oggi, già oltre il clima ideologicamente acceso di quel momento storico del nostro Paese.
    Come interpretare diversamente la definizione delle ACLI come di un possibile “esperimento” da mettere alla prova della storia e la funzione di ponte tra culture e realtà diverse che la nostra associazione si assumeva, coniugando fede e impegno sociale, dottrina della Chiesa e mondo del lavoro?
    Credo insomma, amici, che la fine delle ideologie non ci esalta e non ci spaventa. Vediamo in questa circostanza piuttosto la sfida a mantenere alto il profilo ideale e valoriale della nostra presenza nella vita del Paese. È per noi lo stimolo a generare nuovi pensieri e nuove forme di azione sociale, sapendo che non ci sono risposte pre-confezionate.
    Se il discernimento comunitario ed il confronto con il Vangelo è sempre stato uno degli elementi cardine dell’impegno dei cattolici nel sociale ed in politica, questo assume ancor più rilevanza con la fine del partito di riferimento dei cattolici e l’avvio di quella “diaspora” che li ha portati a collocarsi in tutte le differenti forze politiche in campo. La pluralità di opzioni è oggi valutata positivamente dalla Chiesa, purché ad essa si accompagni, appunto, discernimento e retta valutazione delle implicazioni che ogni scelta comporta.
    È con questo spirito che si sono mosse le grandi organizzazioni ecclesiali che hanno dato vita sei anni fa a Retinopera e che oggi hanno deciso di rilanciare questa preziosa rete sociale ed ecclesiale. Un luogo di discernimento, innanzitutto, dove i principali dirigenti di associazioni, movimenti e nuove realtà ecclesiali possano confrontarsi con la Parola e tra di loro, per arricchirsi vicendevolmente e, laddove possibile, ricercare vie comuni nell’impegno sociale. Sono certo che con l’impegno di Franco Pasquali, da poco eletto coordinatore, e di tutti gli associati si potrà dare nuova linfa a questa piccola pianta, chiamata a rafforzare la presenza organizzata dei cattolici sia nella Chiesa, sia nella società italiana. La lunga transizione politica italiana, come tutti sappiamo, ha messo i nostri Pastori nella situazione di dover talvolta esprimere posizioni che – secondo il Concilio ed i successivi interventi magisteriali, a partire dalla Christifideles laici – cadono sotto la responsabilità dei laici. È venuto il momento, come ribadito nel Convegno Ecclesiale di Verona, di “accelerare l’ora dei laici” perché “riconoscere l’originale valore della vocazione laicale significa, all’interno di prassi di corresponsabilità, rendere i laici protagonisti di un discernimento attento e coraggioso, capace di valutazioni e di iniziativa nelle realtà secolari, impegno non meno rilevante di quello rivolto all’azione più strettamente pastorale (Nota Pastorale dopo Verona).
    Retinopera può quindi essere il luogo adeguato dove riaggiornare la categoria dell’autonomia laicale, tenendo in considerazione il confronto nella comunione, dove, «le diverse vocazioni devono rigenerarsi nella capacità di stimarsi a vicenda… Tra pastori e laici, infatti, esiste un legame profondo, per cui in un’ottica autenticamente cristiana è possibile solo crescere assieme o cadere insieme» (Nota Pastorale). Il nostro amore per la Chiesa, che è fondamento della nostra stessa esistenza e autonomia, ci spinge a fare fino in fondo la nostra parte in questa direzione, anche collaborando, nella diverse forme, all’azione pastorale.
    In particolare voglio sottolineare l’importanza di dare un contributo fattivo alle Commissioni diocesane per la Pastorale Sociale e del Lavoro, strumento fondamentale per far divenire la Dottrina Sociale della Chiesa parte integrante della pastorale e ricchezza comune del Popolo di Dio, oltre che offerta di senso ai tanti non credenti o diversamente credenti che guardano a noi con fiducia. Nelle attività formative e nelle azioni concrete che ne possono scaturire – basti pensare al Progetto Policoro, che è stato recentemente rilanciato per accrescere la comunione tra le Chiese locali del Nord e del Sud del nostro Paese e dare risposte concrete ai bisogni dei giovani – noi dobbiamo portare tutto il bagaglio associativo e la passione sociale che ci muove, senza riserve.
    Il rapido cambiamento del quadro politico e, ancor più, la fine delle ideologie, insieme con la necessità crescente di allargare gli spazi della democrazia sociale, ci spinge anche ad investire con più convinzione nel principale soggetto rappresentativo della società civile, il Forum del Terzo Settore. La crescita delle organizzazioni aderenti e lo sforzo di strutturazione territoriale, soprattutto al Sud, non hanno per ora prodotto quel cambio di passo che riteniamo necessario per essere davvero riconosciuti come parte sociale sia dalla società che dalla politica. In qualche modo il Paese, cosciente o no, continua a leggere la realtà con gli occhi del Novecento, semplificando e non vedendo le tante, tantissime esperienze organizzate di società civile esistenti, che hanno assunto una loro specifica politicità e vogliono dare rappresentanza ai propri aderenti anche nell’agorà politica. Il Forum – oggi significativamente guidato da due portavoci donne, quasi a dire quanto la società sia più avanti della politica – deve quindi cambiare strategia e rendersi più intellegibile per tutti i suoi interlocutori, anche superando alcune rigidità che gli sono proprie.
    In primo luogo dovrà ridefinire i suoi obiettivi, sia di strategia politica sia di tutela e promozione del Terzo Settore, enucleando le priorità e creando intorno ad esse un pensiero condiviso. In secondo luogo dovrà affrontare la sfida di una nuova governance, per poter davvero essere rappresentativo e capace di portare avanti le sfide che si prefigge. In particolare credo sia venuto il momento di superare l’ormai tradizionale sistema decisionale, legato ad appartenenze politiche e religiose delle diverse organizzazioni – vere o presunte, peraltro – che paiono non esistere più nella realtà. Anche per il Forum, insomma, occorre una migrazione dal Novecento, senza la quale il rischio di scomparire è concreto e reale.
    Le ACLI nel Forum devono scommettere fino in fondo, sia per la ricchezza che esso manifesta – basti pensare a quante amicizie si sono sviluppate al suo interno tra le nostre organizzazioni, che in molti casi hanno portato a concrete realizzazioni progettuali (con l’ARCI, la Compagnia delle Opere, Legambiente e tanti altri…) – sia per la possibilità che esso garantisce di giocare fino in fondo la carta della politicità del civile. Di questa vi è un bisogno grandissimo, anche e soprattutto in questa stagione del Paese: da qui scaturisce la richiesta, che noi reiteriamo al nuovo governo e a tutte le forze politiche e sociali, di dar vita in questa legislatura ad una Convenzione costituente, incaricata di proporre nuove regole condivise per innovare il Paese, soprattutto intorno ai nodi cruciali del welfare, del lavoro, della sussidiarietà e della partecipazione democratica. Una Commissione Attali all’italiana, l’ho definita, per chiarire che non vogliamo solo parole, ma un confronto su proposte concrete, dove noi sappiamo di poter dare uno specifico contributo.

    2.2. Chi capisce l’Italia?
    A caldo, la sera di lunedì 14 aprile, Nichi Vendola ha affermato «Siamo usciti dal Novecento. Domani nulla sarà più come ieri». Come al solito il presidente della Regione Puglia ha visto bene e ancor meglio, credo, avevano visto le ACLI ponendo questo tema – l’uscita dal Novecento – come nucleo centrale dell’attuale Congresso.
    È ancora assai difficile capire quello che potrà avvenire nei prossimi tempi, ma senza dubbio una pagina della nostra storia è stata girata, con tutte le contraddizioni che si possono immaginare.
    Cosa è avvenuto, nello specifico?
    Per la prima volta nella storia repubblicana non sarà presente in Parlamento né un partito che fa riferimento al comunismo, né uno che direttamente si ricollega con il fascismo; scompare inoltre dal panorama politico il Partito Socialista, presente da oltre un secolo.
    Gli elettori, mai come in questa occasione, hanno voluto dare al Paese uno stabile governo, non più paralizzato dagli interessi e dai personalismi delle piccole e piccolissime forze, come dimostra la scomparsa dell’Udeur, il partito di Mastella, fino ad alcuni mesi fa ago della bilancia del governo e “signore” di vaste aree del Mezzogiorno.
    Nella scelta degli italiani è stato confermato lo schema bipolare e il desiderio di governabilità,penalizzando il governo Prodi, e premiando l’alleanza guidata da Silvio Berlusconi.
    I cittadini, forse anche perché consci di limiti e potenzialità dell’orrida legge elettorale, hanno compiuto una scelta volta a semplificare il quadro politico e a rafforzare le due forze principali. L’unico partito che ha resistito parzialmente a questo vento è l’UDC, che ha rosicchiato consensi nell’area di centro, ma senza incidere in maniera significativa nel quadro complessivo.
    Da quindici anni a questa parte chi governa perde le elezioni, ma questa volta c’era qualcosa di più del solito da far pagare a ministri e sottosegretari. Il governo Prodi è stato il più ampio per componenti della storia repubblicana e, credo, forse anche il più rissoso e meno produttivo. Gli indubbi meriti che ha avuto nel far ripartire la concertazione e nel garantire rigore nei conti pubblici, oltre che alcuni provvedimenti saggi nel campo del lavoro, non possono far dimenticare le tante, troppe liti e le sciocche scivolate nella comunicazione con i cittadini. Il governo dei Pacs e dei Dico, non quello della redistribuzione o della lotta alla precarietà, come ci si poteva attendere da un esecutivo di centro-sinistra.
    Al giudizio critico su Prodi si è unito un più generale pre-giudizio sulla classe politica, come è emerso nel fenomeno del grillismo e della cosiddetta antipolitica, che ha assunto in sede elettorale diverse forme, in parte non preventivabili. Gli elettori delusi solo in piccola parte – non trascurabile, comunque, dato che si tratta di oltre un milione di persone – hanno deciso di astenersi, mentre per lo più sono andati alle urne scegliendo quelle forze, in entrambe le coalizioni, che maggiormente segnavano un cambiamento nello stile del fare politica. Così mi spiego la netta affermazione della Lega Nord e dell’Italia dei Valori, le due vere forze emergenti di questa tornata elettorale. Per la Lega oltre che di antipolitica si deve parlare di altra-politica, cioè di un modello nuovo di proporsi ai cittadini che fa leva sul territorio, sul radicamento e la partecipazione dal basso, in modo spesso rozzo, ma non per questo non convincente.
    Infine – è evidente – dobbiamo rilevare l’esito del voto, che premia senza esitazioni Silvio Berlusconi ed il neonato Popolo delle Libertà. Certamente capace di indirizzare mezzi di informazione e di utilizzare tutti i trucchi della comunicazione, ma questa volta non più re indiscusso della scena e, agli occhi di molti osservatori, anche un poco appannato. Eppure il Cavaliere di Arcore ha ottenuto un consenso inimmaginabile ed una delega assai più ampia di quella ottenuta nel 2001. Quale strategia ha dato frutti? Proposte e promesse concrete su tutti i fronti e, soprattutto, critica serrata al governo precedente, di cui Veltroni non poteva disconoscere completamente l’eredità.
    E ora? Quale prospettiva per le forze politiche e per l’Italia?
    Parto dalla nuova maggioranza. Il PdL è ancora in fase embrionale, ma credo sia irreversibile la scelta di fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, pur tra i malumori dei dirigenti e militanti di quest’ultima. Fini –il nuovo Presidente della Camera – ha esaurito il carisma della sua leadership e non paiono esservi alternative a breve alla sua persona. Unendosi queste forze dovranno comunque affrontare il nodo della forma organizzativa e della democraticità. La Lega, al contrario, si trova nella condizione migliore: ha ritrovato in Bossi una guida efficace ed ha uno spazio politico straordinariamente ampio, al punto da essere considerata il vero cuore della coalizione. Il disegno pare chiaro: avviare un processo che, attraverso il federalismo fiscale e la devolution, porti ad una forte autonomia, se non alla vera e propria indipendenza della Padania.
    L’opposizione in Parlamento si compone di soli tre soggetti. L’UDC ritengo sceglierà la strada dell’attesa, fedele alla sua tradizione moderata e alla promessa di restare estranea al governo, almeno per questa fase. Non è difficile immaginare che nei differenti territori si giocherà la partita della sua futura collocazione: se il vento dovesse cambiare ed il PD scegliesse di correre senza la sinistra anche in qualche amministrazione locale di rilievo potrebbero aprirsi nuovi spiragli, diversamente questa forza – equidistante a livello nazionale, ma apparentata quasi ovunque con il PdL – piano piano si riavvicinerà a Berlusconi. In ogni caso il suo ruolo può essere giocato in situazioni di crisi, per ora assolutamente non prevedibili.
    L’Italia dei Valori fin da subito ha chiarito – mancando al patto elettorale – di voler fare un proprio autonomo percorso in Parlamento. Questa forza rappresenta una vera incognita per il futuro del cosiddetto schieramento progressista, in quanto manca di leader al di fuori di Di Pietro e non ha un programma marcato. Può, però, rappresentare uno stimolo per le riforme, se continuerà – come è prevedibile – a cavalcare il desiderio di cambiamento e di giustizia dei cittadini.
    Infine il Partito Democratico. Questa forza non era pronta per elezioni immediate e, come si è visto, ne ha subito i contraccolpi. Il risultato, grazie anche ad una buona performance di Walter Veltroni, non è stato pessimo, garantendo numeri e rappresentanza parlamentare di rilievo, ma è evidente a tutti che i problemi sono tanti. Innanzitutto la collocazione. Il PD ha perso al centro (a favore del PdL e dell’UDC, soprattutto) mentre ha fatto il pieno a sinistra, anche a fronte del suicidio delle forze coalizzate nella Sinistra Arcobaleno. Ora deve scegliere: o rappresentare i suoi attuali elettori – radicalizzandosi e condannandosi, a parer mio, ad eterna opposizione – o ricercare un nuovo confronto con i ceti popolari che cercano moderazione e non moderatismo. La tradizionale alleanza tra cattolici democratici e sinistra riformista sui temi sociali – difesa dei lavoratori, giustizia sociale, volontariato, pace – sembra essersi dissolta non tanto perché i cattolici abbiano anteposto altro a questi valori, ma in quanto il PD non ha dato spazio ad essi né nel programma, né nella scelta delle candidature. Nulla è pregiudicato, però, dato che ancora non si è svolto il primo congresso, quello fondativo, e che la leadership di Veltroni permette di poter affrontare questi nodi senza lacerare il tessuto esistente. Cinque anni di opposizione sono lunghi, ma se si vuole costruire un partito nuovo, radicato sul territorio, con dirigenza capace di interpretare le sfide del XXI secolo, il PD non dovrà perdere tempo. Soprattutto dopo che anche il cosiddetto “modello Roma”, che aveva dato prova di essere vincente e inossidabile, è stato invece travolto dall’onda d’urto di cittadini spaventati che hanno preferito guardare a destra per trovare una risposta al bisogno di una città più sicura.
    D’altra parte Rutelli è apparso come un volto del passato e non sufficiente a colmare la voglia di cambiamento e di rassicurazione che invece Alemanno è riuscito a interpretare.
    Ma forse la chiave che ci fa comprendere ciò che è avvenuto nel ballottaggio romano sta nel “voto disgiunto” che è reso evidente dalla vittoria di Zingaretti alla Provincia e dalla disfatta di Rutelli al Campidoglio. Esempio chiarissimo di voto post-ideologico.
    Gli effetti di questa svolta romana si faranno certo sentire sugli equilibri già precari della leadership del Partito democratico.
    L’Italia si aspetta ora un governo stabile, capace di affrontare, senza indugi, alcune sfide cruciali: la redistribuzione del reddito, per fermare l’impoverimento dei ceti medi e delle famiglie numerose; il contrasto all’illegalità ed il rafforzamento della sicurezza, a partire dai centri urbani; la ripresa economica e l’innovazione in tutti i campi, dall’economia alla pubblica amministrazione. Berlusconi ha fatto promesse pesanti, che dovranno ora tradursi in soluzioni concrete. Non sarà facile, soprattutto se la Lega alzerà la posta e se non si cercherà il dialogo sociale. Il precedente governo Berlusconi scelse la strada del conflitto con le parti sociali e della mediazione con i diversi interessi corporativi e le riforme non sono arrivate. Ora attendiamo qualcosa di diverso: a partire dallo stile, con il rispetto per gli avversari, il confronto sulle riforme, la definizione delle regole in modo condiviso.

    2.3. Schierati per il bene comune
    Il rapporto tra le ACLI e la politica non è mai stato né facile né scontato, ma fin dalle origini ha dato vita a conflitti e convergenze capaci di arricchire la società e la Chiesa italiana. Anche negli anni del collateralismo, infatti, non mancò mai un’autonoma valutazione dell’associazione sulle scelte della Democrazia Cristiana e del governo e talvolta sorsero veri e propri conflitti. Stare dalla parte dei lavoratori, della povera gente, aveva conseguenze. Quando il collateralismo finì – per scelta e convinzione – le ACLI si ritrovarono ancor più libere di manifestare il proprio pensiero, acquisendo via via sempre più la consapevolezza della loro autonoma politicità, in quanto soggetto sociale che opera per il bene comune. Nelle diverse stagioni politiche che si sono succedute il senso di questa autonomia, mai scontata e mai conquistata una volta per tutte, è andato modificandosi, senza però incrinarsi. Si è passati dal rude scontro ideologico degli anni settanta alla crisi morale degli anni ottanta, alla caduta dei partiti politici – dovuta a Tangentopoli, ma anche alla morte del sistema sovietico negli anni novanta, fino al rozzo bipolarismo di questi anni. Tante differenti esperienze, nelle quali le ACLI hanno giocato un loro ruolo, a tratti in retroguardia, a tratti in prima linea, ma sempre nella prospettiva di costruire partecipazione sociale e democrazia.
    Oggi, a molti anni dalla scelta della rottura del collateralismo, non possiamo non cogliere la lungimiranza di chi compì quella scelta, dolorosissima per l’associazione, ma necessaria per il Paese. Dobbiamo, però, analizzare gli “effetti collaterali” che il protrarsi di questa scelta ha prodotto nel tessuto associativo ed in particolare considerare se non si sia col tempo creato uno scollamento tra le ACLI, come esperienza privilegiata di azione sociale, e la politica. “Noi non siamo pre-politica” abbiamo giustamente ricordato a tutti i nostri interlocutori in questi anni, per ribadire la nostra autonoma politicità. Ed è giusto. Ma a chi spetta il compito di formare all’impegno politico, di creare spazi di confronto con chi opera in politica, ad ogni livello, di controllare l’operato di amministratori e legislatori?
    L’Associazione non può nascondersi dietro ad un dito. La crisi che stiamo attraversando nel nostro Paese – crisi di valori, senza dubbio, ma al contempo crisi di leader capaci di incarnarli – deriva anche da una nostra autonomia che è divenuta lontananza. Mi si potrà ribattere che ci sono state sbattute le porte in faccia, che per il Terzo Settore non sono stati trovati posti in lista né spazi di confronto, ma non credo che sia argomento sufficiente. Da tanto, troppo tempo, l’incontro tra le ACLI e la politica è saltuario, occasionale, con poca progettualità. Ci siamo preoccupati di salvare noi stessi, spesso mettendo in campo opere di pregio, di intrinseca politicità, fornendo analisi, formulando proposte, ma stando un po’ troppo fuori dall’agone, evitando di immergerci in acque che apparivano poco sicure. Forse era un bene, ma la stagione ritengo sia cambiata.
    Le ACLI autonomamente schierate per il bene comune non sono queste. Debbono essere schierate, appunto, in ogni luogo ed in ogni ambito della loro azione sociale, senza paura di condividere con la politica la ricerca di strade percorribili nell’interesse di tutti e di ciascuno, consce della loro autonomia ma anche della loro rappresentatività. Non schierare l’associazione sui temi che le sono propri vuol dire non dar voce agli associati e alle tante persone che alle ACLI guardano con speranza.
    Vuol dire lasciar spazio ad altri, al popolo dei “vaffa”, così come alle demagogie localistiche.
    È per questo motivo che ritengo venuto il tempo di mettere in campo un nuovo strumento, inedito ma semplice: costituire una Fondazione, che sarà intitolata al nostro fondatore Achille Grandi – sindacalista politico e aclista, vicepresidente dell’Assemblea Costituente – nella quale far incontrare l’associazione con quanti operano nelle differenti esperienze politiche, dal Parlamento ai Comuni, dalle Regioni alle Comunità montane. La Fondazione dovrà avere respiro e forza nazionale, ma essere ancorata nei differenti territori, per dare voce ai tanti amministratori locali che si riconoscono nei valori dell’Associazione e che non trovano nelle attuali forze politiche né luoghi formativi, né spazi di confronto. È una nuova sfida per l’autonomia, senza dubbio, ma anche un tentativo di uscire fino in fondo dalle lacerazioni del Novecento, superando nel post-ideologico, ma non post-valoriale, le contrapposizioni tra la democrazia sociale e la democrazia politica.


    II PARTE - ABITARE IL PRESENTE

    1. NEI LUOGHI DEL RISCHIO

    Se oggi le ACLI sentono la necessità e la responsabilità di abitare il tempo presente, la ragione sta nel compito, antico e sempre nuovo, che esse sono chiamate a svolgere come servizio ai cittadini: essere «testimoni responsabili negli ambiti cruciali della vita sociale», per dirlo con le stesse parole usate da Benedetto XVI. La novità rispetto al passato sta nell’esigenza di connettere questione sociale e questione antropologica, i problemi della giustizia sociale e quelli dell’etica pubblica, attrezzandoci a svolgere un ruolo ancor più integrale di protagonismo sociale per contrastare le vecchie e nuove forme di offesa alla vita e alla dignità della persona.
    Se, negli ultimi anni, le ACLI hanno allargato i confini della loro azione sociale lo hanno fatto proprio per affrontare i problemi nuovi continuando sempre ad essere paladine dei diritti di tutti, a partire dai più deboli.
    Sappiamo che nella società odierna il rischio non è più da pensare come sinonimo di pericolo, perché indica piuttosto uno spirito epocale che presenta un’intrinseca ambiguità poiché accosta insieme minaccia e opportunità, e chiede di essere assunto responsabilmente con un atteggiamento prudente e positivo. Dobbiamo stare al mondo, parafrasando le parole di una nota canzone, “non con la paura di cadere, ma con la voglia di volare”.

    1.1. La sfida della globalizzazione
    Il primo luogo del rischio che voglio mettere in risalto è la globalizzazione.
    Non vi è dubbio che essa oggi si presenti anche a noi aclisti come un tempo di rapidi cambiamenti, di grandi speranze, ma anche di drammatiche minacce. È una dimensione alla quale non possiamo sottrarci.
    Nel recente passato, le ACLI, sulla globalizzazione, hanno potuto approfondire le molteplici letture possibili: global, no global, new global, post-global e altre ancora. Un percorso culturale ci ha consentito di rivolgere la nostra attenzione sia all’Africa abbandonata al suo destino, sia alla dirompente ascesa della Cina e dell’“impero di Cindia” (ossia Cina e India insieme) sulla scena mondiale. Piuttosto che pensare, oggi, solo a difendere l’Occidente ricco con il ricorso a misure protezioniste e a una discutibile politica dei dazi, dovremmo forse chiederci se il modello occidentale di sviluppo sia ancora un obiettivo desiderabile e sostenibile per l’intera umanità.
    Nel suo ultimo libro “La paura e la speranza”, anche Giulio Tremonti scopre che esiste un lato oscuro della globalizzazione e della tecnofinanza e che il mito dell’abbondanza universale e delle sette vacche grasse appartiene ad un passato che non esiste più. Bisogna essere realisti e pragmatici se si vuole capire perché tanta gente abbia più paure che speranze nella globalizzazione, dal momento che essa si presenta concretamente come una «aggressione economica portata dai paesi nei quali le condizioni politiche garantiscono bassi salari e sfruttamento minorile. Risultato di ciò, sono vantaggi economici con cui l’Occidente industrializzato e sindacalizzato non riesce più a competere».
    Ecco perché Tremonti non ha torto quando chiede che anche in Asia si provveda a controllare più da vicino il rispetto dei diritti dei lavoratori, altrimenti si è dinanzi ad una forma evidente di dumping sociale che stravolge le regole del mercato. Ma da un ministro dell’economia ci attendiamo un conseguente impegno politico e strategico.
    Le parole stampate nella post-fazione del suo libro ci sembrano davvero dense ma anche tutte da verificare: «La pianta della speranza non può nascere solo sul terreno dell’economia, ma su quello della morale e dei principi. Si tratta di rifondare la politica europea a partire da sette parole d’ordine: valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo. E in tutti questi campi bisogna ritornare alle radici dell’identità europea, in un percorso che va nella direzione opposta e contraria rispetto al ’68 e ai suoi errori».
    Siamo anche noi convinti che è necessario oggi rifare una nuova Bretton Woods, dal momento che le istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo Monetario, Banca Mondiale e il WTO hanno fatto il loro tempo. Bisogna fare una scelta: o si sta dalla parte di chi appoggia la grande finanza mondiale, o dalla parte di chi lotta dal basso nella convinzione che un altro mondo è possibile e che si può ripensare l’economia su altri principi.
    Resta valido per noi il principio che la globalizzazione non deve essere aprioristicamente demonizzata né santificata. Ma se la globalizzazione non rispetta la dignità della persona umana e le regole dell’etica non vi è dubbio che essa vada giudicata come una forma inaccettabile di economia predatoria.
    Il nostro giudizio, dunque, non è affatto ideologico, ma tiene conto dei fatti, delle conseguenze, delle ricadute, cioè degli effetti collaterali che essa sta producendo sulle persone, sulle culture, sui luoghi urbani e sull’ambiente naturale.
    Non c’è da farsi illusioni: nelle nostre “società individualizzate” le persone che stanno male e che soffrono per mancanza di relazioni umane e comunitarie sono sempre più numerose. Spesso la solitudine diventa la prima forma di povertà.
    Condividiamo le parole del Cardinale Tettamanzi nel discorso ai milanesi nell’ultima festa di S. Ambrogio (2007), dove coraggiosamente afferma: «Mai come in questi ultimi tempi i comportamenti umani, segnati dal profondo individualismo, feriscono la vita sociale: non pagare le tasse, farsene un vanto, frodare nel commercio, guidare ubriachi o drogati, non rispettare gli elementari diritti dei lavoratori per ottenere profitti sempre maggiori, non sono solo comportamenti di singoli da censurare, sono dei veri e propri attentati alla società nel suo insieme».
    Il primo compito che le ACLI sentono di dover realizzare in questo tempo del rischio che vede la lacerazione profonda del tessuto sociale, è quello di rigenerare i legami di fiducia tra le persone e quelli tra i cittadini e le istituzioni. È stato il tema della COP di Bari. Senza compiere questo sforzo di ritessitura a livello territoriale e comunitario la globalizzazione continuerà ad essere percepita dalle persone solo come pericolo che fa paura e non come opportunità per migliorare il proprio standard di vita attraverso il lavoro, l’accesso alle risorse e le relazioni sociali.
    In questo contesto di rischio vogliamo sottolineare che esiste anche la povertà e la precarietà di genere, se è vero che rispetto agli uomini le donne hanno ancor meno possibilità di accesso al credito, all’istruzione, alla tecnologia, alla sanità, ai lavori qualificati, al potere politico.
    In questi ultimi mesi il problema della povertà, e perfino della fame, è diventato più preoccupante di qualche tempo fa quando la produzione dei bio-carburanti non veniva ancora al primo posto. Oggi, invece, parole come pane, acqua, cibo... tornano ad avere una carica di significato che avevano perduto. L’allarme “fame” nel mondo, causato dal raddoppio dei prezzi dei beni alimentari primari (tra cui mais, grano e riso), ha scatenato rivolte in decine di Paesi poveri. La FAO denuncia che in Africa, Asia e America Latina, ben 36 Paesi rischiano la guerra civile.
    L’ultimo rapporto Istat sulla povertà in Italia indica che più di 2 milioni e mezzo di famiglie, vale a dire ben 7 milioni e mezzo di persone, pari al 12, 9% della popolazione, si trovano in stato di povertà relativa, e tra queste molti sono bambini. Le famiglie che vivono in condizioni di indigenza sono 2.585.000 pari all’11,1%. Le regioni del Mezzogiorno rimangono le più colpite, poiché il 26,5% della popolazione si trova ancora sotto la soglia di povertà. I dati fanno emergere una novità: stanno aumentando le famiglie che non vengono considerate povere soltanto perché le loro risorse finanziarie superano la soglia di povertà per una somma esigua che va da 10 a 50 euro al mese. Ma la verità è che anche questi nuclei familiari «a rischio di povertà», che secondo i dati Istat sono circa 900.000, nonostante abbiano un lavoro e un reddito ricorrono tuttavia ai centri assistenziali per poter far fronte alle loro necessità!
    È del tutto insufficiente che le istituzioni internazionali si limitino a fare dichiarazioni solenni e a richiamare l’attenzione sul dramma della fame e della povertà. Esse devono agire attraverso scelte economiche e decisioni politiche. Abbiamo visto come anche gli Obiettivi del Millennio, che avrebbero dovuto dimezzare la miseria entro il 2015, si sono invece rivelati fallimentari e inconcludenti. Dobbiamo ora augurarci che un esito analogo non si ripeta anche in sede europea.
    La Commissione UE, infatti, ha designato il 2010 quale Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Eurostat calcola che poco meno di 80 milioni di persone, circa il 16% della popolazione dell’Unione Europea, siano oggi a rischio, cifra cui va aggiunto l’8% dei cittadini che già vivono al di sotto della soglia di povertà.

    1.2. La sfida della multiculturalità
    Un’ulteriore sfida che l’Italia ha oggi di fronte è il crescente afflusso di immigrati che è diventato ormai un fenomeno permanente e strutturale. Sono presenti nel nostro Paese circa 4 milioni di stranieri, più del 5% della popolazione. Tra di essi oltre un milione sono di religione islamica e la loro presenza è percepita talora come fonte di disagio e di inquietudine. Le nostre scuole sono frequentate da più di mezzo milione di alunni stranieri ed è in forte aumento il numero delle cosiddette “seconde generazioni”, ossia di quei giovani cittadini che sarebbero italiani a tutti gli effetti, se il principio di cittadinanza fosse basato sullo jus soli, ma che continuano a restare stranieri fino a 18 anni, perché in Italia la cittadinanza è ancora ferma al criterio dello jus sanguinis.
    Anche la notevole crescita dei matrimoni misti, che ha superato complessivamente la cifra delle 200 mila coppie, ci fa intendere quanto siano profonde le trasformazioni che stanno attraversando la nostra società.
    Perfino nel nostro Parlamento si cominciano a vedere i primi timidi effetti di queste trasformazioni: infatti, dopo che nella scorsa legislatura era stato eletto per la prima volta un deputato musulmano di origine algerina (Khaled Fouad Allam), nelle ultime elezioni è stato eletto il primo deputato nero, l’africano del Congo Brazzaville, Jean Leonard Touadì e la prima donna musulmana, del Marocco, Souad Sbai.
    Periodicamente accade che, per fatti di cronaca nera, siano ora i rumeni o i cinesi, ora i rom o gli albanesi, a richiamare l’attenzione degli organi di stampa e dell’opinione pubblica. Ma non vi è dubbio che ormai la presenza degli immigrati rappresenti anche in Italia un importante problema sia a livello nazionale sia a livello locale, dove sembra che soprattutto la Lega Nord sia riuscita a intercettare la domanda di sicurezza che viene dai cittadini, ma senza riuscire a trasformarla in una politica di accoglienza basata sul rispetto e orientata all’integrazione.
    Le ACLI non intendono negare l’importanza di questo problema né delegare alle forze politiche la gestione del binomio “legalità e sicurezza” poiché esso riguarda un diritto dei cittadini che non è né di destra, né di sinistra.
    Riferendomi poi al problema delle espulsioni dall’Italia per ragioni di pubblica sicurezza non posso sorvolare sulla questione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt). Le ACLI comunque non possono tacere di fronte all’ingiustizia che colpisce i più deboli. Amici, coltiviamo la nostra indignazione di fronte a carrette del mare che affondano davanti alle nostre coste, con decine, centinaia di donne e bambini condannato solo perché poveri.
    Siamo profondamente convinti che il grado di civiltà di una nazione si misura da come questa saprà accogliere e rispettare lo “straniero” in casa propria.
    Le ACLI continueranno ad impegnarsi sul terreno dell’immigrazione per favorire i ricongiungimenti familiari e per portare a compimento la nuova legge sulla cittadinanza che oltre a riconoscere questo diritto a tutti i bambini che nascono in Italia, riconosca anche il diritto di voto amministrativo agli immigrati stabilmente residenti da almeno 5 anni nel nostro Paese.
    In passato le ACLI seguendo le rotte delle migrazioni italiane sono state capaci di radicarsi in tanti Paesi, come Belgio, Svizzera, Francia, Germania, Gran Bretagna, Argentina, Canada, Australia… E oggi siamo presenti anche in molti altri Paesi, ma gli obiettivi che perseguiamo sono sempre quelli di favorire la promozione umana e il rispetto della dignità di ogni singola persona, valorizzando le radici dell’identità, il valore della differenza, il principio dell’inclusione, il fine condiviso della giustizia e della coesione sociale. Senza questi criteri non si costruisce una convivenza civile né per gli italiani all’estero né per gli stranieri in Italia. La memoria di ciò che abbiamo fatto ieri per l’emigrazione italiana ci aiuta oggi moltissimo a capire quali siano le scelte giuste per favorire una “via italiana” all’integrazione sociale.
    La sfida multiculturale, oltre alle pratiche di inclusione, chiama in causa anche l’aspetto che attiene al dialogo tra differenti valori e idealità segnati dal pluralismo.
    In questo campo, evitando la duplice deriva del dogmatismo ideologico e del fondamentalismo religioso, occorre da subito gettare le basi di una convivenza tra diverse culture che deve diventare un’etica pubblica condivisa, perché senza regole è impossibile costruire un modello di integrazione e di coesione sociale.
    Si apre a questo punto il problema della laicità in una società post-secolare e multiculturale dove convivono credenti, non credenti e diversamente credenti.
    Nel suo discorso all’Assemblea generale dell’ONU, Benedetto XVI ha mostrato le conseguenze che comporta il diritto di libertà religiosa ai fini dell’etica pubblica e cioè che «deve essere tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale». Ma, se questo è vero, diventa allora «inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti».
    Nel XXI secolo non possiamo riproporre uno statuto di laicità che si è affermato nell’Ottocento, quando si contrapponevano ragione e fede, Stato e Chiesa, spazio della secolarità e spazio della sacralità. Se è vero che siamo entrati in un’età post-secolare ne consegue che la nuova laicità deve fondarsi non più su presupposti ideologici né deve partire dallo Stato, ma deve partire direttamente dai cittadini e dai valori in cui essi si riconoscono. In questo senso la nuova laicità è non solo compatibile, ma è addirittura richiesta dalla natura democratica dello Stato moderno.

    1.3. La sfida dell’ambiente e dei beni comuni
    È questa una terza sfida decisiva perché non esiste futuro dell’uomo se non in stretta connessione con l’ambiente che è il primo e fondamentale tra i beni comuni.
    Il cambiamento climatico a causa dell’effetto serra, esige di mettere in discussione il modello di sviluppo finora perseguito da una parte dell’umanità.
    Il mito della crescita economica non ha assicurato fino ad oggi quel benessere e quell’affrancamento dalla povertà che pure aveva promesso.
    In contrasto con la diffusione dell’impoverimento e del degrado ambientale si sono venute affermando le teorie della decrescita e dell’uso delle risorse rinnovabili che pongono in modo diverso il tema delle soluzioni tecnologiche rispetto ai problemi ambientali. È inoltre fondamentale la difesa della biodiversità.
    Il problema dei rifiuti, dei termovalorizzatori e delle discariche, così come quello della raccolta differenziata e del riciclaggio diventa centrale per evitare l’aggravamento del degrado ambientale. La tutela dell’ambiente e dei beni comuni, dal cui godimento nessuno può essere escluso (comprese le future generazioni) presuppone una cooperazione capace di evitare la corsa all’accaparramento, la mercificazione di ogni bene e, in definitiva, la distruzione delle risorse.
    Con l’espressione “beni comuni” pubblici mondiali si intendono realtà importanti come il pianeta Terra, il clima globale, l’aria, l’acqua, gli oceani, le foreste, l’energia e le risorse (rinnovabili e non rinnovabili), ma anche la stabilità finanziaria, la sicurezza, la conoscenza, l’informazione e la comunicazione.
    Esiste un’economia che si è sempre occupata di bene comune come dimostrano le esperienze di economia “virtuosa”, i circuiti di solidarietà e reciprocità allargata che emergono dalla società civile e che sono strutturalmente orientati al bene comune. L’obiettivo di queste iniziative che si sviluppano nel Terzo settore è un’economia fraterna, basata sui rapporti tra le persone e sulla valorizzazione dei beni relazionali, piuttosto che soltanto delle merci. Il commercio equo, il microcredito, e la straordinaria esperienza del movimento cooperativo, insieme all’economia di comunione, ecc., non sono episodici e marginali, ma anticipano un “nuovo possibile”, dove ciò che è profondamente umano viene sottratto all’indifferenza e diventa espressione autentica dell’individuo.
    I beni comuni diventano allora dei facilitatori della partecipazione, in quanto essi, appartenendo a tutti, evidenziano il non senso di non partecipare. Si spiegano così le molte campagne degli ultimi anni, come quella per un’agricoltura libera da OGM, cui anche le ACLI hanno dato il loro sostegno.
    Bisogna sollecitare il senso di responsabilità di tutti gli attori sociali, che è un principio cardine della società complessa. Nella pratica si tratta di immettere la dimensione etica nei processi di elaborazione dei modelli di cultura professionale al fine di rendere specialmente le classi dirigenti, i politici, i burocrati, i manager pubblici e privati più consapevoli della propria responsabilità sociale. Inoltre si tratta di valorizzare il principio di rappresentanza di tutti gli interessi. Per le organizzazioni è, per esempio, l’adozione di codici, di strumenti di rendicontazione sociale, di processi che certificano la qualità; in una parola l’applicazione dei principi della Responsabilità Sociale d’Impresa. Le ACLI da tempo si sono impegnate su questo fronte e intendono continuare a farlo.
    È questo uno dei campi prioritari per l’innovazione, in particolare per valorizzare talenti e risorse del nostro Mezzogiorno non inseguendo modelli di sviluppo obsoleti, ma a partire dalle vocazioni territoriali.
    Le ACLI faranno a questo riguardo la loro parte, sollecitate dagli stessi dirigenti delle regioni meridionali, costituendo un apposito gruppo di lavoro volto a realizzare eccellenze di progettazione sociale per il Sud.

    2. ASCOLTARE, PARTECIPARE E DECIDERE. VERSO UNA DEMOCRAZIA SOCIALE E DELIBERATIVA

    Abbiamo già lasciato intendere con chiarezza come vecchie categorie della politica siano divenute obsolete e perfino dannose mentre appare sempre più indispensabile una nuova architettura concettuale se si vuole dare vita alle istituzioni del futuro.
    Per invertire la rotta è necessario imboccare in tutti i campi la strada della partecipazione attiva dei cittadini, favorendo l'organizzazione dei corpi intermedi della società civile e le forme più efficaci di democrazia deliberativa. Come è stato affermato nell’ultima Settimana sociale dei cattolici a Pistoia-Pisa, la democrazia rappresentativa, che tanti buoni frutti ha recato in passato, oggi non appare più sufficiente.
    Occorre coniugare la democrazia rappresentativa con quella deliberativa aprendola a forme nuove di partecipazione democratica più coscienti e diffuse. Non si tratta di abolire le istituzioni rappresentative, ma di rafforzarle e rinnovarle profondamente, così da consentire un coinvolgimento più attivo e responsabile dei cittadini nella elaborazione e nella gestione della cosa pubblica.
    Attivare una partecipazione ed una co-decisione è uno dei modi più efficaci di colmare la pericolosa distanza tra società e istituzioni, che poi sfocia fatalmente nell’«antipolitica» dei nostri giorni.
    L’aspetto formale della democrazia, per quanto irrinunciabile, è da solo insuffìciente a determinare la partecipazione di ogni cittadino alla cosa pubblica.
    Non si tratta soltanto di ripensare o di rigenerare la democrazia, che oggi appare in difficoltà, ma di fare spazio agli attori della società civile.
    È opportuno a questo proposito ricordare che quasi venti anni fa, nel documento dei Vescovi italiani, “Educare alla legalità” (1991), parlando della funzione politica della società civile, si affermava che: «per un corretto svolgimento della vita sociale è indispensabile che la comunità civile si riappropri di quella funzione politica, che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai “professionisti” di questo impegno nella società. Non si tratta di superare l’istituzione “partito”, che rimane essenziale nell’organizzazione dello Stato democratico, ma di riconoscere che si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi, contribuendo ad uno sviluppo globale della democrazia con l’assunzione di responsabilità di controllo e di stimolo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo declamata partecipazione» (n. 17).

    2.1. Quale governance mondiale
    Quando nel dicembre 2007 l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato con una scelta di civiltà la moratoria sulla pena capitale le ACLI hanno salutato con grande soddisfazione il successo politico registrato sul piano internazionale dal Governo italiano. Quel voto ha dimostrato infatti, in maniera inequivocabile, che il diritto alla vita è universale e come tale non può che oltrepassare le barriere e i confini degli Stati nazionali. Ma nel mondo di oggi la cultura della morte è ancora molto diffusa e forse prevalente. Basti pensare alla tragedia delle guerre, del terrorismo e delle repressioni armate in tanti Paesi come Iraq, Afghanistan, Libano, Birmania, Tibet, Darfur (Sudan), Medio Oriente e altri ancora.
    Le prospettive di cui avrebbe bisogno la governance mondiale nel nostro tempo sono quelle fondate sulla cultura dell’interdipendenza e sulla politica del multilateralismo.
    Nel suo recente e non accomodante discorso alle Nazioni Unite, Benedetto XVI ha denunciato con franchezza «l’ovvio paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi, mentre i problemi del mondo esigono interventi nella forma di azione collettiva da parte della comunità internazionale».
    Il Papa è riuscito a comunicare con estrema chiarezza le ragioni e le conseguenze del principio della responsabilità di proteggere. «Ogni Stato - ha affermato - ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo».
    Un’attenzione particolare va dedicata al groviglio di interrogativi che sta sollevando in queste settimane l’opportunità o meno di essere presenti al momento dell’inaugurazione ufficiale delle Olimpiadi in Cina nel prossimo mese di agosto 2008.
    Anche noi riteniamo che la strada da percorrere non sia quella del boicottaggio delle Olimpiadi ma, piuttosto quella di una pressione forte e unitaria da parte dei 27 paesi dell’Unione Europea sulla questione del Tibet e dei diritti umani in Cina, mettendo in secondo piano la politica degli affari.
    Un altro problema che mi preme sottolineare è quello del disarmo atomico che vede oggi la presenza delle ACLI tra i vari organismi che hanno aderito alla Campagna “Italia libera da armi nucleari”, insieme all’Azione Cattolica, all’Agesci, alla Focsiv, a Pax Christi e alle riviste missionarie come Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di Pace.
    Anche oggi le ACLI devono essere in prima fila per impedire ai governi di aumentare le spese militari, poiché le risorse finanziarie devono essere destinate anzitutto alla lotta contro le malattie e la povertà. Proprio come abbiamo imparato 40 anni fa dalla Populorum progressio «lo sviluppo è il nuovo nome della pace».
    Coerenti con questa nostra tradizione chiediamo anche oggi che la cooperazione internazionale sia elemento centrale della politica estera e dell’iniziativa di pace del nostro Paese.

    2.2. Quale governance europea
    Tra il giugno e il novembre del 2007, l’Unione Europea ha superato la situazione di stallo in cui era caduta dopo l’esito negativo delle consultazioni referendarie sul Trattato costituzionale tenutosi in Francia e nei Paesi Bassi nella tarda primavera del 2005.
    Il nuovo Trattato è stato firmato a Lisbona lo scorso 13 dicembre.
    Tra i grandi temi che riguardano oggi il futuro dell’Europa, accanto alla riforma delle sue istituzioni, alla creazione di una difesa comune - distinta ed autonoma dalla Nato -, alla posizione comunitaria sul sistema anti-missili che Washington vuole dislocare in Europa dell’Est, al chiarimento e alla stabilizzazione delle relazioni con la Russia, si colloca anche quello del rapporto con gli Stati non europei che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. A cominciare dalla Turchia che da decenni preme per entrare nell’Unione, ma nella quale permangono problemi di libertà religiosa e di rispetto dei diritti umani.
    L’altro Paese su cui voglio richiamare l’attenzione è il Kosovo che recentemente si è autoproclamato Stato indipendente. Ben sappiamo che attraverso la nostra IPSIA le ACLI sono presenti nel Kosovo dal 1999. Noi siamo convinti che le popolazioni dei Balcani devono poter contare su un’Europa unita e politicamente forte. Serbia e Kosovo potranno ritrovare un’unità più grande all’interno dell’Unione e anche l’Italia deve svolgere a questo scopo un ruolo determinante.
    Guardando al futuro, il prossimo 1° luglio, la Francia assumerà per sei mesi la presidenza dell’Unione Europea. Questo periodo di presidenza francese ci deve stimolare a riflettere sulle principali prospettive politiche che attendono l’Europa. A noi sembra importante rilanciare un progetto di largo respiro per una stabile integrazione Euro-Mediterranea portatrice di pace e di prosperità per tutti i popoli dell’area, quale miglior garanzia per una permanente sicurezza dello Stato d’Israele a fianco di un indispensabile Stato autonomo palestinese, e per un coordinamento delle politiche che regolano i flussi migratori tra i Paesi del Mediterraneo.
    Il prossimo anno, nel giugno 2009, si tornerà a votare il rinnovo del Parlamento europeo. In vista di questo appuntamento sarà importante che le ACLI esprimano proposte e iniziative capaci di mobilitare i molteplici attori che fanno parte della “piattaforma” della società civile europea. I temi principali sui quali intervenire sono quelli del calo demografico, dei flussi migratori, della sicurezza, del diritto di cittadinanza, degli interessi generali, della strategia di Lisbona e del modello sociale europeo, della cooperazione con i Paesi del Sud e del Mediterraneo, dell’ambiente e dell’energia.
    Il numero delle attività e delle esperienze di dialogo che vengono realizzate nel corso del 2008, che, come sappiamo, è l’«Anno europeo del dialogo interculturale», stanno a dimostrare che esiste un fermento degli attori culturali e religiosi che appaiono forse ancora più creativi dei soggetti sociali.

    2.3. Quale governance locale
    Con l’espressione governance locale mi riferisco alle forme e agli attori che vengono chiamati in causa per amministrare le comunità locali e il territorio in cui sono radicate e vivono. Se pensiamo alle Regioni, alle Province e ai Comuni possiamo affermare che il rinnovamento della governance locale nel nostro Paese può essere fatto risalire alla nuova legge per l’elezione dei Sindaci e dei Governatori, alla riforma Bassanini, alla riforma del Titolo V della Costituzione che ha introdotto il principio di sussidiarietà, alla legge 328 e alla conseguente sperimentazione dei “piani di zona”.
    Per le ACLI diventa ancor più importante di ieri la valorizzazione del proprio radicamento territoriale perché esso rappresenta un’occasione preziosa per dare un significato solidaristico e cooperativo ai concetti di territorio, comunità, federalismo fiscale e bene comune. Ciò che noi dobbiamo promuovere è la partecipazione dei cittadini alla vita della città perché il senso pieno dell’abitare un luogo – come abbiamo affermato a Orvieto – sta nel prendersi cura di esso con responsabilità e forte cultura civica. La condivisione dello stesso spazio urbano con altri con-cittadini deve rafforzare il senso di appartenenza e il comune sentire, ma tutto questo non deve trasformarsi in un localismo geloso e proprietario che tende a respingere gli altri come estranei e intrusi.
    È dunque importante che le ACLI si impegnino per una corretta visione di governance locale cercando di coniugarla con il principio di unità nazionale. Alla luce di questi criteri tra i due punti di vista, locale e nazionale, andrebbe trovata la soluzione sia al problema della sicurezza nella città, sia quello del federalismo fiscale.
    Ma quello che più mi preme sottolineare è l’obiettivo di favorire la diffusione della democrazia deliberativa nelle comunità locali, intesa come partecipazione diretta e informata dei cittadini ai momenti decisionali della vita politica.

    2.4. Quale governance associativa
    La sperimentazione sulla “governance” che abbiamo condotto in questi anni nella nostra associazione dovrà ora essere tradotta in decisioni circa le nuove forme del sistema associativo. Ma sull’intera questione sarà il Congresso a fare le sue scelte.
    La governance delle ACLI, come esempio di organizzazione complessa del Terzo settore, si presta ad essere raffigurata metaforicamente più con l’immagine della stella marina che non con quella del ragno. Come infatti scrivono due ricercatori californiani (Brafman e Beckstrom) tra i sistemi di funzionamento del ragno e della stella marina esistono certo delle similitudini, ma anche notevoli differenze. Anzi, le differenze sono maggiori delle uguaglianze. Il “ragno” infatti funziona come un sistema centralizzato, dal momento che ha un corpo con 8 zampe, e una testa con 8 occhi. E certamente nessun ragno può vivere senza la testa. La stella marina invece funziona in modo assolutamente diverso dal momento che, a differenza del ragno, non fa capo ad una unità centralizzata di comando, anzi possiamo affermare che la governance della stella marina sta proprio nelle sue diramazioni periferiche. Se, infatti, si recide una sua protuberanza, non solo la stella marina è in grado ancora di sopravvivere e addirittura di ricrearla ma, per alcune specie, dalla protuberanza tagliata può rinascere perfino una nuova stella marina! Per cui, paradossalmente, quanto più si cerca di distruggerla, di spezzettarla, di dividerla, tante più stelle marine potrebbero riprodursi.
    E questo accade proprio perché, essendo la stella marina una rete di cellule, essa funziona come un sistema complesso e decentrato. E questo mi fa concludere che la governance delle ACLI somiglia più al modello aperto e decentrato della stella marina che non a quello centralizzato e quasi coercitivo del ragno.
    Ciò che intendo dire è che il percorso intrapreso dalle ACLI potrà in futuro produrre sia modifiche strutturali (si pensi al Tavolo dei presidenti regionali), sia modifiche funzionali (si pensi alle tre nuove figure che riguardano lo Sviluppo associativo, la Formazione e il Welfare), sia, infine, modifiche di processo (si pensi alla progettazione decentrata, alla sperimentazione condivisa e al monitoraggio consensuale).
    Ma al di là delle concrete innovazioni organizzative, il futuro sviluppo della governance richiederà alle ACLI di portare a compimento il proprio cammino di ripensamento e di ampliamento della democrazia interna, operando una sintesi tra democrazia associativa e democrazia deliberativa in una prospettiva più consapevole di democrazia sociale.
    Sarebbe dunque riduttivo pensare che l’investimento di risorse e di competenze che le ACLI hanno fatto sulla governance in questi ultimi anni sia una ristrutturazione puramente organizzativa, poiché essa contiene una potenzialità ben più ambiziosa: quella di innovare la democrazia a partire dal “civile”, che possiede già in sé un carattere sociale, associativo, partecipativo e perfino deliberativo prima ancora di assurgere anche formalmente a espressione politica.
    Possiamo dire che esiste nel cuore della governance un impulso a civilizzare ogni aspetto del sistema sociale, dalla politica all’economia, con l’obiettivo di costruire una democrazia più partecipata e svincolata dalle ideologie. La riscoperta del civile può aiutare a costruire una più autentica democrazia sociale che non è diminuzione ma arricchimento rispetto alla democrazia politica. Infatti, la democrazia partecipativa non è alternativa, né sostitutiva delle forme di rappresentanza, ma tende ad integrarle, attivando percorsi di condivisione e processi decisionali allargati.
    Come si afferma nella Centesimus annus (1991), un’autentica democrazia esige «che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della “soggettività” della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di responsabilità». (n. 46). Il nodo vero sta proprio qui e il collegamento che abbiamo cercato di stabilire tra il tema della governance e la democrazia deliberativa ci consente anche di delineare la cornice entro cui orientare il futuro sviluppo della governance nelle ACLI del XXI secolo.

    3. NUOVA RETE, NUOVA ASSOCIAZIONE

    Quando i nostri fondatori pensarono alle ACLI non ebbero tentennamenti riguardo alla natura popolare che l’associazione avrebbe dovuto avere: non era un ragionamento classista, estraneo alla cultura cristiana, ma la convinzione profonda di dover servire un popolo, per farlo crescere, nel suo insieme, sulla strada dello sviluppo integrale di tutti e di ciascuno.
    Oggi rimanere legati a questa natura popolare, senza cadere nel populismo che da molte parti affiora – dalla politica leaderistica ai santoni dell’antipolitica – vuol dire ripensare le forme della rappresentanza e rafforzare la nostra presenza articolata e plurale nei differenti territori del Paese. Essere associazione popolare vuol dire innanzitutto credere che esista ancora un popolo, che cioè non tutto si riduca a individui e a relazioni strumentali tra loro. Vuol dire ribellarsi alla mucillagine, alla società a coriandoli, ai tentativi di delegittimazione di ogni forma di rappresentanza, da quella politica a quella sindacale, fino a quella sociale.
    Non possiamo perciò non interrogarci, e far divenire questa la più rilevante domanda di questo nostro Congresso, su come noi riusciamo ad essere rappresentativi dei nostri associati, sulla qualità ed efficacia della nostra presenza nei territori, sulla capacità di innovarci per rispondere alle sfide nuove. Non deve essere un’ossessione, che procura soltanto ansia, ma certamente un pensiero ricorrente, presente in ogni nostra iniziativa.
    Quanto è accaduto nelle scorse settimane nella vita politica italiana imprime una forte accelerazione a tutta la società, accelerazione che noi da tempo abbiamo indicato come fortemente necessaria al Paese. Ma quanto è accaduto ci fa anche comprendere che organizzazioni strutturate, con lunga storia alle spalle, con visibilità e prestigio istituzionale, possono scomparire dall’orizzonte in un momento, se i cittadini comprendono che esse non sono più capaci di interpretarli, né sono in grado di dare un contributo positivo alla società. Come ho avuto già modo di dire in diverse occasioni, un’organizzazione sociale che non innova non è utile e, spesso, diviene persino dannosa.
    Facendo tesoro di questa esperienza le ACLI vogliono oggi proporsi di modificare, anche in profondità, il loro modello organizzativo, andando al contempo ad operare su tre versanti: la governance del sistema associativo e dei servizi, con particolare riferimento al modello di sussidiarietà verticale (poteri di province, regioni e nazionale, sia per l’associazione, sia per i servizi); la strutturazione della funzione sviluppo associativo in tutte le province, secondo un progetto che tenga insieme elaborazione di pensiero, formazione e costruzione della rete associativa; infine la ridefinizione dell’integrazione di sistema nei servizi, che parta dalle esigenze degli associati prima che dalle caratteristiche delle strutture.
    Parlare di modello organizzativo non è quindi ripiegarci su noi stessi, ma interpretare la fedeltà alla democrazia e, insieme, al futuro, dando all’associazione nuovi strumenti per essere ancora vitale e propositiva nei differenti territori.
    Il modello dei circoli, intorno al quale siamo nati e siamo cresciuti, sta giungendo a conclusione: non spariranno i circoli – intendiamoci – ma quei circoli che abbiamo fondato e sviluppato, nelle forme e nei modi di un tempo. Oggi l’aggregazione, come abbiamo indagato nella Conferenza organizzativa di Bari, non è più generalista e stabile, ma tematica e progettuale, fondata sull’interesse che, di volta in volta, porta le persone ad associarsi. Questo non è di per se stesso un male – al contrario – ma comporta un grande sforzo da parte dell’associazione per tenere insieme e dare significato unitario alle diverse esperienze. Identifico tre strategie da mettere al più presto in campo: rafforzare l’impegno nell’ascolto delle diverse realtà territoriali e nella produzione di pensiero e progettualità diffusa; promuovere una formazione capace di dare ai dirigenti e agli associati strumenti e significato del “fare ACLI”; predisporre reti tematiche all’interno dell’associazione che, anche superando il rigido schema delle “associazioni specifiche”, rendano tangibile il valore aggiunto del ritrovarsi in un’unica casa, dal Trentino alla Locride.
    Compiere questo sforzo presuppone un investimento straordinario di uomini e di risorse. Dopo oltre quarant’anni dall’ultimo progetto compiuto, che porta il nome di Livio Labor e richiama alla memoria i “Dirigenti Organizzativi” e la “Scuola Centrale”, è venuto il momento di tornare a osare: mettere in formazione almeno una persona per provincia, collocare sul piatto gran parte delle risorse dateci dai cittadini con il cinque per mille, far divenire i nostri Consigli provinciali e regionali “osservatori” delle politiche sociali, del lavoro, dell’immigrazione…
    Ripartiamo dall’abitare i territori, senza tentennamenti, portando la nostra proposta laddove ci sono i giovani lavoratori precari, le famiglie numerose e poco tutelate, gli anziani soli che non cercano compassione, ma di essere considerati risorsa per la comunità. Noi, a differenza dei partiti politici, siamo presenti in gran parte dei comuni italiani, abbiamo quasi un milione di associati e oltre 230.000 cittadini hanno riposto in noi la loro fiducia destinando il cinque per mille ai nostri progetti. Non partiamo da zero, quindi, ma ugualmente dobbiamo partire.

    III PARTE - SERVIRE IL FUTURO

    1. RIAPRIRE I SENTIERI INTERROTTI DELLA SPERANZA

    Il passaggio dal Novecento al XXI secolo non si ferma però in un quieto - se pur efficiente - adattamento al presente ma è sempre teso verso quel non ancora che ci è richiesto proprio dalla fedeltà al futuro.
    Nell’enciclica Spe Salvi, Benedetto XVI afferma che la fede «ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più puro “non-ancora”».
    L’espressione “servire il futuro”, non sta dunque ad indicare una vaga apertura al domani che nessuno conosce, ma vuole attestare che la nostra speranza, in quanto virtù performativa, è in grado di trasformare il presente nella direzione di ciò che ci è stato promesso nella fede.
    La storia della salvezza, come sa ogni cristiano, non riguarda individui isolati, ma è storia di popolo. Ciò fa dire a Benedetto XVI che «la vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all’essere nell’unione esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”». Noi cristiani, noi aclisti, noi uomini e donne di buona volontà.
    Vorrei a questo punto ricordare una donna che ha incarnato nella sua vita questa spiritualità dell’unità e ha saputo promuovere la forma concreta per tradurla in azione sociale attraverso l’economia di comunione: questa donna è Chiara Lubich, che il 14 marzo, come tutti sappiamo, si è riunita a quel Dio che per lei era “Abba”, Padre. Come noi aclisti vogliamo “servire il futuro” così Chiara Lubich affermava di voler “servire l’umanità”.
    In un incontro a Palermo, nel 1998, così ebbe a dire: «Quando consideriamo l’economia di comunione dobbiamo pensare ad uno dei fattori che la rendono così bella, viva, di esempio nel mondo: è il fatto che è suscitata e portata avanti dai laici. Mi ricordo che un tempo ci si diceva che il laico è colui che deve soprattutto imparare. Igino Giordano, perché laico, si sentiva addirittura un “proletario” della Chiesa. (…) Essi non si accontentano di realizzarsi con un lavoro, con una carriera, o con la semplice vita di famiglia, portandola bene avanti. Non basta loro tutto ciò; essi non sono sazi, non si sentono loro stessi, se non si dedicano anche esplicitamente all’umanità...
    Alla luce di questo atteggiamento di servizio laicale verso l’umanità, il futuro che le ACLI si impegnano a servire può essere prefigurato attraverso quattro scelte programmatiche e complementari quali la pace, la giustizia, il lavoro, il welfare. Ma non si riuscirà a dare concretezza alla cultura della pace e della nonviolenza, alla giustizia sociale e alla democrazia economica, all’umanesimo del lavoro e al welfare promotore di sviluppo, se allo stesso tempo non si provvederà a rinnovare la visione della democrazia.
    Sul lavoro voglio fare una particolare sottolineatura anche per ribadire che la sua centralità non riguarda il nostro passato ma è scritta nell’agenda del nostro futuro. Anche domani le ACLI avranno il compito di rispondere al rischio che il lavoro venga considerato nient’altro che merce utile a produrre guadagni e profitti. Questo inaccettabile svuotamento di umanità è spesso presente, in forme e gradi diversi, tanto nelle aree depresse del Sud del mondo quanto in quelle più industrializzate. Il lavoro rimane un punto di intersezione tra vita sociale e vocazione personale, tra quella che viene chiamata “nuova questione antropologica” e la tradizionale questione sociale, perché come già ricordava Giovanni Paolo II: “la persona è il metro della dignità del lavoro” e come ha affermato Benedetto XVI durante l’udienza alle ACLI del 27 gennaio 2006: «dal primato della valenza etica del lavoro umano, derivano ulteriori priorità: quella dell’uomo sullo stesso lavoro, del lavoro sul capitale, della destinazione universale dei beni sul diritto alla proprietà privata: insomma la priorità dell’essere sull’avere».
    Oggi confermiamo che il nostro impegno sul lavoro è nella centralità della persona che lavora. Immigrati, giovani, donne, precari, disoccupati over 50, colf: nei loro volti c’è la ragione della nostra azione sociale.
    Le ACLI si portano nel nuovo secolo la loro fedeltà al lavoro attraverso l’impegno per il riconoscimento di un lavoro dignitoso, che significa l’istanza di tutele globali, perché universali e perché rispondono alle esigenze differenti delle diverse persone. Il nostro compito inizia proprio dai lavoratori più deboli a partire dalla soppressione delle varie forme di illegalità e di sfruttamento che sono il primo attentato alla sicurezza dei lavoratori fino ad arrivare alla tutela di tutte le forme di lavoro, in particolare quelle atipiche. Dobbiamo uscire dal rischio di precarietà cronica. È stato osservato che le probabilità dei venticinquenni di avere un impiego permanente sono la metà di quelle che hanno avuto, a loro tempo, i cinquantacinquenni. Come il nostro Paese, se vuole investire sul futuro, non può abbandonare a loro stessi i suoi giovani, così anche le ACLI, attraverso il lavoro, hanno il compito di incontrare le nuove generazioni. Dobbiamo offrire loro forme efficaci e attuali di associazionismo superando le situazioni di solitudine ed incomunicabilità che il mondo della produzione di oggi, esasperatamente competitivo, tende a creare. Dobbiamo promuovere una rete di legami tra le persone che vada nella direzione di una politica della sicurezza non soltanto sociale, ma anche lavorativa. Fare gruppo è il modo di passare dalla società liquida a quella della coesione. Ai nostri servizi accedono tante persone, tanti lavoratori. Abbiamo l’opportunità di offrire loro la possibilità di fare rete, di conoscersi e riconoscersi. C’è un obiettivo da perseguire: passare dall’utenza alla partecipazione, dalla risposta offerta da un servizio alla proposta associativa, che si ponga l’obiettivo di rappresentare i lavoratori precari.
    Nel nuovo secolo appare ancora importante il ruolo del sindacato che deve, però, rimettersi in discussione. Un tempo il piano politico e quello sindacale erano accomunati da un’unica militanza, oggi scopriamo che non è più così perché il lavoratore spesso si iscrive al sindacato che reputa più forte e capace di tutelarlo, a prescindere dalla sua appartenenza politica.
    Si devono mettere a tema i rischi della rappresentanza e rappresentatività sindacale.
    L’attuale dibattito sul ruolo del sindacato ci stimola verso due direzioni. In primo luogo c’è l’esigenza di chiarezza verso la contrattazione aziendale. Non è certamente accettabile se viene intesa come ulteriore viatico alla flessibilità, mentre potrà offrire occasione di nuova vitalità per il mondo del lavoro nel momento in cui i lavoratori saranno considerati protagonisti attivi delle strategie aziendali, nelle forme e modalità proprie, e non come meri salariati. C’è anche qui un salto culturale da compiere per l’azione sindacale che dovrà essere indirizzata verso una democratizzazione dell’economia.
    Su questo terreno, voglio sottolineare l’importanza di quella che viene chiamata tracciabilità sociale del prodotto. Comunemente questa viene assegnata alla sferra del consumo e della tutela del consumatore. E’ necessario invece evidenziarne l’importanza rispetto alle condizioni del lavoro, quale indicatore della qualità e della trasparenza del processo produttivo. Insomma, bisogna applicarla anche al tema della tutela del lavoratore.
    Dall’altra parte il sindacato ha il compito di tornare sul territorio per costruire una nuova rappresentanza. Il territorio diventa sempre più luogo strategico di presenza, organizzazione e azione del sindacato, sul versante delle politiche redistributive e contrattuali, dell’organizzazione e del funzionamento del mercato del lavoro, delle politiche fiscali, dei prezzi e delle tariffe. Decentramento e sussidiarietà dovrebbero essere parole chiave per il futuro, perché la regolazione delle condizioni di lavoro possa trovarsi il più vicino possibile al “punto del fare”.
    La democrazia economica, il territorio ed il fare concreto sono gli ambiti dove si può realmente operare verso l’unità sindacale che non significa l’appartenenza anacronistica ad una novecentesca unica sigla, ma l’impegno unitario e concreto verso gli interessi dei lavoratori, di tutti i lavoratori. La definizione di uno Statuto dei nuovi lavori può essere l’occasione per iniziare questa costruzione. È utopia l’“unità sindacale”, ma è possibile costruire una rappresentanza unitaria per i nuovi lavoratori. Sarebbe un segno da parte dei sindacati confederali di uscita dal Novecento e anche dell’abbandono di logiche di autoconservazione.
    In un periodo di grande transizione abbiamo bisogno di ricostruire assieme un nuovo senso del nostro lavoro. Rimangono quanto mai attuali le parole di un grande testimone della fede come Giorgio La Pira: “Il problema del lavoro è in certo senso, dopo quello della preghiera, il problema che investe più profondamente la vita spirituale e religiosa della persona umana. L’uomo che lavora è come l’albero che produce frutto: i suoi talenti si moltiplicano (...)”. Nel lavoro ritroviamo un’intima connessione tra la vocazione propriamente umana di custodire il creato e la capacità di costruire relazioni tra persone, perché come il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, afferma “il lavoro di un uomo si intreccia naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno” (n 272). La dignità del lavoro quindi implica la centralità della sua socialità.
    Allora è urgente promuovere un “umanesimo del lavoro”, che recuperi la solidarietà attraverso nuove forme associative o nuovi esempi di mutualità, fino ad arrivare alla costruzione di una coalizione globale del mondo del lavoro, perché si possa ipotizzare un’economia solidale e personalistica. Serve un’etica del lavoro orientata al bene comune, perché il lavoro acquista il suo significato più profondo, quando ci si interroga sulle conseguenze dei risultati prodotti, quando si verifica se il frutto del lavoro distrugge e consuma o promuove e cura le persone, le società, l’ambiente.

    2. EDUCARE A NUOVE FORME DI CITTADINANZA E DI PARTECIPAZIONE

    2.1. Rispondere all’emergenza educativa
    Nella “lettera” sull’educazione che Benedetto XVI ha inviato alla Diocesi di Roma (21 gennaio 2008), e sulla quale si è sviluppato un ampio dibattito nel nostro Paese, ed anche nelle ACLI, troviamo puntuali considerazioni che meritano di essere richiamate.
    Così scrive il Papa: «Aumenta oggi la domanda di un’educazione che sia davvero tale. La chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli; la chiedono tanti insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita».
    E la ragione di tutto questo viene illustrata con precisione osservando che, «a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, (invece) nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Aggiunge inoltre: «anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale. Quando però sono scosse le fondamenta e vengono a mancare le certezze essenziali, il bisogno di quei valori torna a farsi sentire in modo impellente».
    Tutti coloro che hanno responsabilità educativa – e le ACLI sono consapevoli di essere tra questi – sentono il dovere e l’urgenza di non rassegnarsi ma di prendere la parola e di fare la propria parte.
    Con altre associazioni e organizzazioni abbiamo costituito il Laboratorio Educativo Permanente di cui fanno parte Agesci, Cisl, Csi, Centro oratori romani, Federazione oratori milanesi, Federazione delle comunità terapeutiche, Fondazione Exodus. Prima delle ultime elezioni abbiamo deciso di scrivere una lettera aperta ai candidati premier, per chiedere loro un impegno ed indicare priorità e proposte, a partire da «uno sguardo educativo su tutte le dimensioni sociali che coinvolgono i ragazzi»: la famiglia, la scuola, la formazione, il disagio, il tempo libero. In particolare abbiamo chiesto un impegno per la formazione ai valori civili attraverso il sostegno concreto del volontariato, del servizio civile, delle iniziative di educazione alla pace, alla legalità, al rispetto dell’ambiente.
    In questo tempo di emergenza educativa è dunque necessario che le ACLI provvedano a rinnovare la propria proposta perché esse hanno sempre avuto funzione di pedagogia sociale.
    Oltre ad aggiornare gli strumenti della formazione integrale, bisognerà accompagnare i giovani non solo nella fase di crescita ma anche nei primi e impegnativi momenti di vita adulta.
    Le ACLI ribadiscono la necessità di una formazione scolastica solida e competente, contestualmente affermano, sulla base della loro lunga esperienza, che la formazione professionale concorre con pari dignità all’educazione integrale della persona. Essa è strumento preziosissimo per introdurre i giovani con possibilità di successo nel mondo lavorativo e al contempo per assicurare una formazione lungo tutto l’arco della vita.
    Questa è sempre stata la nostra battaglia, ma oggi acquista un nuovo significato a fronte di un’emergenza educativa alla quale occorre rispondere con puntualità e lungimiranza.

    2.2. Finanza etica e consumo responsabile come strumenti di coesione sociale
    La pratica del consumo ha ormai pervaso qualsiasi ambito della vita quotidiana e tende a prevalere su ogni altro aspetto. Inoltre si è prodotta una mutazione rivoluzionaria dei luoghi dove si consumano beni e servizi, che ha causato conseguenze non solo sulla natura dei consumi, ma anche sulla vita sociale.
    Per invertire la rotta non possiamo più permetterci di fare qualunque gesto di consumo come se la nostra azione fosse ininfluente, bensì dobbiamo riappropriarci della capacità di riflettere ed assumere comportamenti coerenti, tenendo conto dell’effetto moltiplicatore di tali azioni. Proprio a partire dalla dimensione micro si possono elaborare strategie e mettere in opera una reale alternativa.
    Una strategia possibile è trarre vantaggio dalla natura estensiva e diffusa del consumo, esaltandone le potenzialità sotto il profilo del legame sociale. Ci vuole una rivoluzione culturale e del modus vivendi, che faccia comprendere come la sobrietà sia un nuovo stile di consumo più sostenibile dal punto di vista ambientale ed etico e non una rinuncia o tanto meno un’anomalia.
    Esistono già numerose esperienze (i Gruppi di acquisto solidale, i bilanci di giustizia, il consumo critico, il turismo responsabile, ecc.), proposte da chi si è messo alla ricerca di un benessere diverso, che punta sulla sobrietà “felice”, perché non si tratta di rassegnarsi a privazioni ma di acquisire vantaggi rispetto alla qualità della vita in generale, anche spirituale. Abbandonare i consumi indiscriminati, che privilegiano le merci e non i beni, comporta per i singoli e le famiglie, oltre che per la società, un risparmio di risorse economiche, in aggiunta a quelle ambientali. Non si tratta, quindi, solo, di una sollecitazione etica ma della riscoperta di una convenienza e di una razionalità, che conduce ad un migliore benessere complessivo delle persone. La sobrietà è quindi non solo eticamente giusta, ma anche desiderabile e da scelta individuale può diventare orientamento sociale.
    Inedite possibilità si presentano nel momento in cui il risparmio ed il consumo vengono percepiti ed utilizzati sia come mezzi per esprimere senso di responsabilità sia come strumenti propriamente politici, che si propongono di cambiare le regole e le prassi abituali.
    In questo modo, le innovative esperienze del risparmio e del consumo responsabile diventano uno specifico ambito di mobilitazione ed azione collettiva, di partecipazione. Nell’atto del consumo si può ricercare l’espressione di solidarietà e rispetto verso qualunque altro, che sia l’ambiente o il produttore del Sud del mondo, con l’intenzione di fronteggiare i dissesti creati dai processi di globalizzazione, particolarmente evidenti nel campo del commercio e del consumo. Uno spazio importante si apre, quindi, per le organizzazioni pro-sociali come le ACLI nella direzione di mobilitare risorse morali e materiali intorno a queste iniziative, che ci proponiamo di ampliare per il futuro diffondendo anche la cultura del bilancio ambientale e verificando l’opportunità della “class action”.
    Siamo infatti convinti che la partecipazione dei cittadini organizzati sia una spinta indispensabile per la nuova fase che si è aperta nel nostro Paese.

    2.3. Per una cittadinanza familiare
    La famiglia è nel cuore dell’impegno associativo, parte integrante di quei valori umani che vogliamo portare con noi nel XXI secolo.
    Migrare dal Novecento significa in questo ambito, per un verso, fare i conti con le profonde trasformazioni sociali che attraversano l’orizzonte familiare, per l’altro non rassegnarci a considerare la famiglia secondo un’attardata ottica contestativa come un’istituzione superata e “passatista”. Nel riaffermare il valore e la centralità della famiglia pensiamo ad una realtà legata al futuro, non a vecchi modelli tradizionalisti.
    In questo senso, poiché vogliamo leggere (“abitare”) il presente e custodire le ragioni del futuro per le nostre famiglie, non è improprio definire il nostro atteggiamento su questa cruciale tematica come espressione della nostra profezia, laicale, cristiana e spirituale.
    La famiglia è per noi garanzia dell’autentica vocazione popolare delle ACLI, attente ai legami sociali là dove nascono: nella primarietà dei rapporti familiari, decisivi per l’armonica crescita delle relazioni e delle persone, degli affetti e dei progetti di vita.
    Crediamo che la famiglia sia il primo luogo delle relazioni di reciprocità, di accoglienza, di fiducia. A partire dalla relazione tra uomo e donna, per estendersi ai rapporti tra le generazioni e al più vasto contesto sociale. Luogo di relazioni intime ma non privatistiche, la famiglia è per noi originariamente un luogo di socialità.
    Da questo piano valoriale nasce il nostro impegno concreto e la scelta politico-strategica di lavorare per un’affermazione della cittadinanza familiare. Siamo per il superamento della dicotomia, tutta novecentesca, tra diritti individuali e diritti della famiglia. Ricomporli in un’unica sintesi è uno dei compiti per le ACLI del XXI secolo. Compito culturale, educativo e operativo.
    La cittadinanza familiare è alla base della soggettività politica della famiglia, per la quale ci battiamo da lungo tempo, anche nella concretezza delle nostre scelte in materia di lavoro (politiche di conciliazione), di welfare (formato famiglia), di redistribuzione (quoziente familiare) condividendole con il Forum delle associazioni familiari. È questo uno dei luoghi di confronto e di iniziativa nei quali le nostre ACLI devono far confluire progettualità e impegno politico. Sul piano culturale si tratta di restare ancorati al dettato costituzionale e alla sua limpida formulazione, nella quale emerge il meglio dell’incontro tra la cultura cattolica e quella solidaristica dei padri costituenti.
    Società naturale e istituzione sociale, come recita il testo costituzionale, la famiglia è punto di incontro tra la vita (anche nel suo senso biologico) e la politica, tra il presente che viviamo e il futuro che prospettiamo, per ciascuno e per tutti. Riconoscere che la famiglia è un bene comune, è infine il passaggio definitivo ad una nuova cultura delle relazioni della quale il nostro mondo, frammentato e atomizzato, ha più che mai bisogno. La nostra azione sociale, aggregativa e progettuale è chiamata, alle soglie del XXI secolo, a fare la sua parte e a realizzare nella concretezza questo compito cruciale. Per noi e per le future generazioni.

    2.4. Dall’integrazione all’innovazione: il Punto Famiglia
    Dal Congresso di Bruxelles in avanti a più riprese le Acli hanno posto al centro dell’attenzione i modelli organizzativi delle loro imprese e servizi. In molti casi tutto questo ha comportato la nascita di sperimentazioni innovative, che a loro volta hanno dato vita a cambiamenti statutari e a progetti via via divenuti prassi abituale del sistema. Un elemento, tra tanti, mi preme sottolineare di questo percorso: le Acli hanno scelto di non dividere l’associazione dai servizi, le idee dalle azioni. L’associazionismo parla con il fare, per dirla a slogan.
    Questo ha comportato diversi problemi – ne siamo consci – primo fra tutti il carico di impegni e responsabilità per i presidenti, ma ha evitato derive aziendalistiche e, soprattutto, ha consentito alle opere di rimanere sempre strettamente connesse con la forza ideale che le ha promosse.
    Oggi, però, ci rendiamo conto che sono necessari ulteriori passi per dare qualità al nostro sistema: dobbiamo rendere più esplicito il ruolo di indirizzo strategico della dirigenza politica, distinguere meglio le responsabilità politiche da quelle manageriali, indicando con precisione le responsabilità a tutti i livelli e, infine, dobbiamo dare visibilità all’integrazione tra le diverse esperienze di servizio.
    Riguardo ai due primi aspetti non mi soffermo a lungo, in quanto credo sia opportuno affidare il compito di progettare gli opportuni passaggi al Cosis, il Coordinamento dei Servizi e delle Imprese a vocazione sociale, prevedendo altresì di inserire alcuni vincoli nella Carta dei Valori di cui propongo che le Acli si dotino a partire dai prossimi mesi. E’ importante, infatti, che chiunque operi all’interno dell’associazione e delle iniziative da essa promosse si attenga a regole valoriali condivise, conoscendo quindi limiti e responsabilità connessi al suo mandato.
    Rispetto, invece all’integrazione di sistema – e all’intima connessione che ritengo debba rimanere tra i servizi e l’associazione – credo sia giunto il momento di dare piena attuazione alla proposta abbozzata in Conferenza organizzativa di far nascere, in tutte le province italiane e, sarebbe bello, anche in tutti i Paesi in cui è presente la FAI, dei “Punto Famiglia”, spazi di incontro e offerta integrata di servizi rivolti alle famiglie.
    Dalla COP di Bari è emersa l’indicazione di valorizzare la presenza e il ruolo delle famiglie, dando vita a nuove forme di aggregazione e di servizio rivolte alle famiglie stesse. Questo mandato si è tradotto in una sperimentazione che ha coinvolto un congruo numero di province che hanno avviato nuove modalità aggregative. L’idea dei “Punto Famiglia” ha cominciato a prendere corpo nelle esperienze territoriali, assumendo connotazioni diverse e originali. Da queste emerge un elemento di fondo: l’effettiva possibilità di integrare sinergicamente e innovare la rete dei servizi delle ACLI in funzione dei bisogni della famiglia.
    Non si tratta di realizzare soltanto degli sportelli integrati, che erogano i nostri servizi tradizionali (Patronato e CAF) e altri più innovativi (consulenza giuridica, mediazione familiare, asili nido, servizi dopo scuola, progettazione e realizzazione di percorsi di formazione alla genitorialità e di sostegno dei legami di coppia, realizzazione di iniziative aggregative rivolte alle famiglie con un’attenzione specifica ai giovani, agli anziani e agli immigrati). C’è qualcosa di più: vogliamo dare protagonismo alle famiglie, rendendole esse stesse attrici della loro storia sociale.
    La famiglia diventa così sia produttore che consumatore dei servizi: l’obiettivo è quello di arrivare ad un coinvolgimento completo delle famiglie, fino a farle diventare, come già sta avvenendo in alcune sperimentazioni, veri soggetti sociali aclisti.
    Se fino a ieri le ACLI hanno lavorato per la famiglia, oggi, attraverso il “Punto Famiglia” intendono lavorare soprattutto con la famiglia.

    CONCLUSIONI

    Infine, giungendo al termine della mia relazione – ampia più di quanto avrei voluto, ma non sufficiente per contenere le tante cose che ci stanno a cuore – voglio sottoporre alla vostra attenzione alcuni elementi simbolici che caratterizzeranno questa nostra assise.
    In primo luogo l’icona congressuale, raffigurante l’incontro di Maria con Elisabetta, la cosiddetta Visitazione. Non è difficile intuire i richiami al nostro titolo congressuale: da un lato la migrazione, il movimento che ha portato Maria, pur incinta, ad andare dalla più anziana cugina, poi l’abitare il presente, la concretezza del servizio e della solidarietà, infine il servizio al futuro, che nell’icona è espresso mirabilmente dalla presenza dei due Bambini, ancora nel grembo delle loro madri. L’immagine, inoltre, evoca a tutti noi il Cantico del Magnificat, che accompagna questo incontro: straordinaria espressione dell’amore di Maria e, al tempo stesso, sovvertimento di ogni disegno umano, di ogni schema di potere e di successo mondano.
    Il tema congressuale sarà ugualmente richiamato nelle tre diverse giornate congressuali dalle testimonianze che, durante la meditazione mattutina, ci saranno offerte da tre coraggiosi protagonisti. Padre Iosif Dora, decano della Diocesi di Miasi, in Romania, ci porterà l’esperienza di una Chiesa sorella di cui molti figli sono tra noi, migranti, cittadini europei, ma spesso ospiti sgraditi, guardati con sospetto se non con ostilità. La dott.ssa Alberta Valente, neonatologa trentina, ci parlerà del suo servizio alla vita, e quindi al futuro dell’umanità, sia in Italia, sia nei Paesi dell’Africa, volontaria del CUAMM. Padre Ibrahim Faltas, infine, parroco latino di Gerusalemme, ci spiegherà come è possibile “abitare il presente” in una città tra le più ricche di contraddizioni, tra l’angoscia della guerra e la speranza della pace.
    Come ho cercato di dirvi in questa mia relazione, infatti, il tema che abbiamo affrontato non può rimanere per noi astratta elaborazione culturale. Non possiamo entrare nel XXI secolo solo con la testa. Abbiamo bisogno di testimoni, di strade percorribili, di progetti concreti.
    Il nostro Paese, e un po’ tutti noi insieme con lui, abbiamo vissuto una fase complessa, difficile, di progressiva stagnazione. Ora la transizione è finita, per l’Italia e per le Acli.
    Abbiamo messo davanti a noi molte delle sfide che ci attendono ed altre ancora emergeranno in questi giorni di dibattito, che auspico intenso e costruttivo, ed insieme abbiamo avanzato le prime proposte, per indicare la “via della migrazione”.
    Ora sta a noi compiere le scelte. A tutti quanti noi, insieme. Infatti solo con questo sforzo corale noi potremo nei prossimi anni cambiare il volto della nostra associazione, non per stravolgerlo o solo imbellettarlo, ma per renderci più belli, attraenti e riconoscibili nei nostri valori profondi.
    “Fare le Acli”, cioè impegnarci in un progetto di costruzione di una società più solidale, più autenticamente umana, è un grande progetto. Farlo partendo da “una fede autentica”, che “apre vie nuove e profonde” – per riprendere le parole di Aldo Moro da cui sono partito – è una bella avventura, che va ben al di là dei nostri stessi sforzi.
    Un’avventura, amici, che insieme possiamo affrontare.

    Roma, 1 maggio 2008

     


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