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    Un percorso politico, un'esperienza di fede

    Con Savino Pezzotta stiamo cercando di costruire una riflessione tesa a storicizzare, cioè a rendere contemporanei, i contenuti del magistero che ci ha formati e indotti al rispettivo impegno pubblico. Noi siamo infatti impegnati sulle rispettive frontiere, quelle della politica e del sindacato, perché siamo stati educati all'idea che i cristiani debbano stare dentro la storia, e starci con tutte e due i piedi, poiché come diceva Bonhoeffer: «bisogna sposare la terra perché quelli che stanno sulla terra con un piede solo finiranno di stare pure in cielo con un piede solo».
    Sappiamo, infatti che è stato affidato agli uomini il compito di dominare le cose temporali per poter completare la creazione.
    La prima enciclica di Giovanni Paolo II, "Laborem exercens", ha messo a fuoco questo impegno particolare. E la prima enciclica di Benedetto XVI "Deus caritas est" ci dice in che modo, con quale spirito assolvere tale mandato. Se solo fossimo consapevoli della missione che viene affidata a noi laici, sentiremmo il dovere di riflettere su quali sono i Suoi disegni, poiché noi dobbiamo ordinare le cose temprali in relazione ai Suoi disegni, e per fare ciò, dobbiamo conoscerli e capirli. Questo possiamo farlo agevolmente solo se c'è confidenza con la Parola, abitudine a ruminarla, a metabolizzarla con passione e costanza. La diversità maggiore delle passate generazioni di classe dirigente cattolico democratica, rispetto a quella attuale, probabilmente riguarda proprio questo dato della formazione religiosa e, dunque, della "motivazione", cioè delle ragioni che stanno a monte dell'impegno e lo motivano. Non è il caso di indulgere in nostalgie, anche perché, come s'è visto, l'esperienza ha dimostrato che anche la "formazione religiosa" non ha evitato in passato una clamorosa deriva morale. Ciò non toglie, peraltro, che oggi ci si debba tornare a porre la domanda sulla "differenza" dei cristiani impegnati in politica, così come quella sulla consistenza e sul senso dell'evocazione da parte loro di una particolare ispirazione culturale, etica ed ecclesiale. Una "differenza" che non può limitarsi alla declamazione di valori e dottrine, ma che dovrebbe coinvolgere non di meno lo spazio della coerenza dei comportamenti sia pubblici che personali (Dossetti parlava degli "abiti virtuosi" che i cristiani debbono sempre indossare). Anche se è superata l'esperienza storica dell'unità politica dei cristiani, cioè dell'opportunità storica di un loro associarsi in partito politico, non v'è dubbio che stanno emergendo nuove domande di senso per la politica che interpellano in modo diretto proprio i cristiani.

    Il potere dell'uomo sull'uomo. La scienza e la Chiesa

    Viviamo, infatti, un tempo di grande smarrimento, seppur per ragioni assai diverse, come nei primi anni del dopoguerra. Ricordo un dialogo di don Giuseppe Dossetti con Nilde Ioni (a Monteveglio a metà degli anni novanta): il professore reggiano faceva risalire la nostra Carta costituzionale non tanto, o non prevalentemente, alla Resistenza, ma alla seconda guerra mondiale, a quell'evento che aveva prodotto cinquanta milioni di morti, la shoah, la distruzione di intere città, e si era concluso con l'invenzione della bomba atomica e, dunque, la scoperta da parte dell'uomo della sua capacità di distruzione dell'umanità intera. Proprio perché c'è stata quella guerra noi siamo riusciti a scrivere un testo così intenso, diceva, e a pensare una democrazia di tanta originalità, a condensare cioè nella Carta la sapienza storica distillata dalla tragedia di quella guerra e dalla consapevolezza della infinita misura del male che essa aveva portato nella storia.
    Oggi i problemi sono di uguale spessore ma di natura diversa. La scienza ha scoperto nuove possibilità di potere sulla vita, sappiamo che il suo potere per molti aspetti è divenuto enorme, può rappresentare una straordinaria opportunità per gli uomini o può trasformarsi in uno straordinario rischio, ed è proprio questo che terrorizza l'uomo. Di fronte a tale smarrimento a me sembrano tristissime le posizioni veterolaiciste che pretendono di "misurare" il pensiero e il richiamo al senso di responsabilità dei cattolici come problemi di una minoranza che va trattata come tale.
    Dobbiamo uscire da questo complesso di essere minoranza che ha finito per prendere anche noi: sì, numericamente lo siamo, sono in minoranza i cristiani che la domenica vanno a messa, ma c'è nel loro pensiero non un "dna minoritario" ma una potenzialità preziosa per l'uomo contemporaneo. Come dare spazio a questa potenzialità in politica, rispettando l'autonomia della politica stessa?

    Il senso e il ruolo della laicità

    Mi ha colpito il commento di alcuni esponenti politici (cosiddetti) laicisti, al discorso di insediamento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Finalmente – è stato detto da qualcuno – un discorso serio sulla laicità dello Stato». Ebbene, Giorgio Napolitano in quella occasione aveva semplicemente detto che lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Non si sono accorti, questi commentatori, che il Presidente della Repubblica aveva citato l'articolo 7. È parsa loro una grande novità. A conferma che il dibattito sulla laicità dello Stato e della politica è oggi un po' drogato, qualche volta purtroppo anche dall'ignoranza, dalla non conoscenza di punti acquisiti, per nostra fortuna, sessant'anni fa nel testo della Carta costituzionale. Credo infatti che la definizione contenuta nell'articolo 7 della Costituzione, sia sotto molti profili un capolavoro, perché riesce a dire, in modo chiarissimo e magistrale, quali debbono essere i rapporti tra Cesare e Dio, tra lo Stato e la Chiesa e, dunque, fra Cesare e Pietro. Di più e di meglio non si può dire.
    Con una sentenza di qualche anno fa la Corte costituzionale, soggiunse che, essendo autonomi, Stato e Chiesa, non possono peraltro ignorarsi, perché – stiamo parlando dello Stato italiano e della Chiesa italiana – è evidente che, operando nello stesso territorio e in qualche modo essendo voce della stessa comunità, ognuno deve tenere conto dell'altro. Lo Stato non può prescindere, pur rispettando tutte le religioni, dal sentimento e dalla fede largamente condivisa da una parte così rilevante dei propri cittadini, senza ridurre o contraddire la propria dimensione laica.
    Il discorso della laicità attiene proprio alla funzione della politica e al suo esercizio, oltre che al ruolo e alle prerogative dello Stato. Spesso usiamo tante parole per descrivere il tema della laicità, senza riuscire a spiegarci. Vorrei richiamare quelle utilizzate in modo efficace dall'allora cardinale Joseph Ratzinger a proposito della politica e del rischio che lui vedeva di una sua teologizzazione. In questo caso il rischio sarebbe quello della ideologizzazione della fede. «La politica – secondo Ratzinger – non si desume dalla fede, ma dalla ragione. In questo senso lo Stato deve essere uno Stato laico, profano nel senso positivo».
    Non si può essere più chiari: la politica viene dalla ragione, non viene dalla fede, e dunque lo Stato assume da una politica che nasce dalla ragione, il senso della sua missione.

    L'insegnamento di De Gasperi sul tema della laicità

    Queste cose, che erano naturali per i nostri padri costituenti, devono essere ancora riproposte oggi perché sembrano dimenticate.
    Alcide De Gasperi, essendo a quel tempo Presidente del Consiglio, poté dedicarsi poco al lavoro dell'assemblea costituente, l'unico intervento che fece riguardò proprio l'articolo 7. Fu un discorso nel quale era lucidissima e inequivocabile la distinzione tra Stato e Chiesa, la "divisione" ma nello stesso tempo la reciproca influenza.
    Il problema peraltro anche oggi non è tanto quello di una definizione astratta dei rapporti tra politica e fede, quanto quello, per i cristiani, di realizzare, nel loro comportamento e nelle loro scelte, una condizione di coerenza con le cose in cui credono e con l'ispirazione a cui fanno riferimento.
    Sotto questo profilo la lezione di De Gasperi fu straordinaria. Pochi altri uomini politici ci hanno dimostrato con l'esperienza come si sta da cristiani in politica, come si vive l'esperienza politica in coerenza con la propria fede e con la propria esperienza religiosa. L'epitaffio che scrisse alla sua morte il Presidente della Repubblica Luígi Einaudi, nella sua semplicità, dice tutto: «(De Gasperi) Credette nella parola del Vangelo, ebbe fede nella libertà, ed operò seguendo l'imperativo del dovere».
    Ci sono in questo commento tre valutazioni che, in qualche misura, fanno riferimento al modo di essere dei cristiani nella politica. «Credette nella parola del Vangelo», questo è il cristiano; «ebbe fede nella libertà», questo è il cristiano in politica; «operò seguendo l'imperativo del dovere», è ciò che dovrebbe connotare il modo di stare in politica di tutti.
    Del resto lo stesso De Gasperi, che è stato un "laico cristiano" eccellente, ci teneva ad essere ricordato come uomo politico credente, come scrisse in una lettera alla moglie Francesca: «Ci sono uomini di preda, uomini di potere e uomini di fede. Io vorrei essere ricordato fra questi ultimi».

    Potere e fede

    È stato e ha fatto tante cose De Gasperi. È stato fondatore della Repubblica, costituente, ricostruttore dell'Italia e fra i principali promotori dell'Europa unita. Ha fatto attività politica di primissimo rilievo gestendo il potere. Non era un cristiano imbarazzato nel gestire il potere: lo ha amministrato, lo ha esercitato con la competenza e la professionalità che esso richiede. Spesso i cristiani hanno una certa diffidenza verso il potere, perché il potere è tentazione, ha in sé il rischio della corruzione. Resistere a questa possibile tentazione dovrebbe descrivere la differenza dell'uomo politico cristiano. Si legge nella Lettera a Diogneto: «Da come adempirete a tutti i doveri dei cittadini, e porterete i pesi della vita sociale con interiore distacco si riconoscerà che siete cristiani». De Gasperi viveva il potere e l'esperienza politica come occasione per conservare la fede, anzi per realizzare la fede. Rispose, pochi giorni prima della morte, a Oscar Luigi Scalfaro, che gli aveva scritto a proposito dei turbamenti che i cristiani provano nell'esercizio del potere: «Quello che dobbiamo soprattutto trasmettere l'uno all'altro è l'esempio del servizio al prossimo, come ci ha indicato il Signore, tradotto e attuato nelle forme più larghe della solidarietà umana, senza menar vanto dell'ispirazione profonda che ci muove, in modo che l'eloquenza dei fatti "tradisca" la certezza del nostro umanitarismo e della nostra socialità». Non possiamo e non dobbiamo, dunque, menare vanto della nostra ispirazione. Sono i nostri comportamenti, le nostre opere, i fatti che realizziamo che devono parlare e debbono trasmettere l'immagine dell'ispirazione che sta a monte del nostro agire. I nostri fatti debbono "tradire" – cioè trasmettere, far vedere – l'ispirazione.
    In ciò consiste la laicità e la coerenza con la propria fede!
    Mi sono soffermato su De Gasperi perché mi capita sovente di riflettere sul fatto che vi sono alcuni uomini politici che hanno sofferto, durante la loro esperienza politica, l'amarezza dell'isolamento, della solitudine e dell'incomprensione da parte dei fratelli nella fede, da parte della Chiesa, della gerarchia in particolare. Hanno sofferto la solitudine e l'isolamento mentre avevano la responsabilità della politica. Per alcuni di costoro è cominciato oggi, a decenni di distanza, il processo di canonizzazione: mi riferisco a Sturzo, De Gasperi, La Pira, Lazzati, Igino Giordani. Mentre per altri (penso a Frassati e a Marvelli), è stato raggiunto il traguardo della santificazione.
    Si tratta di uomini politici dei quali non si può dire che hanno trovato la via della santità nonostante l'impegno politico, ma a causa dell'impegno politico.
    La politica è stata per questi uomini – che oggi ci appaiono giustamente dei giganti e degli esempi di grande valore, come lo erano anche allora – il luogo, l'occasione, lo strumento per la propria santificazione personale. La politica non vantata, non esibita, non servile, esercitata con "interiore distacco" da uomini che sapevano assumere le proprie responsabilità anche di fronte alla gerarchia. "Obbedienti in piedi" dirà Vittorio Bachelet, un altro laico esemplare, ucciso dalle Brigate Rosse.
    Oggi l'impegno politico dei credenti è meno visibile, meno riconoscibile, non solo perché mancano personalità di questo spessore ma anche perché non vi è più un partito in cui la comunità dei fedeli, di fatto, riconosca una propria proiezione sulla frontiera della politica. L'esperienza della politica è, oggi, anche per i cristiani, più esperienza personale, individuale, inevitabilmente più esposta a tanti rischi, tra cui quello della non rilevanza e della mera testimonianza (sicuramente preziosa sul piano personale ma scarsamente efficace su quello politico).

    Differenza cristiana

    Viviamo un tempo nuovo. A quella stagione dei credenti laici organizzati, caratterizzata dal dialogo con il proprio tempo, è subentrata la stagione dei laici cristiani "della diaspora" e poi quella dei cosiddetti "atei devoti".
    Tra questi ultimi (oggi particolarmente numerosi) ne abbiamo ascoltati tanti negli ultimi anni dire: "Io non ho la fede, però credo nella Chiesa". Oppure: "Non credo in Cristo"; "Non credo nell'Incarnazione"; "Non credo nella Risurrezione"; "Non credo, ma credo nella cultura occidentale che è cristiana". C'è in questa ostentazione l'esplicita intenzione di svuotare la religione del suo nucleo centrale, cioè della fede, per farne un fenomeno di cultura e di civiltà, identificata con quella dell'Occidente. Un impoverimento mostruoso, una deriva silenziosa e terribile della fede.
    Uno smarrimento del senso della "differenza cristiana" (per evocare il titolo dell'ultimo lavoro di Enzo Bianchi) cioè dell'originalità cristiana. Se si perde il senso della differenza tutto diventa irrilevante. La fede ridotta a dato culturale produce inevitabilmente da un lato atteggiamenti clericali e dall'altro risposte laiciste. Il laicismo e il clericalismo sono infatti due atteggiamenti che si alimentano a vicenda e condizionano oggi negativamente lo svolgersi della vita politica.
    C'è una bella immagine, proprio di Enzo Bianchi, a proposito del dibattito sulle radici cristiane dell'Europa, che descrive cos'è il clericalismo e che cos'è il laicismo: «Pretendere di scrivere il nome di Dio nella Costituzione Europea è un atteggiamento clericale. Pretendere di non riconoscere le radici cristiane nella formazione dell'Europa è un atteggiamento laicista, è la negazione della verità storica. Sono i pregiudizi figli di pregiudizi».
    La fede ridotta a cultura diventa materiale interessante e manipolabile per la politica, qualcosa di utilizzabile e strumentalizzabile. Sostenere e promuovere una certa opzione culturale è infatti competenza della politica. Così i credenti che non colgono la manipolazione del punto di partenza – la riduzione della fede a dato culturale – possono essere "conquistati" dall'apparente magnanimità del potere politico.
    All'inizio dell'esperienza del fascismo, quando il governo Mussolini decise di adottare alcune "politiche chiesastiche", per ingraziarsi il favore del clero, Sturzo, comprendendo l'insidia, convocò un congresso straordinario del PPI per decidere l'uscita da quel governo di quei popolari che vi erano entrati. Le "politiche chiesastiche" consistevano nell'inserimento dei cappellani nell'esercito, del Crocifisso in tutti i luoghi pubblici, eccetera. Si trattava di un "contentino" offerto ai cattolici per carpirne la simpatia e l'adesione a una politica che contraddiceva nel profondo i principi cristiani.
    La "Gaudium et Spes" , al punto n. 76, dice: «La Chiesa non pone le sue speranze nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa stessa rinuncerà all'esercizio di certi diritti definitivamente acquisiti ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza. È suo diritto predicare la fede e dare il suo giudizio morale. Questo farà utilizzando tutti e solo quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti».
    Oggi in Francia, dove si assiste ad un indurimento di un tradizionale atteggiamento laicista, di fronte al tentativo di compensarlo con qualche offerta di privilegi, il presidente della Conferenza episcopale, il vescovo Ricard, ha detto «la Chiesa francese non vuole negoziare un posto nella società; non vuole trasformarsi in fortezza assediata, anche di fronte all'ostilità, alla derisione e all'aggressività. Sia chiaro, però, che essa non resterà muta, né si lascerà paralizzare, ma chiederà la possibilità del riferimento pubblico alla fede e della manifestazione della religione nella società contemporanea».
    La Chiesa deve, dunque, mantenere la sua libertà e i cristiani in politica debbono lavorare per conservarle la libertà di pronunciare la sua profezia e il suo magistero fino in fondo. La libertà della Chiesa è di intervenire tutti i giorni con giudizi etici anche sulle vicende della storia e della politica e di rispondere in tal modo a quanti si pongono la domanda "che ne pensa la Chiesa?". È il diritto – dovere dí parlare, riconosciuto nella costituzione, che si alimenta e si accredita proprio per l'assenza di privilegi.
    Il fenomeno degli «atei devoti», peraltro, non è nuovo. Inizia, secondo alcune letture storiche, all'inizio del XIX secolo. C'è chi ha scritto che il più grande degli «atei devoti» è stato Napoleone, per non parlare oltre un secolo dopo di Mussolini. Oggi, ovviamente, il fenomeno ha sembianze diverse e non è solo europeo. Nasce dalla constatazione di una certa inadeguatezza e insufficienza della cultura laica a dare risposte ai problemi dell'uomo e della società contemporanea, e dalla conseguente opportunità di integrare sostanzialmente non già le parole della fede, ma quelle, e solo quelle, che servono ai fini della politica e della gerarchia.
    È il caso di ricordare che ogni volta che la politica ha pensato di utilizzare la fede, di cavalcare la religione, di strumentalizzare la Chiesa, ha finito per generare una provvidenziale reazione dei laici cristiani seri che si sono sentiti chiamati all'impegno proprio per riposizionare le cose al posto giusto.
    Nel 1904 Sturzo pensò alla promozione di un partito di cristiani (il PPI nascerà quindici anni più tardi) proprio per liberare la Chiesa dall'onere di trattare le cose temporali. Ci assumiamo la responsabilità, come laici, affermava Sturzo, di trattare le cose temporali perché vogliamo bene al nostro paese, perché vogliamo bene alla nostra Chiesa e la vogliamo liberare da questo onere. La grandezza di Sturzo consistette proprio nel pensare ad un partito aconfessionale, che senza rinunciare al conflitto ideologico con il socialismo e con il liberalismo, e senza smarrire la sua profonda ispirazione cristiana, diveniva lo strumento attraverso cui, nella libertà del mondo moderno, si inseriva nella politica
    l'ispirazione religiosa.
    Poi, dopo la notte del fascismo, toccò a De Gasperi, Dossetti e tanti altri laici cristiani, tracciare nuovamente la strada di un impegno politico che fecondasse la storia dei valori del pensiero cristiano, "riparando" la Chiesa dall'onore e dai rischi di un impegno diretto.
    Oggi i tempi sono nuovamente cambiati, come abbiamo detto, e la diaspora dei cristiani in tanti partiti politici schierati nelle due coalizioni del nostro sistema bipolare, ha lasciato spazio, da un lato a una più diretta iniziativa della Chiesa italiana al fine di ritagliarsi spazi, prospettive e diritti che giustamente intende tutelare; dall'altro a quanti intendono strumentalizzare tali iniziative ad altri scopi.
    Ad agire in questo senso sono spesso esponenti di quelle culture risorgimentali che nacquero proprio sul presupposto della distinzione fra Chiesa e Stato, se non addirittura del conflitto fra lo Stato e la Chiesa. Culture che imposero per decenni una sorta di idolatria dello "Stato nazione" (che da noi assume forma diverse da quelle affermatisi altrove) e oggi sentono tutta la "vuotezza" e lo smarrimento di una similfede statalista indifesa e vulnerabile rispetto i problemi indotti dai processi di globalizzazione e dalle minacce espansive dell'islamismo e per questo sembrano rivolgersi alla Chiesa per chiedere aiuto a difendere i valori della civiltà occidentale che vedono fortemente insidiati. Tutto ciò pone dei problemi nuovi anche ai laici cristiani che sinora si sono trovati a lavorare sul terreno, relativamente più semplice, della distinzione dei piani e, dunque, delle diverse responsabilità di Dio e di Cesare.
    Che fare, infatti, come comportarsi, come rispondere oggi se Cesare chiede aiuto a Dio?
    Se la domanda è sincera ed è veramente rivolta a Dio, evidentemente nessuna questione, anzi.
    Diverso il caso se Cesare pretende d'"inglobare Dio" per farsi più forte. È certo che Dio, in ogni caso, non si lascerebbe "assoldare". E, per altro, è necessario che i laici cristiani siano vigilanti e capaci di discernimento e lungimiranza per evitare che simili tentazioni di Cesare si materializzino.
    Ma, evidentemente, i "laici cristiani" (uso questa espressione che Nino Andreatta utilizza per contrapporla alla categoria degli "atei devoti") non possono accontentarsi di giocare un ruolo di difesa, sia pure di principi sacrosanti, scritti nel Vangelo, nel Magistero e, da ultimo, nelle costituzioni consiliari del Vaticano II. Debbono, anzi, sentire sino in fondo, la sfida dei tempi nuovi, ricchi di interrogativi e poveri di risposte. La sfida di una modernità che cerca radici e non le trova.
    Habermas, uno dei filosofi laici più autorevoli, dice che "sarà la religione a civilizzare la modernità".
    Una modernità che nelle sue conseguenze estreme, positive e negative, veniva colta con lucidità già nella riflessione di Aldo Moro. Egli metteva infatti in evidenza il rischio che la chiusura delle società moderne attorno ai miti del successo, dei soldi, dell'egoismo e dell'edonismo, la chiusura dell'uomo attorno a se stesso, questa ipertrofia del privato, finisse per determinare anche uno svuotamento del senso pubblico e quindi del senso della solidarietà e, in ultima analisi, della politica. Per Moro il ruolo della politica consisteva proprio in questo: non un'organizzazione neutra e agnostica ma un'organizzazione della vita e della comunità ispirata da valori definiti da una certa visione dell'uomo. L'ultimo Moro riteneva che bisognasse riscoprire i valori "primitivi" dell'esperienza democratica italiana e "ristoricizzarli". In un discorso al Consiglio nazionale della Dc nel 1974 affermava che il risultato del referendum sul divorzio, sorprendente per la misura, rappresentava un momento rivelatore di un cambiamento già intervenuto nel paese, nel costume e nel codice etico della maggioranza degli italiani, che avrebbe comportato per il partito dei cattolici l'esigenza di ripensarsi. Lo statista democristiano in quella fase propose la riscoperta del valore della mediazione culturale che aveva unificato il paese proprio nel testo della Carta costituzionale ed esorterà i cattolici a non aver paura dello Stato, a non considerare lo Stato come un nemico, ad apprezzarne altresì gli strumenti non per impossessarsene e imporre agli altri le proprie convinzioni, ma per utilizzarli al fine di creare quelle condizioni di convivenza rispettose delle opinioni di tutti e, nello stesso tempo, capaci di orientare i principi di ciascuno verso obiettivi di "bene comune". Anche oggi questo è richiesto ai credenti: non diffidare dello Stato e della politica, ma al contrario, sentire la propria responsabilità verso l'impegno politico, cioè l'impegno a lavorare per la città terrena, preludio ineludibile di quella celeste.

    Un discorso rivolto a tutti

    In questo spirito voglio "leggere" fedelmente il recente discorso del Papa ai parlamentari europei del PPE, per dimostrare come sia possibile, quando si abbandonino gli occhiali del pregiudizio, cogliere il senso vero e utile delle parole che si ascoltano. Sono parole pronunciate in un'occasione che ha suscitato varie controversie, poiché la visita dei parlamentari europei è avvenuta in occasione di un congresso del PPE svoltosi a Roma durante l'ultima campagna elettorale al fine evidente di aiutare Berlusconi. Ebbene, nonostante queste condizioni, a me è parso che Benedetto XVI abbia saputo pronunciare parole di magistero particolarmente illuminanti per gli uomini politici di ogni schieramento, non soltanto per quelli credenti. «Attualmente l'Europa si trova ad affrontare complesse questioni di massima importanza, quali la crescita e lo sviluppo dell'integrazione europea, la definizione sempre più precisa di politica di vicinato all'interno dell'Unione e il dibattito sul suo modello sociale. Al fine di raggiungere tali obiettivi sarà importante trarre ispirazione, con fedeltà creativa, dall'eredità cristiana che ha dato un contributo così speciale a forgiare l'identità di questo continente». Mi pare significativo questo inciso: essere fedeli e inventori della modalità di tradurre sul piano storico questi insegnamenti, con "fedeltà creativa". Il Papa ancora fa riferimento alla tradizione dell'Europa, alla sua "unità polifonica", a conferma che nelle sue intenzioni c'è rispetto e apertura per tutte le posizioni. Egli parla della ricchezza dell'Europa e delle sue basi cristiane, ma affronta anche l'originalità data dall'unità polifonica che convoglia valori fondamentali per il bene della società. In questo modo anche le posizioni diverse da quelle cristiane devono concorrere in un contesto di "polifonia" e per questo, aggiunge il Papa, «bisogna riconoscere che una certa intransigenza laica si mostra nemica della tolleranza e di una sana visione laica dello Stato e della società».
    «Quando la Chiesa [...] – continua il Pontefice – [interviene] nel dibattito pubblico esprimendo riserve o richiamando vari principi ciò non costituisce una forma di intolleranza o un'interferenza perché tali interventi sono diretti solo a illuminare le coscienze mettendole in grado di agire liberamente e responsabilmente». Vorrei sottolineare la forza e la determinazione dell'inciso "solo"
    Il Papa parla dei principi fondamentali che per la Chiesa "non sono negoziabili": i principi non sono negoziabili, senza escludere che lo possano essere evidentemente, le posizioni politiche che nascono da quei valori.
    Termina il discorso esortando i politici credenti ad essere fedeli a questi principi e «a vivere vite autentiche e coerenti». Di nuovo esce l'esortazione alla coerenza dei comportamenti personali dei politici credenti. È infatti evidente che egli si rivolge in primo luogo ai credenti, nelle cui mani pone il suo messaggio.

    Ai cristiani oggi viene posta la domanda di pensieri nuovi

    C'è insomma, nelle parole del Pontefice, la consapevolezza che ai cristiani oggi vengono poste domande nuove che evocano pensieri nuovi. Non basta indicare le radici, l'albero, occorre mostrare i frutti: «dal frutto infatti si conosce l'albero» (Mt. 12, 33). Nino Andreatta diceva: «il fondamentalismo religioso tende a chiudersi nelle identità presenti. Quando manca lo Spirito Santo, allora non rimane che cercare il senso dell'identità nelle esperienze primarie della nazione o della religione, ma quando lo Spirito alita allora nella storia si cerca di costruire ordini che corrispondono alle dimensioni nuove dei problemi».
    Costruire ordini nuovi, che corrispondano alla nuove dimensioni dei problemi, significa avvertire la sfida di stare dentro la storia con l'ambizione di orientarla. Di maneggiarla per orientarla. Se ci è chiesto di «trattare le cose temporali per ordinarle secondo Dio» (Costituzione Conciliare, L.G, 31), allora bisogna stare dentro al nostro tempo fino in fondo e se i tempi sono cambiati, anche i modi di starci dentro dovranno essere nuovi.
    Affermava con la sua solita lucidità don Giuseppe Dossetti, parlando a Pordenone nel '94, che: «i nostri valori devono essere difesi in nome di due cose: di una visione organica, vitale e creativa del cristianesimo di sempre e, in secondo luogo, in nome anche di una nuova cultura, veramente adeguata alle scienze umane contemporanee; non perché questa nuova cultura le debba assumere nel loro contenuto materiale, ma perché deve essa rinnovarsi nel pensiero inquadrante. Come ha fatto, per esempio, San Tommaso d'Aquino: al risveglio del pensiero aristotelico in Occidente, lo ha inquadrato in un sistema organico, a quell'epoca pienamente adeguato. Una cultura creativa: il cristianesimo forte – non debole – di sempre e una cultura cristiana, animata cristianamente, adeguata alla realtà del progresso delle scienza umane. Altrimenti apparirà non solo una battaglia retriva e di retroguardia, ma apparirà inevitabilmente un'imposizione dal di fuori, costrittiva della libertà umana, il che è proprio il contrario del vero cristianesimo, pensato come azione non nostra, ma di Cristo presente nella storia e nella libertà dello Spirito Santo».
    pia coesione sociale e luogo eletto per la educazione alla responsabilità; il valore del limite; la logica della giustizia e del perdono contro quella della forza e della violenza nelle relazioni interne e internazionali. Sono principi solidi come pietre antiche depositate sul terreno su cui gli uomini pellegrini di questo tempo possono poggiare i piedi nel loro cammino verso il futuro. E attorno ai quali i credenti impegnati in politica possono costruire il senso ancora oggi della loro "differenza" e nondimeno della loro utilità alla storia del paese.

    Le pietre su cui camminare

    Sotto questo profilo la secolarizzazione di questo tempo e proprio la scristianizzazione in atto possono rappresentare uno stimolo provvidenziale per reagire. Trovo estremamente positivo che la Chiesa non reagisca come hanno fatto altre religioni alla sfida della secolarizzazione (pensiamo al caso estremo dell'islamismo) e che la Chiesa italiana in particolare non assecondi la tendenza a relativizzare l'essenza del messaggio cristiano (pensiamo a quanto avviene negli Stati Uniti dove la ideologia "teocon" sta dilagando ben oltre i confini della strumentalizzazione della politica) e ancora meno i processi sempre più consistenti in altre parti del mondo che vengono descritti come il fenomeno della "religionizzazione della politica" (Zygmunt Bauman), cercando invece per individuare nuove modalità di essere utile all'uomo contemporaneo. In questo senso la cultura laicista dovrebbe apprezzare il valore di alcuni principi su cui il magistero della Chiesa insiste con indomita convinzione, per ciò che rappresentano in sé, per lo spirito con cui vengono enunciati, oltrechè per le eco rassicuranti che provocano nel cuore di molti uomini: il primato della vita sul crescente potere della scienza; il valore della famiglia come elemento costitutivo di una più am-

    (da: Come esserci. I credenti nella nuova fase della politica secolarizzata, Rubbettino 2006, pp. 43-57)


    T e r z a
    p a g i n A


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