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    Comunicare ed educare

    in un habitat digitale

    Fabio Pasqualetti

    habitat digitale
    Ciò che colpisce della tecnologia digitale[1] è la rapidità con la quale essa si rinnova e pervade ogni aspetto della vita quotidiana. Non c’è ambito del conoscere e dell’agire umano nei quali il computer, nelle sue svariate forme e nelle sue applicazioni, non stia ridefinendo il rapporto con le cose, con l’ambiente e con le persone. In altre parole la cultura digitale sta generando una nuova narrazione antropologica, ove per narrazione è da intendersi la proposta di una serie di concetti, simboli e immagini capaci di tracciare una nuova visione dell’uomo e del mondo.
    A livello visivo e tattile la cultura digitale si presenta come esperienza dell’interazione, mediata dalle svariate interfaccia uomo-computer, con le meraviglie della tecnologia informatica che ci consente di controllare macchine e attrezzature e ci abilita all’accesso alla rete.
    Computer desktop, tablet, mini tablet, phablet[2], smartphone, google glass, lim, ecc. sono alcuni degli strumenti digitali con i quali siamo in costante connessione con la rete. La rete stessa è una delle metafore più usate per indicare un spazio dinamico in continua evoluzione, aperto all’innovazione, dove ogni giorno fluiscono milioni di notizie, si fanno affari, si incontrano persone, si lavora, si fanno scoperte di ogni genere, si gestisce la politica, si cerca e si trova di tutto e di più. Non essere in rete equivale a essere, paradossalmente, fuori dal mondo, fuori dal gioco. Tutte le istituzioni, nessuna esclusa, hanno dovuto prendere atto che, oggi, buona parte dell’“esserci” – dell’esistere – è un “esserci online”.
    Se poi analizziamo la cultura digitale anche nella sua struttura “nascosta” constatiamo come essa tenda a trasformare l’uomo in un profilo di dati, le relazioni in contatti, la memoria in cloud (nuvola) dove sono depositati i nostri file personali, la comunicazione in flusso di informazioni, la vita in un continuo presente online. Il nostro agire e interagire con le macchine finisce per avere delle ricadute anche sulla nostra vita sociale. Se non stiamo attenti, quando incontriamo le persone rischiamo di trattare anch’esse come macchine: clicchiamo e ci aspettiamo da loro risposte immediate, come ci hanno abituato le app e i motori di ricerca; oppure si lasciamo prendere dalla sindrome da F5, il tasto funzione con cui facciamo il refresh per vedere se ci sono nuovi messaggi o aggiornamenti: se non riceviamo una risposta istantanea va in crisi il nostro circuito nervoso e non sappiamo come procedere.[3]
    La cultura digitale nasce dall’innesto delle tecnologie digitali della comunicazione nelle pratiche della vita quotidiana, sovrapponendo il modello di rete informatica a quello della rete sociale. Essa ridefinisce così i nostri rapporti e il modo in cui li gestiamo ed allo stesso tempo ci cambia, come persone e come società.
    Riflettere sul rapporto tra educazione e tecnologie, quindi, non può essere ridotto meramente al problema dell’innovazione tecnologica della società, tanto meno ad una semplice strategia di alfabetizzazione alle “nuove” tecnologie per coloro che non sono nativi digitali. La sfida è più radicale. Si deve riflettere su che cosa comporti a livello antropologico questa interazione, così da divenire consapevoli che si sta imponendo una nuova cultura; dobbiamo chiederci se essa ci aiuta a crescere come persone o se è in atto un impercettibile processo di subordinazione della nostra umanità alle funzioni e alle logiche delle macchine.
    Per definire un quadro interpretativo valido, è utile ripercorrere, anche se brevemente, la storia della comunicazione occidentale soffermandoci sugli effetti collaterali che i linguaggi e le tecniche di comunicazione hanno operato sulla costruzione del pensiero occidentale e su come questi effetti, di fatto, abbiano contribuito a plasmare la cosmovisione[4] occidentale.

    Dalla scrittura al digitale: tecnologie di modellamento della cultura occidentale

    Mi capita spesso, all’inizio del corso di Introduzione alle Scienze della Comunicazione che tengo presso la mia facoltà[5], di rivolgermi agli studenti chiedendo di dirmi a cosa pensano quando sentono la parola tecnologia. Nelle loro risposte essi fanno riferimento a prodotti tecnologici come cellulare, tablet, computer o, più in generale, alla stampa, alla radio, al cinema, alla televisione, al mondo scientifico… È plausibile che siano tutte riposte che gravitano nello stesso campo, dal momento che frequentano una facoltà di scienze della comunicazione. Restano però sorpresi quando faccio loro notare che anche il linguaggio che stanno usando per rispondermi è una tecnologia, prodotta dell’esperienza di un popolo che ha iniziato ad organizzare la propria vita e la conoscenza del mondo attraverso un codice linguistico. Un po’ come i pesci che non sanno cos’è l’acqua finché sono immersi in essa, così per noi umani è così scontato usare una lingua per comunicare che non ci accorgiamo che questa è un sofisticato strumento di espressione, interpretazione e comprensione del mondo e di noi stessi. Pietro Barcellona - nel suo Parolepotere - afferma:

    I nomi, le parole e il linguaggio conferiscono sostanza ed esistenza a fatti, persone, eventi che altrimenti resterebbero in un anonimato insensato; costruiscono l’abitabilità del mondo esterno definendo le relazioni reciproche tra le varie componenti e, implicitamente, l’interesse che essere rivestono per l’esistenza umana. L’insorgenza delle parole in una comunità di linguaggio è sempre un atto di creazione, che non può essere né totalmente arbitrario, né totalmente convenzionale, né tanto meno naturale.[6]

    Senza il linguaggio non esisterebbe il mondo così come lo conosciamo. Barcellona, riflettendo sulla dimensione simbolica delle parola, sostiene che essa “istituisce lo scarto fra la rappresentazione e la cosa e, nello spazio di questa originaria non coincidenza del parlante con l’«oggetto», inaugura l’avventura del rapporto tra linguaggio e natura.”[7]
    È un’avventura lunga e complessa, esplorata dalla storia della comunicazione umana. Qui la ripercorreremo a tappe forzate, scegliendo alcuni momenti significativi per far emergere come la comunicazione umana non solo ci definisca nel nostro essere, ma diventi di volta in volta un modo di vedere, comprendere e manipolare il mondo.
    Cosa è successo, per esempio, quando l’umanità è passata da secoli di esperienza del linguaggio parlato alla scrittura? Verso il 3500 a.C. iniziarono i primi tentativi di creazione di uno strumento di scrittura, servendosi dapprima di tracce ideografiche, che rappresentavano quanto si intendeva comunicare (sumeri, egiziani, cinesi…), aggiungendo poi segni più complessi, a valore grammaticale e sintattico. La scrittura alfabetica (compare solo attorno al 1500 a C., a Ugarit, una città fenicia posta sulla costa siriana) cambia strategia perché conserva traccia del suono di una comunicazione, senza rinviare direttamente a oggetti o a idee. Le ragioni che portarono a questa invenzione, diffondendola poi rapidamente, furono di carattere funzionale, pragmatico: in un contesto multilingue, un popolo come quello fenicio ha saputo mettere a punto uno strumento su misura per gestire le sue attività commerciali. Furono poi i greci ad aggiungere le vocali all’inizio dell’VIII secolo (prima l’alfabeto era solo consonantico) ed in questo modo l’alfabeto fonetico divenne davvero capace di “registrare” il suono delle parole, consentendo così alla lingua e alla cultura greca uno sviluppo del tutto particolare.
    Il passaggio dall’oralità alla scrittura ha comportato un’operazione di elevata astrazione che avrà delle conseguenze notevoli sulla cultura occidentale, fino ai nostri giorni. Come annota Scott Eastham:

    Un insieme organico – l’unione di colui che parla, colui al quale si parla (l’ascoltatore), ciò di cui si parla (il contenuto) e ciò attraverso cui si parla (il suono) – viene spezzato per produrre un nuovo mezzo il testo scritto, a partire dal quale è possibile riprodurre la parola (o meglio un simulacro della parola reale). Questa «tecnica» ha indotto Walter Ong a vedere nella scrittura fonetica la tecnologia fondatrice dell’Occidente: essa incarna infatti per la prima volta la strategia di base impiegata in ogni altra tecnologia: un «tutto» dotato di significato viene frantumato in «unità» prive di significato, che poi vengono assemblate di nuovo in schemi prescelti. Dobbiamo tenere presente questa sequenza per tutti gli ulteriori sviluppi che deriveranno dalla scrittura fonetica: dapprima analisi, poi sintesi… un nuovo manufatto prodotto artificialmente. [8]

    Con la scrittura l’intera esperienza umana può essere “trasferita” – narrata, immaginata - in un testo, continuamente rielaborabile e perfettibile. Nasce la coscienza storica grazie al fatto che il passato è conservato in forma scritta, non è semplicemente ripetuto: si esce quindi da una concezione ciclica della storia e ci si apre all’idea di futuro, un futuro immaginabile e pianificabile. La scrittura inaugura anche il primo sistema di controllo della popolazione con il censimento e la riscossione delle tasse. Crea una nuova casta: coloro che sanno scrivere (scribi e sacerdoti) sostituiscono progressivamente la competenza degli anziani, degli stregoni e degli sciamani. Si strutturano anche le istituzioni fondamentali della società stabilendo un nuovo ordine gerarchico: nel tempio, nella fortezza e nel granaio di allora possiamo vedere all’opera gli stessi criteri che hanno poi dato vita ad istituzioni come la Chiesa, lo Stato, il Tesoro.[9]
    Nel passare dall’oralità alla scrittura alfabetica l’umanità ha adottato una nuova metodologia della conoscenza, basata su un doppio passaggio: dalla scomposizione della realtà percepita alla sua ricomposizione in singoli elementi astratti. La realtà non viene più colta come “dono” e “dato esperienziale”, ma la si scompone in parti soffermandosi sul dettaglio da analizzare, interpretare e ricomporre. In questo modo si cerca di averne il controllo, con il rischio di perdere di vista l’insieme dell’evento.
    Cosa succede quando alla scrittura, una tecnica per molti secoli praticata tutto sommato da poche persone, si affianca una tecnologia come la stampa? Al tempo degli amanuensi l’opera scritta godeva di una sua unità e unicità: solo le opere importanti potevano esistere in più copie, ciascuna delle quali era comunque “unica” perché fatta a mano (occorrevano molti mesi, se non anni!) e quindi irripetibile. Con l’invenzione dei caratteri mobili di Gutenberg (attorno al 1450), il testo viene spezzato in singole lettere standardizzate, intercambiabili e riutilizzabili secondo le esigenze della nuova pagina. Se l’effetto immediato è la riproduzione di uno stesso libro in molte copie, tutte identiche tra loro, in tempi notevolmente più brevi e a costi decisamente inferiori rispetto alla produzione degli amanuensi, ad una osservazione attenta si manifestano altri effetti per così dire collaterali, che determinano conseguenze altrettanto significative. Il lavoro si divide in fasi e ruoli diversi, secondo un preciso processo produttivo: editore, autore, redattore, compositore, tipografo, distributore e lettore, ponendo così le basi per un concezione del lavoro basata sulle specializzazioni; cambia inoltre tutta l’organizzazione finanziaria: prima si produceva e si finanziava una copia per volta, ora l’editore deve disporre subito dell’intero capitale necessario (operai, carta, inchiostro, magazzino), che potrà recuperare solo a lavoro finito, con la vendita delle opere prodotte[10]. Come si vede, si muovono i primi passi sulla strada che porterà alla produzione industriale. Accanto all’editore cresce poi il ruolo l’autore, con i diritti sulla sua opera (il copyright), si diffondono le lingue locali e si rinforzano i nazionalismi. Il libro diventa la prima tecnologia per acquisire il sapere. Leggere, scrivere e far di calcolo diventano la base del modello di educazione scolastica che dura fino ad oggi.[11]
    L’accesso diretto ai testi risulta ora assai facilitato e ciò prepara una rivoluzione sul piano personale e istituzionale. Le idee viaggiano più rapidamente e si diffondono su più ampi strati di popolazione, a tal punto che l’autorità religiosa e politica vedono ridimensionato il loro potere di controllo. Conferma quanto mai evidente di tutto questo è la stessa Riforma Protestante, che ha trovò nella stampa uno strumento capace di amplificare in modo straordinario la sua azione. Lutero capì l’importanza rivoluzionaria della traduzione in tedesco della Bibbia e ne moltiplicò le edizioni; inoltre seppe sfruttare l’efficacia di pamphlet e fogli volanti per diffondere le sue tesi (oltre 300.000 copie nell’arco della sua vita).[12]
    Lo stesso libro, con la sua struttura, diventa un metodo di organizzazione del sapere. Con il suo indice permette di organizzare dati contenuti in esso. Il foglio di prova, utile ad individuare gli errori di stampa, diventa l’analogo della verifica dell’osservazione nel metodo scientifico che pone le sue basi sulla ripetibilità dell’esperimento.
    Ma forse la cosa più importante è che in questo periodo lo stesso concetto di verità si modifica e si adatta alle nuove metodologie della conoscenza scientifica. Come sostiene Eastham:

    Per le culture orali del passato, l’esperienza personale era la pietra di paragone della verità. Per la cultura alfabetica, dall’età classica fino al medioevo, il luogo della verità, non era più l’esperienza ma la sua espressione scritta, che deve obbedire alle leggi astratte della logica (A ¹ B) e deve uscire indenne dai rigori dell’argomentazione dialettica per essere considerata vera. Per la nascente mentalità scientifica, invece, ciò che conta è l’esperimento, che nel nuovo edificio della conoscenza «oggettiva» diventa la pietra angolare della prova vera e attendibile. […] Il criterio della verità raggiunta tramite l’esperimento è la riproducibilità di quest’ultimo (da parte di altri che hanno letto i risultati pubblicati ecc.).[13]

    Nel secolo XVIII si diffonde in Europa il movimento Illuminista che pone la sua “fede” nella ragione e nel metodo scientifico. Sotto la sua influenza la natura viene percepita come una grande macchina che cela i suoi meccanismi e le sue regole, ma che l’uomo può comprendere e controllare grazie alla capacità di osservazione e all’adozione di un metodo efficace di indagine. Riproducibilità su larga scala e metodo di controllo sono le basi dello sviluppo della società moderna.
    Senza voler cedere a determinismi di carattere tecnologico, possiamo dire che la stampa conteneva in sé, sin dall’inizio, il prototipo del processo industriale della produzione in serie.
    Prima di riflettere sui media elettronici e quelli digitali, è interessante notare che tra il secolo XIX e XX avviene un’altra rivoluzione che mette in discussione tutte le conquiste della scienza raggiunte fino ad allora. Tra la formulazione della teoria dell’elettromagnetismo di Clerk Maxwell, resa pubblica nel 1873, e la teoria della relatività di Einstein, pubblicata nel 1906, passano poco più di trenta tre anni.[14] In meno di mezzo secolo si passa da un mondo quasi statico regolato dalle leggi di Newton ad un universo pieno di energia e in continua trasformazione. Le teorie quantiche e le logiche dei nuovi mezzi di comunicazione mal si adattano al carattere sequenziale, logico, strutturato della stampa. Se è vero che in generale tutti i settori della società hanno beneficiato delle nuove tecnologie della comunicazione è anche vero che i problemi non tardano ad emergere. Bisogna riconoscere che coloro che avevano capito sin dall’inizio questa nuova rivoluzione sono state le avanguardia artistiche del primo novecento nei vari campi delle arti visive (impressionismo, dadaismo, futurismo, cubismo), musicali (dodecafonia, musica seriate, atonale, elettronica), della danza (moderna, jazz, tribale) e dell’architettura (Art Nouveau, Bauhaus) destabilizzano l’idea di vero, di bello, di buono, di armonico e fornendo nuovi punti di vista della realtà fino ad allora sconosciuti.
    Il mondo della comunicazione nel XX secolo progredisce molto velocemente e due contributi, molto interessanti e per molti aspetti fondamentali, ci possono aiutare a comprendere la logica su cui si è basata la comunicazione dal XX secolo fino ad oggi. Il primo è la proposta del modello matematico sviluppato nell’opera The Mathematical theory of communication[15] da Claude Shannon e da Warren Weaver e pubblicato nel 1949. Senza entrare in tutta la problematica del testo e delle conseguenze che ha avuto, ci limitiamo a ricordare, accogliendo le osservazioni di F. Lever, che il contributo di Shannon era già stato pubblicato l’anno precedente con un titolo meno pretenzioso (A mathematical theory invece di The mathematical theory) e si presentava come “uno studio di settore, unicamente mirato a ottimizzare la trasmissione di segnali elettromagnetici in un circuito”[16]. Nel volume del 1949, patrocinato dalla Rockefeller Foundation, è W. Weaver che presenta la proposta di Shannon come “la teoria generale di ogni forma di comunicazione. Questa estensione del modello alla comunicazione in generale, dopo un periodo di generale entusiasmo, ha di fatto impoverito la comprensione dell’atto comunicativo come fosse equiparabile al processo lineare che avviene in uno schema elettromagnetico di trasmissione dati. Ancora oggi tuttavia esercita questo fascino proprio per la sua semplicità e sinteticità esplicativa.
    La seconda è l’opera di Norbert Wiener The human use of human beings. Cybernetics and society (1950). La tesi di questo libro esprime un concetto molto importante per comprendere la comunicazione contemporanea.
    Nel dare la definizione di Cibernetica nel libro originale, ho classificato la comunicazione e il controllo insieme. Perché ho fatto questo? Quando comunico con un’altra persona, gli impartisco (faccio arrivare) un messaggio, e quando egli mi risponde lo fa con un messaggio che contiene una informazione che è primariamente accessibile a lui e non a me. Quando io controllo le azioni di un’altra persona, io gli comunico un messaggio, e nonostante questo messaggio sia dato con un tono imperativo, la tecnica di comunicazione non differisce da quella della comunicazione di messaggi o dei fatti. Per di più, se il mio controllo deve essere effettivo devo avere coscienza di qualsiasi messaggio che mi arriva da lui, il quale potrebbe indicare che l’ordine è stato capito ed è stato eseguito.
    La tesi di questo libro consiste nel sostenere che la società può essere capita attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di comunicazione che le appartengono, e che nel futuro lo sviluppo di questi messaggi e dei mezzi di comunicazione, messaggi tra uomo e macchine, tra macchine e uomo, e tra macchine e macchine, è destinato a svolgere una ruolo ancora più grande.[17]
    Per Wiener il rapporto di comunicazione, indipendentemente dal fatto che si realizzi tra uomo e macchina o tra uomo e uomo, è un rapporto di elaborazione di informazione e di controllo. L’aspetto tuttavia più interessante – la tesi stessa del libro – è che la società può essere compresa solo attraverso lo studio dei messaggi e dei suoi mezzi di comunicazione. Questo implicitamente dice che è nel linguaggio e nei nostri modi di comunicazione che risiede l’identità della nostra umanità. Non meno interessante la previsione del futuro della società proprio all’insegna di questo aumento di relazione e scambio tra uomo e macchine.
    Non sono imputabili agli autori di queste due opere quanto è successo negli anni successivi, come rileva Scott Eastham:

    Il modello Shannon/Weaver e la cibernetica di Norbert Wiener […] ci hanno portati a costruire intorno a noi una società sotto il dominio di «sistemi» integrati e automatizzati di controllo, che regolano non solo i propri comportamenti, ma anche la maggior parte delle attività umane. […] Quale immagine di essere umano emerge oggi da questa «estensione dell’Uomo» ai mezzi di comunicazione elettronici? In un’epoca recente come il Rinascimento, l’essere umano era considerato un «microcosmo», un piccolo universo che riflette fedelmente ogni aspetto e ogni dimensione del cosmo vivente in generale. Oggi invece dobbiamo considerare la nostra società dell’informazione una Macranthropos, un gigantesco e autonomo fac-simile umano che ha assunto una vita propria apparentemente dotata di intenzionalità, ben al di là del controllo dei suoi sedicenti controllori. Chi avrebbe sospettato che l’idea di automazione avrebbe finito per automatizzare tutta la cultura che l’aveva concepita?[18]

    Questo aspetto di automatizzazione o computerizzazione sociale è ancora più vivido oggi dopo la “rivoluzione digitale”. Se la scrittura è stato un processo di alta astrazione che scomponeva la parola in singole lettere e assegnava loro dei segni ricomponibili per qualsiasi parola della lingua, il codice binario scompone qualsiasi segnale in sequenze di 1 / 0 = (on/off). Dagli anni ’90 ad oggi la digitalizzazione ha assorbito tutti i linguaggi della comunicazione a tal punto che il computer è stato definito come un “vorace monomedium che inghiotte tutti gli altri mezzi di comunicazione, la maggior parte delle arti e anche molte forme di artigianato manuale, riducendo tutto ciò a una semplice pressione di pulsanti.”[19]
    A questa facoltà onnivora del computer si deve aggiungere quella “mimetica”. Non c’è strumento che esca sul mercato che non abbia un chip incorporato con la possibilità di programmarlo e controllarlo a distanza. Abitazioni, veicoli, meccanismi di ogni genere si stanno velocemente computerizzando e robotizzando, preludendo ad una società in cui le macchine svolgeranno sempre di più compiti che oggi sono svolti dagli umani. Tutto questo grazie anche al “sistema nervoso” che invisibilmente si è innestato sulle nostre società e che coordina tutti questi strumenti: la rete, fisica o wi-fi. E siamo solo all’inizio.
    Sulla rete e la sua influenza sulla vita sociale sono stati scritti molti libri; quello che emerge oggi con sempre maggior evidenza è la necessità di una consapevolezza meno ingenua di quanto sta avvenendo. Al di là di tutte le riflessioni importanti e utili che riguardano l’espressione, la partecipazione, le nuove forme di democrazia dal basso, le comunità di impegno sociale, la solidarietà, la forme di prossimità digitale, ecc, si deve prendere atto che oggi il potere è in mano di chi controlla l’insieme dei dati che circolano nella rete. Chi controlla e gestisce i big data[20], controlla e gestisce il futuro. Solo per avere un’idea di cosa si intende per big data basti pensare che:

    Nel terzo secolo avanti Cristo si riteneva che la biblioteca di Alessandria contenesse la summa della conoscenza umana. Oggi nel mondo esiste una tale quantità di informazioni che ogni essere umano ne ha 320 volte di più di quelle contenute ad Alessandria… circa 1.200 exa byte[21]. Se tutte queste informazioni fossero trasferite su cd e se i cd fossero messi uno sull’altro, formerebbero cinque pile che arrivano fino alla luna.[22]

    Questo fatto è possibile grazie alla potenza di calcolo delle ultime generazioni di computer. Ma il fenomeno dei big data porta con sé delle implicazioni importanti.
    Per usare grandi quantità di informazioni in questo modo è necessario introdurre tre cambiamenti essenziali nel nostro modo di trattare i dati. Il primo consiste nel raccoglierne e usarne moltissimi invece di analizzare solo dei campioni. Il secondo consiste nel rinunciare alla precisione e accettare il disordine: in un numero sempre maggiore di situazioni è tollerabile un po’ di imprecisione. Il terzo è che in molti casi dovremo rinunciare a capire le cause dei fenomeni e accontentarci di stabilire alcune correlazioni. […] Le grandi raccolte di dati servono a scoprire cosa succede, non perché succede. Ma in molti casi questo è più che sufficiente. Mentre internet ha cambiato profondamente il modo di comunicare degli esseri umani, i big data hanno cambiato il modo in cui la società elabora le informazioni. E in futuro, probabilmente, cambieranno anche il nostro modo di vedere il mondo.[23]
    È indubbio che per studiare fenomeni complessi il disporre di un numero elevatissimo di dati costituisce un enorme vantaggio; ma altrettanto vero è che non è il numero dei dati come tale che garantisce la validità del risultato. Ci sono infatti almeno due aspetti da ricordare. Il primo è che la mappa non è il territorio: la realtà è sempre più complessa di ogni sua analisi e descrizione per quanto sia stata fatta su larga scala e sia articolata e approfondita. Il secondo aspetto, non meno importante, è il rischio di focalizzare ancora di più l’interesse sul singolo dettaglio, perdendo di vista l’oggetto stesso della ricerca: se questa è l’uomo, vuol dire che la posta in gioco è molto alta. Ad esempio, il progetto Genoma Umano consiste nella catalogazione di più tre miliardi di dati, una quantità stupefacente; tuttavia, la disponibilità di questi dati non elimina il timore che la vita sia ridotta ad un tot di informazione, per quanto accurato sia, e ad un codice, ipoteticamente modificabile come si vuole. Mentre si studia o si modifica una sequenza di bit è facile scordare che appartengono alla VITA, correndo così il rischio di violare i valori di sacralità e di individualità.[24]
    Jeremy Rifkin nel 1998 pubblicava un’opera molto interessante dal tiolo Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era. Verso la fine del testo, a commento del parere di matematici, fisici e biologi sull’evoluzione degli organismi viventi, affermava:

    Ci stanno raccontando nuovamente la Creazione. Solo che questa volta ci viene data un’immagine della natura tramite il computer e usando il linguaggio della fisica, della chimica, della matematica e delle scienze dell’informazione. Con gli organismi viventi, esattamente come con i computer, il potere dell’informazione e i limiti di tempo diventano le considerazioni principali. Ogni successiva generazione della crescente catena dell’evoluzione, proprio come ogni nuova generazione di computer, è più complessa e più abile nell’elaborare crescenti quantità di informazioni in periodi di tempo più brevi. […] Il successo, dunque, viene sempre più misurato dall’abilità di gestire informazioni, che richiede dalle reti ancora più complesse.[25]

    La denuncia dell’autore non riguarda il fatto che una società sempre più complessa elabori quantità di dati sempre più enormi, quanto piuttosto che la realtà stessa, inclusa la vita, siano ridotte a semplici sequenze di dati. Coloro che sono nati in questo contesto di alta tecnologia della computazione e utilizzano il computer per organizzare la loro vita, non hanno difficoltà a ridurre la realtà a pacchetti di informazione da gestire e organizzare. Questo però è un grave limite, perché una sequenza di bit esprime sempre e solo una misura, e la misura non è mai la realtà stessa; al più una sua caratteristica. La comunicazione umana ha una dimensione di interiorità, spesso ignorata nello studio sulla comunicazione, che non può essere ridotta ad una semplice sequenza di 0/1 o ad una reazione chimica del cervello. C’è qualcosa di più di un dato da elaborare. E se questo “qualcosa” lo indichiamo con le parole “un mistero da accogliere e da comprendere nei limiti della nostre capacità” non è per una rinunciare a capire, ma per garantirci di non banalizzarlo.
    Il percorso fatto fin qui consente solo una prima approssimazione dei problemi e sollecita ulteriori approfondimenti. Credo però che sia emerso con chiarezza che le tecnologie della comunicazione – siano esse analogiche o digitali – agiscono a livello personale e sociale, offrendo modalità di conoscenza del mondo e di noi stessi che hanno delle conseguenze sulla stessa percezione della nostra umanità.
    Educare e comunicare in un habitat digitale è quindi una sfida non risolvibile semplicemente con un’alfabetizzazione all’uso delle tecnologie digitali o ad un loro uso “responsabile”. È necessario fare un ulteriore passo e andare in profondità. Le tecnologie della comunicazione non agiscono da sole e nemmeno in un vuoto sociale e politico, anzi sono spesso strumenti di potere e di controllo a servizio di vari interessi. Nelle pagine che seguono rifletteremo su una società che, affascinata dalle tecnologie digitali, ha puntato avidamente sul profitto economico perdendo così di vista l’uomo.

    Uno sviluppo sostanzialmente economico e tecnologico che ha perso di vista l’uomo

    Dopo la seconda guerra mondiale gli USA erano la super potenza che si erigeva a guardiano della libertà e del progresso. L’Europa si avviava alla ricostruzione e gli anni ’50 e ’60 furono contrassegnati da una forte ripresa economica, industriale e sociale. Gli anni ’60 – ’70 sono stati gli anni del disagio sociale, delle contestazioni e delle rivolte. Le istituzioni come la famiglia, la scuola, la Chiesa e lo Stato perdevano inesorabilmente autorevolezza e non erano più punto di riferimento per le nuove generazioni. I mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, aprivano nelle case una finestra sul mondo, sugli avvenimenti, sugli usi e costumi di altre popolazioni e, soprattutto, avviavano un silenzioso programma di educazione al consumo tramite la pubblicità e gli stili di vita rappresentati nei programmi. Gli anni ’80 sono stati definiti come gli anni della reaganomics,[26] della caduta del muro di Berlino, dell’accelerazione dei processi di globalizzazione, della relativizzazione di ogni verità, della postmodernità, della “vita liquida”, dell’iper-consumo e della trasformazione del risparmiatore in investitore. Sono gli anni di MTV,[27] del culto dell’immagine e della trasgressione intesa come strategia per raggiungere il successo. Sono anche gli anni in cui i grandi network televisivi, nazionali e internazionali, si sincronizzano su uno stile di informazione che adotta il format infotainment (informazione + spettacolo). Dagli anni ’80 in poi la politica e i politici non potranno prescindere dalla comunicazione televisiva e dalle strategie di comunicazione. Gli anni ’90 segnano la diffusione del personal computer, della rete e della comunicazione mobile. C’è anche una trasformazione antropologico-culturale in atto, che Zygmunt Bauman sintetizza in questo modo: l’homo sapiens muta culturalmente in homo consumens.[28]
    La ricerca della felicità dell’uomo da una ricerca interiore si è spostata verso un commercio praticabile nei nuovi santuari del consumo: i centri commerciali. Il marketing, da molto tempo, ha capito molto bene che siamo consumatori evoluti, affamati di immagini e narrazioni, la pubblicità non vende più prodotti ma “visioni”, “concetti” e “stili di vita”. L’adolescente o l’adulto che si identificano in una marca ed acquistano quel prodotto piuttosto che un altro, compiendo così una azione di distinzione sociale e mettendo in scena un codice a prescindere dal loro status sociale.
    Questa cultura della felicità a costo accessibile e in tempi brevi si è imposta nella cultura attuale. Per averne una prova basta guardare la pubblicità che tratta di rimedi al dolore fisico (mal di testa, acidità di stomaco, dolori muscolari e quant’altro): la caratteristica vincente dei prodotti presentati è la velocità dell’azione antidolorifica, il dolore sparisce immediatamente, si può continuare a fare quello che si vuole senza preoccupazioni. Dovremmo chiederci, però, che mondo stiamo costruendo e quale futuro avranno le nuove generazioni, se l’orizzonte non è posto oltre la voglia di felicità artificiali.
    Perché il problema della felicità è intrinseco alla stessa esistenza dell’uomo e alla sua ricerca di senso. È proprio a partire dall’esperienza della vita, della morte, della malattia, del dolore, dell’ingiustizia che nascono le grandi domande esistenziali; dalle risposte che riusciamo a dare a queste domande dipende in buona parte la stessa capacità di saperle affrontare nella vita quotidiana. Una cultura che sistematicamente di rifiuta la fatica, la malattia, il dolore e la morte rischia di creare persone estremamente fragili che crolleranno alle prime difficoltà.
    È inevitabile che in questo stato di cose si generi uno smarrimento personale e sociale. Benedetto XVI nell’indire l’Anno della Fede proprio nell’Omelia della messa di apertura dell’11 Febbraio 2012 ha messo in evidenza che:

    In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso.[29]

    Secondo Franco Volpi sono venuti meno i paradigmi che ci permettevano di orientarci nella vita, come sono venuti meno anche i riferimenti delle norme morali.[30]
    Il futuro assume così il volto dell’incertezza. Se da una parte assistiamo ad un progressivo avanzamento della tecnica e della scienza che smantellano miti e credenze, creando scenari futuristici in cui il corpo umano potrà essere smontato e rimontato; dall’altra si avverte una forte perdita di senso che inquieta la vita di molte persone. Pietro Barcellona lapidariamente afferma “La società moderna, che non abita più la storia, non realizza più la libertà, ha sicuramente fatto della tecnica il proprio dio.”[31] Questo vuol dire che stiamo creando una società dove – dal punto di vista tecnologico – tutto forse funziona alla perfezione, ma non riusciamo a dare un perché alla nostra esistenza; dove la globalizzazione spinge alla creazione di istituzioni sempre più “neutrali” e “impersonali”, ma neutralità e impersonalità producono un uomo ridotto alla funzione di semplice esecutore e non più di artefice della storia.[32]
    Anche Miguel Benasayag e Gérard Schmit, nel 2003, avvertivano che era in atto un cambiamento di segno del futuro. La società occidentale è passata da una visione della storia fatta di progresso inevitabile e continuo, capace di portare ricchezza e abbondanza a tutti, alla constatazione che questo progresso è incapace di mantenere le sue promesse: ha allargato il divario tra poveri e ricchi, ha causato ovunque disastri ambientali, ha innescato forme di terrorismo su scala mondiale e, grazie alla globalizzazione, ha instillato l’incubo di possibili pandemie. E così si è generata una “crisi nella crisi”, con un brusco passaggio dal sogno di un umanità onnipotente trasformatrice del creato e della storia, alla constatazione che l’umanità è impotente di fronte a ciò che ha costruito con le sue mani e che ora sta fuggendo al suo controllo. Accanto a questo c’è un altro fattore di preoccupazione che riguarda in modo specifico la scienza. Essa da una parte ha deluso perché incapace di dare risposte alle domande esistenziali; dall’altra, continua a “progredire”, ma in modo autonomo, fuori dal controllo dell’uomo. Come sottolineano Benasayag e Schmit, la novità della nostra epoca è che

    il nostro mondo produce, paradossalmente, la prima grande società dell’ignoranza. Il rapporto che ognuno di noi intrattiene con le tecnoscienze che inondano il nostro quotidiano è infatti un rapporto di esteriorità assoluta. Ogni società del passato ha posseduto tecniche, ma i suoi membri conservavano per lo più con esse un rapporto che potremmo definire di intimità, […] le tecniche non costituivano una combinatoria autonoma, non funzionavano secondo una propria logica indipendentemente da ogni considerazione umana o culturale.[33]

    Il sintomo più evidente in questa “crisi nella crisi” è il venir meno del principio di autorità, principio fondamentale per una equilibrata convivenza umana, così come per ogni processo educativo.
    Poiché quest’ultimo è un tema che ci sta particolarmente a cuore, vale la pena che lo analizziamo con più attenzione. Mentre prima l’adulto era il detentore di un sapere che garantiva a se stesso autorevolezza e ai propri discendenti un punto di riferimento, oggi l’adulto viene azzerato e bypassato grazie alle nuove tecnologie che assicurano alle giovani generazioni l’accesso alla conoscenza in modo diretto. In questo processo, nel rapporto adulto–giovane, si è passati così da una relazione asimmetrica ad una simmetrica ed il rapporto è diventato di tipo contrattuale. Questa deriva porta a situazioni familiari e sociali tra adulti e giovani che oscillano tra atteggiamenti di autoritarismo coercitivo o a tattiche e strategie persuasive sempre più simili alle tecniche di marketing commerciale. Il genitore, l’insegnante, o l’adulto di turno, sono ridotti a “venditori” e i giovani a “clienti” che accettano o rifiutano, in base ai loro gusti, le varie proposte.
    Questa problematica, il rapporto tra nuove generazioni e mondo adulto, viene affrontata da Massimo Recalcati che parla di evaporazione del padre, indicando in questo fatto l’incapacità del nostro tempo di sapere orientare verso l’Ideale, sia a livello personale sia a livello collettivo.[34] In questa evaporazione si evidenzia “l’impossibilità che il padre detenga ancora l’ultima parola sul senso della vita e della morte, sul senso del bene e del male”.[35] Il venir meno della capacità di saper orientare all’Ideale lascia di fatto l’esistenza senza un punto di riferimento; e l’indebolimento dell’azione normativa del Simbolico spinge verso ciò che Lacan chiama “godimento mortale”. Questo processo di regressione allo stato biologico, istintivo, animale avviene perché si infrange la legge che la psicanalisi definisce come legge simbolica della castrazione[36] e che Recalcati ripropone come legge della Parola.

    [Questa legge stabilisce] che essendo l’umano un essere di linguaggio, essendo la sua casa la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso al parola. Stabilisce che è l’evento della parola ad umanizzare la vita e a rendere possibile la potenza del desiderio introducendo nel cuore dell’umano l’esperienza della perdita. Cosa significa? Significa che la vita si umanizza e si differenzia da quella animale attraverso la sua esposizione al linguaggio e all’atto di parola. […] È il linguaggio che agisce come una struttura di separazione imponendo alla vita una perdita di vita come condizione della sua umanizzazione. […] Questa perdita è piuttosto una alleggerimento, un sollievo, un’apertura nuova alla vita. È salvezza della vita perché è solo l’incontro con l’esistenza del limite e della mancanza che può generare il desiderio come potenza generativa distogliendolo dal culto nevrotico del sacrificio e dal fanatismo perverso per il godimento mortale.[37]

    La legge della parola introduce l’esperienza del limite, ed è questo limite che ci fa capire che non possiamo autogenerarci, perché nessuna vita umana “può prescindere dall’Altro del linguaggio”[38]
    In un mondo dove la regola non è più quella della Parola che ci umanizza, ma quella del mercato e del profitto, ci domandiamo: “A cosa serve tutta questa potenza tecnologica comunicativa?”, se poi non riusciamo a costruire una mondo che sia la casa in cui tutti possano trovare sicurezza, riconoscimento, pace.
    Di segni evidenti della ”crisi nella crisi” ce ne sono molti altri. Ne ricordiamo due: la diseguaglianza tra ricchi e poveri e le guerre. Diventa difficile accettare che oggi la situazione di disparità tra ricchi e poveri nel mondo continui a crescere anziché diminuire, come dimostra l’ultimo rapporto Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief), del 2013, nel quale vengono riportati i numeri della disuguaglianza a livello mondiale:

    - Circa metà della ricchezza è detenuta dall’1% della popolazione mondiale.
    - Il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo.
    - Il reddito di 85 super ricchi equivale a quello di metà della popolazione mondiale.
    - 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni.
    - L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012.
    - Negli USA, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito.[39]

    A questa penosa lista va aggiunta quella dei conflitti in corso nel mondo, che secondo il sito Peace Reporter sono attualmente 31 conflitti, distribuiti tra Medio Oriente, Asia, Africa e America Latina.[40]
    Davanti a questi scenari la domanda sull’educazione, il suo significato e il suo senso è urgente.

    Educare: come, perché e a che scopo?

    I dibattiti in corso sull’educazione al tempo della rete, del web 2.0 o del digitale sono tantissimi e tutti mettono in rilievo le grandi potenzialità delle tecnologie digitali, pur comprendendo anche i rischi che si possono celare.
    Seguendo l’altalenarsi delle posizioni – a favore o contro – ci sono i critici come Nicholas Carr, il quale sostiene che l’attività di rete sia una attività all’insegna della superficialità e della distrazione; di conseguenza è l’apprendimento che ne soffre. Il problema è costitutivo della stessa rete, perché all’utente essa non propone dei testi da studiare in profondità ma degli ipertesti, che sollecitano a continui collegamenti tra informazioni diverse anche per il tipo di linguaggio (multimedialità). Per lungo tempo si era ritenuto che questo insieme multimediale avrebbe arricchito la conoscenza e sviluppato un approccio più ampio e completo allo studio. Le ricerche di fatto smentiscono questa ipotesi, dimostrando che l’apprendimento multimediale affatica le facoltà cognitive per il fatto che il cervello è continuamente sollecitato a rapidi cambi di attività, impedendo così la concentrazione e riducendo le comprensione.[41]
    Sulla stessa frequenza d’onda di Carr, Manfred Spitzer che nel suo libro Demenza digitale mette sotto accusa proprio le tecnologie digitali e la rete, perché potenziali strumenti di regressione del nostro cervello e del nostro corpo. A partire da una solida documentazione, basata su ricerche condotte in varie nazioni, e un’amplia bibliografia, Spitzer smantella punto dopo punto tutti i miti che riguardano le nuove tecnologie e giunge a questa categorica affermazione:

    I media digitali riducono l’uso del cervello e, quindi, il rendimento. Nei giovani i media impediscono anche la formazione del cervello, il rendimento mentale rimane così sotto la media fin dall’inizio. Questo non riguarda soltanto il nostro pensiero, bensì la nostra volontà, le emozioni e soprattutto il comportamento sociale.[42]

    La preoccupazione di Spitzer è soprattutto per i bambini in età infantile prescolare, perché – sostiene – in questa fase della vita l’apprendimento diretto, non mediato da schermi, è molto più efficace per la crescita del cervello e la comprensione del mondo circostante. Lo stesso vale anche per le relazioni sociali. I social network sono dei surrogati di relazione sociale che indeboliscono la capacità di stabilire legami personali e favoriscono forme depressive.[43]
    Ci sono poi gli ottimisti come il visionario Ray Kurzweil[44] che recentemente ha dichiarato:

    [il 2029] sarà l'anno nel quale macchine è umanità si fonderanno, nel quale anche i robot saranno capaci di leggere le emozioni umane e di riprodurle, se non anticiparle, di imparare dall'esperienza, di scherzare, di raccontare storie, addirittura di sorridere.[45]

    Importante è anche il contributo di Howard Rheingold[46], Perché la rete ci rende intelligenti. L’impostazione del libro è ben articolata, per nulla è naïve. Rheingold è cosciente dei problemi legati all’uso delle tecnologie digitali, così al centro dell’intera trattazione egli pone la responsabilità, un comportamento molto importante, anche se difficile da insegnare. Ritiene che si possa raggiungere questa responsabilità nell’uso della rete attraverso l’acquisizione di cinque caratteristiche che egli chiama «alfabeti». Il primo alfabeto è l’attenzione che, come lui stesso riconosce, non è facile da ottenere interagendo con la rete. Il secondo corrisponde alla capacità di individuare le bufale (crap detection), una capacità che si sviluppa con il tempo ed è frutto dell’attenzione. Il terzo alfabeto è la partecipazione, uno degli aspetti che con il web 2.0 ha fatto sì che la rete sia uno spazio espressivo e partecipativo. Il quarto alfabeto è la collaborazione: i social media sono dei potenziali amplificatori dell’azione collettiva, ma non è detto che la rete venga utilizzata in questo modo; perché la cultura collaborativa si sviluppi, c’è bisogno dell’impegno di tutti. Il quinto alfabeto è il network smarts (intelligenza delle reti). Le reti digitali amplificano ed estendono le reti sociali, permettendo nuove forme di socializzazione. Il tipo di legame che esse attivano è debole, ma sono in grado di ristabilire legami con persone che erano uscite dalle reti sociali.[47]
    Di fatto tutto l’impianto di Rheingold si basa su di un “uso responsabile della rete”. Non si può che concordare, nella consapevolezza che l’educazione alla responsabilità non è un percorso formativo facile da organizzare e sostenere, in particolare quando un clima culturale generale spinge verso altri valori molto più edonistici e individualistici.
    La lista degli autori si potrebbe allungare; qui si sono ricordati i più conosciuti, dividendoli sommariamente tra critici e ottimisti. Prima però di prendere posizione con gli uni o con gli altri, conviene fare un’ulteriore riflessione: all’interno di molte discussioni sulla tecnologia digitale di fatto manca una analisi più ampia che non si fermi ad apprezzare o a criticare il sistema tecnologico in funzione di vantaggi e svantaggi immediati, ma che apra la prospettiva della discussione così da includere il sistema mondo, dove è evidente che la tecnologia non svolge solo un ruolo tecnico, ma è a servizio di strategie economiche, politiche e ideologiche.
    A chi intende compiere questo passo non può sfuggire che uno dei paradossi più evidenti è la scuola. All’alba del nuovo millennio, con la svolta del web 2.0, di punto in bianco maestri, docenti e professori non sarebbero più capaci di insegnare se non si dotano di tecnologia 2.0. e non addestrano gli allievi alla sua utilizzazione. Ma con questo tipo di prassi non si accoglie di fatto il “principio” che insegnamento e educazione devono essere funzionali al mercato tecnologico? Se è comprensibile che il mondo del lavoro abbia una velocità diversa da quella della scuola e che il tentativo di avvicinare i due mondi sia auspicabile, tuttavia non la scuola rinuncerebbe alla sua missione originale se si riducesse a mero percorso che inserisce nel mondo del lavoro. Purtroppo negli ultimi decenni i parametri di aspettativa sulla scuola sono cambiati e i genitori sono i primi a volere scuole che garantiscano non tanto una formazione di qualità umane, quanto piuttosto l’accesso al posto di lavoro. Ma la scuola non deve essere il luogo della socializzazione e dell’umanizzazione delle generazioni future? il luogo dove i giovani acquisiscono la capacità di ragionare e argomentare così da inserirsi in modo critico nel sistema, dove apprendono ad assumersi delle responsabilità, dove maturano come persone? Con queste osservazioni non intendo demonizzare la tecnologia, che rimane quello che è, un potentissimo strumento; desidero solo attirare l’attenzione sulla distorsione che si sta introducendo nella scuola, se non si avverte che la tecnologia oggi serve più il mercato che l’uomo.
    Thomas Frank in un articolo apparso su The Bluffer, una rivista americana che sottopone le nuove tendenze ad una critica spietata, denuncia la metamorfosi della università americane, che da centri di alta cultura si stanno trasformando in macchine per far soldi. Il procedimento è semplice, basta affidare il controllo dell’università all’industria e questa la trasformerà in una azienda. Si mettono in atto strategie di marketing, con le quali i maestri del pensiero convinceranno l’opinione pubblica che l’università è la risposta a tutti i problemi. Famiglie e studenti, già in affanno per il loro futuro, si fideranno docilmente delle promesse. Dal canto loro le università mettono in atto un meccanismo di prestito di denaro agli studenti, come espressione di “magnanimità”. Questi però si indebiteranno per il resto della vita, visto che il costo delle università più prestigiose raggiunge ormai i 60mila dollari all’anno. L’abbraccio mortale tra università e mercato ha vari altri effetti collaterali, ma il primo e il più evidente è che il diritto allo studio sta diventando un diritto esclusivo delle classi che se lo possono permettere.[48]
    Come dicevo all’inizio, insegno in una facoltà di comunicazione e non sono certo contro la tecnologia; ma in questi anni è cresciuta in me la convinzione che dalla tecnologia dobbiamo aspettarci solo ciò che è in grado di fare, senza credere alle sirene che accompagnano le vendite. È indubbio che la tecnologia affascini e stupisca, perché permette di fare cose altrimenti impossibili. Chi studia sa, ad esempio, quanto importante sia raggiungere un documento che si trova dall’altra parte del mondo o disporre di un testo introvabile, ora reso disponibile su internet. Ma l’averli raggiunti non dispensa affatto dallo studiarli e dal capirli, e questo non è certo la macchina che lo può fare. Oggi i social network possono metterci in contatto con molte persone, ma non possono eliminare la fatica del conoscersi, ed è un’illusione pensare che attraverso quattro chat, due foto e qualche video io possa stabilire una amicizia profonda con qualcuno. Chi ci crede non sa cosa sia una amicizia vera e quanto di proprio ognuno debba metterci per mantenerla. Alla seduzione dell’essere in contatto con il mondo bisogna reagire con la coscienza che il contatto mediato può garantire una distanza di comodità, dalla quale posso guardare, giudicare, divertirmi, senza compromettermi, senza sporcarmi le mani. Ma è un contatto vero?
    L’educazione non può sfuggire alla domanda: quale umanità vogliamo coltivare? Un’umanità capace di garantire un futuro di pace e giustizia alle nuove generazioni, o un’umanità funzionale al sistema? A costo di sembrare un po’ nostalgico, ma non posso dimenticare quanto affermava Paulo Freire (1921-1997) parlando di educazione come pratica di libertà:

    [… ] se alla parola manca il momento dell'azione, ne viene sacrificata automaticamente anche la riflessione, e ne risulta un'inflazione di suoni, che è verbosità, bla-bla-bla. Perciò parola alienata e alienante. È una parola vuota dalla quale non ci si può attendere la denuncia del mondo, perché non esiste denuncia autentica senza impegno a trasformare, e non esiste impegno senza azione. Se invece si mette l’accento esclusivamente sull’azione, con il sacrificio della riflessione, la parola diventa attivismo. Questo, che è azione per l’azione, minimizza la riflessione, nega anche la vera prassi e rende impossibile il dialogo. […] Non è nel silenzio che gli uomini si fanno, ma nella parola, nel lavoro, nell’azione-riflessione. Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma diritto di tutti gli uomini.[49]
    È paradossale che proprio oggi, nell’era della comunicazione e di una rete che mette tutti in contatto tutti, aumenti il numero dei senza voce. Povertà e ingiustizia, come abbiamo visto, esondano e questo non può non mettere in discussione il sistema economico e politico mondiale, ed insieme ad esso anche le tecnologie della comunicazione, se non ci stanno aiutando a rendere questo pianeta un posto abitabile da tutti con dignità.
    È dunque importante imparare ad usare le tecnologie digitali: è un dovere anche per gli educatori. Non per entrare a corte dell’ “imperatore”, ma – all’opposto – per avviare una rivoluzione di senso, di giustizia e di verità. Se i social network sono spesso il luogo di chiacchierio, bisogna educare le nuove generazioni al silenzio e all’uso di una parola che agisca nella vita. Se il mercato ha bisogno dei nostri sacrifici per far ripartire il consumo, dobbiamo educare (ed educarci a vivere dell’essenziale così da recuperare l’arte della condivisione, l’arte del vivere in comunione fraterna. Se ciò che conta oggi è l’immagine, è meglio diventare invisibili e splendere di luce interiore piuttosto che avere bisogno di un riflettore esterno che si accende o si spegne in funzione dell’indice di gradimento.
    Forse è una battaglia già persa perché la tecnologia ci seduce con le sue promesse di onnipotenza. Ma è una battaglia decisiva, che non lascia spazi alla diserzione, come ci ricorda Velère Novarina:

    Un giorno finiremo muti a forza di comunicare: alla fine diventeremo uguali agli animali, che non hanno mai parlato ma hanno sempre comunicato benissimo. Solo il mistero del parlare ci separa da loro. Alla fine diventeremo animali: ammaestrati dalle immagini, inebetiti dallo scambio di ogni cosa, tornati a essere divoratori di mondo e materia destinata alla morte. La fine della storia è senza parola.[50]

    Non si può comunicare ciò che non si è e non si ha, nemmeno con la tecnologia più potente. La capacità di comunicare cresce e matura nello Spirito, nell’arte, nella musica, nella poesia, nella letteratura, nella pittura; vive di tutte quelle espressioni che ci rendono umani, creature irriducibili a sequenze di bit.
    Le tecnologie digitali sono degli strumenti. Ci possono aiutare nel costruire la nostra umanità e la nostra socialità, ma non è a loro che possiamo delegare questo compito. La responsabilità è solo nostra: promuovere una società della convivenza e del dialogo in un mondo sempre più mediato da macchine.

    (FONTE: «Firmana. Quaderni di Teologia e Pastorale», Anno XXIII n. 58 Gennaio – Giugno 2014, Assisi, Cittadella Editrice, 53-76).

     
    NOTE

    [1] Preferisco usare l’espressione “tecnologie digitali” anziché “nuove tecnologie” perché chiarisce inequivocabilmente l’aspetto discriminante della novità, la digitalizzazione. L’espressione “nuove tecnologie” sposta l’attenzione sulle nuove implementazioni del digitale, obbligando a chiarire in cosa consista il nuovo.

    [2] Parola che nasce dalla contrazione di Smartphone e Tablet e indica dispositivi touch-screen con schermi tra i 5 e i 7 pollici. Sono più grandi di uno Smartphone, ma non sufficientemente grandi da essere considerati dei Tablet.

    [3] L’esagerazione in queste descrizioni è voluta per far capire quanto sia importante riflettere sul rapporto tecnologie e “umano”.

    [4] Prendo a prestito questo temine da un contributo di Scott Eastham, docente di Media Studies (1993-2012) alla Massey University in Palmerston, North New Zealand. Collaboratore negli studi cross-culturali di Raimon Panikkar, è pioniere nello studio interdisciplinare nel campo della Media Ecology mettendo a fuoco il rapporto tra tecnologia e valori umani. In questo articolo mi riferirò sovente a Scott Eastham e in particolare ad suo contributo dal titolo Dalla scrittura all’ingegneria genetica. La grande lezione che non è tratta dalla storia dei media, in «InterCulture», 1 (2005) 2, 32-85.

    [5] Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale (FSC) presso l’Università Pontificia Salesiana, Piazza dell’Ateneo, 1, 00139 Roma. https://fsc.unisal.it

    [6] Pietro BARCELLONA, Parolepotere. Il nuovo linguaggio del conflitto sociale, Roma, Castelvecchi, 2013, 32.

    [7] Pietro BARCELLONA, La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Bari, Dedalo, 2007, 21.

    [8] EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 35.

    [9] Cf. EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 34-42.

    [10] La sfida “finanziaria” fu una delle più difficili da affrontare: veniva avviato un procedimento del tutto nuovo. Non è dunque un caso che le informazioni più attendibili sulla vita di Gutenberg si trovino negli atti dei vari processi per fallimento che ha dovuto affrontare su istanza dei suoi creditori, perdendoli regolarmente, compresa la proprietà dei suoi laboratori.

    [11] Cf. EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 43-48

    [12] Uno studio autorevole del rapporto tra stampa e riforma è questo: Elizabeth L. EISENSTEIN, Le rivoluzioni del libro. L'invenzione della stampa e la nascita dell'età moderna, Il Mulino, Bologna 2011  (l’edizione  originale è del 1979).

    [13] EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 48-49.

    [14] Cf. Franco LEVER, Onde elettromagnetiche, in F. LEVER – A. ZANACCHI – P.C.RIVOLTELLA (Edd.), La comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, Roma, LAS/ERI-RAI/ELLEDICI, 2002, in https://www.lacomunicazione.it/voce.asp?ex=473&id=897, (23.07.2014).

    [15] Claude SHANNON - Warren WEAVER, The Mathematical theory of communication, Urbana, The University of Illinois Press, 1964, disponibile in formato digitale in https://www.magmamater.cl/MatheComm.pdf.

    [16] Franco LEVER, 4.2.2. Il modello di Shannon nell’interpretazione di W. Weaver, nella voce Comunicazione in in F. LEVER – A. ZANACCHI – P.C.RIVOLTELLA (Edd.), La comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, Roma, LAS/ERI-RAI/ELLEDICI, 2002, in. in https://www.lacomunicazione.it/voce.asp?id=298 (24.07.2014).

    [17] Nel testo la traduzione in italiano è mia la citazione originale è la seguente:
                    «In giving the definition of Cybernetics in the original book, I classed communication and control together. Why did I do this? When I communicate with another person, I impart a message to him, and when he communicates back with me he returns a related message which contains information primarily accessible to him and not to me. When I control the actions of another person, I communicate a message to him, and although this message is in the imperative mood, the technique of communication does not differ from that of a message of fact. Furthermore, if my control is to be effective I must take cognizance of any messages from him which may indicate that the order is understood and has been obeyed.

                    It is the thesis of this book that society can only be understood through a study of the messages and the communication facilities which belong to it; and that in the future development of these messages and communication facilities, messages between man and machines, between machines and man, and between machine and machine, are destined to play an ever-increasing part.»

                    Norbert WIENER, The human use of human beings. Cybernetics and society, London, Free Association Book, 1989, disponibile in formato digitale in https://21stcenturywiener.org/wp-content/uploads/2013/11/The-Human-Use-of-Human-Beings-by-N.-Wiener.pdf, 16

    [18] EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 69.

    [19] EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 73

    [20] Non è facile trovare una definizione precisa di «big data», di solito si fa riferimento a una quantità di dati tale che servono super computer, nuove strumenti e nuove tecniche di analisi. Multinazionali come Google e Facebook, per citare le più note, sono le principali utilizzatrici di big data. Tuttavia come sostengono Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth Cukier “[…] l’espressione «big data» designa delle cose che si possono fare solo su larga scala, per estrapolare nuove indicazione o creare nuove forma di valore, con modalità che vengono a modificare i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e governi, e altro ancora.” In Viktor Mayer-Schönberger - Kenneth Cukier, Big data. Una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere e già minaccia la nostra libertà, Milano, Garzanti, 2013, 16.

    [21] “L'exabyte è un'unità di misura dell'informazione o della quantità di dati, il termine deriva dalla unione del prefisso SI exa con byte ed ha per simbolo EB.  Il prefisso exa deriva dal termine greco hex a indicare la sesta potenza di mille.” Tratto da Exabyte, in Wikipedia L’enciclopedia libera, in https://it.wikipedia.org/wiki/Exabyte, (27.07.2014), 1.

    [22] Kenneth CUKIER - Viktor Mayer-SCHÖNBERGER, Una montagna di dati, in «Internazionale» 1004, 14 giugno 2013, 34. L’articolo è tratto dalla loro opera: Big data: a revolution that will transform how we live, work, and think (Boston, Houghton Mifflin 2013).

    [23] CUKIER - SCHÖNBERGER, Una montagna di dati, 34, 37.

    [24] Cf. EASTHAM, Dalla scrittura all’ingegneria genetica, 77-79

    [25] Jeremy RIFKIN, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Milano, Baldini&Castoldi, 1998, 334.

    [26] Nel corso della presidenza di Ronald W. Reagan (1981-1989) presero piede le teorie economiche di Milton Friedman e Robert Mundell, in pratica una combinazione delle tre regole d’oro del capitalismo di Friedman (deregulation, privatisation, cut to the social expense) con la teoria del supply side economics di Mundell, che favoriva l’offerta attraverso l'effetto-incentivo di una minore tassazione. Le scelte, che portarono poi ad una finanza aggressiva, consentirono la deregolamentazione delle banche e delle compagnie di risparmio e prestiti. Prima di allora alle banche pubbliche non era consentita la speculazione finanziaria; lo potevano fare invece le banche di investimento, società private che operavano esclusivamente a loro rischio. Sotto la presidenza Reagan le banche pubbliche diventano banche di investimento. Inizia l’epoca del fare soldi con i soldi, un aspetto che diventerà un fenomeno culturale, tanto da trasformare i piccoli risparmiatori in investitori. Per un approfondimento: L. GALLINO, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013.

    [27] MTV sta per Music Television, un canale televisivo nato a New York nel 1981. La sua programmazione, fatta di video musicali, reality show e serie televisive, si rivolge ad un pubblico di adolescenti e giovani.

    [28] Cf. Zygmunt BAUMAN, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Gardolo (TN), Erickson, 2007.

    [29] BENEDETTO XVI, Omelia Santa Messa per l’apertura dell’anno della fede, 11.10.2012, in https://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20121011_anno-fede_it.html, (28.07.2014), 1.

    [30] Cf. Franco VOLPI, Il nichilismo, Bari, Laterza, 173-174

    [31] BARCELLONA, La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Bari, Ed. Dedalo, 2007, 76.

    [32] Cf. BARCELLONA, La parola perduta, 78.

    [33] Miguel BENASAYAG – Gérard SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2013, 24.

    [34] L’espressione è di Jacques Lacan, psichiatra e filosofo francese. Cf. Massimo RECALCATI, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, Feltrinelli, 2013, 20.

    [35] RECALCATI, Il complesso di Telemaco, 20.

    [36] In una intervista Recalcati chiarisce in questo modo il concetto: “La Legge segnala l’esistenza di una soglia, di un limite che è impossibile valicare… Significa che è impossibile per l’uomo fare esperienza di un godimento illimitato, che è il godimento della cosa materna. Questo godimento senza limiti è interdetto dalla Legge, la cui funzione è precisamente quella di introdurre il senso del limite come elemento costitutivo dell’esperienza umana. Nello stesso tempo, questo impossibile è ciò che paradossalmente apre la possibilità stessa del desiderio”. Daniele BALICCO, Da Edipo a Telemaco: figli in cerca di padri, Intervista a Massimo Recalcati, 14 giugno 2011, [Intervista è uscita sul numero 63 di «Allegoria»] e rilanciata dal sito Le Parole e le cose. Letteratura e realtà, in www.leparoleelecose.it/?p=4919 (30.07.2014).

    [37] RECALCATI, Il complesso di Telemaco, 30.

    [38] RECALCATI, Il complesso di Telemaco, 33.

    [40] Conflitti nel mondo, in Peace Reporter, https://it.peacereporter.net/conflitti/9/1 , (25.07.2014).

    [41] Cfr. Nicholas CARR, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Milano, Raffaello Cortina, 2011, 158.

    [42] Manfred SPITZER, Demenza digitale. Come la nuova tecnologie ci rende stupidi, Milano, Corbaccio, 2013, 278.

    [43] Cf. SPITZER, Demenza digitale, 54-83. È il Capitolo 3 La scuola: copia e incolla. Sono riportati molte ricerche che mettono in evidenza la problematica dell’apprendimento mediato dal computer in particolare nelle scuola primaria.

    [44] Raymond Kurzweil è un inventore, informatico e scrittore statunitense, specialista del riconoscimento ottico dei caratteri e del riconoscimento vocale; inoltre è stato il primo a creare un sintetizzatore capace di riprodurre il suono del pianoforte e di altri strumenti di orchestra. Divulgatore dell’intelligenza artificiale, sostiene che scienze e tecnologie ci renderanno super-uomini (Transumanesimo). Gli sono state conferite venti lauree Honoris Causa. Il suo sito è una miniera di informazioni sulle innovazioni tecnologiche; ha un seguito di tre milioni di visitatori: www.kurzweilai.net/ray-kurzweil-biography

    [45] Nicola PERILLI, Anno 2029, i robot saranno come noi. Anzi, meglio, in Repubblica.it (28.02.2014), in https://www.repubblica.it/tecnologia/2014/02/28/news/robot_2029-79881258/ , 27.07.2014, 1.

    [46] Howard Rheingold, statunitense, è critico letterario e sociologo, studioso appassionato di tecnologia e delle implicazioni a livello sociale, culturale e politica che la rete e le tecnologie digitali esercitano. Come lui stesso racconta, nel 1983 venne risucchiato dalla rete; vivendo quell’esperienza cerca di capire le implicazioni di questo nuovo modello di convivenza sociale a livello culturale e politico e conia il termine Comunità Virtuali. Ha coperto vari ruoli e compiti sempre nel campo dello studio e della sperimentazione con le tecnologie digitali. Il suo sito è ricco di documentazione. https://rheingold.com/

    [47] Cfr. H Howard RHEINGOLD, Perché la rete ci rende intelligenti, Milano, Raffaello Cortina, 2013, 353-361.

    [48] Thomas FRANK, Liberare l’università, in Internazionale, 1019, 27.09.2013, 38-49.

    [49] Paulo FREIRE, Pedagogia degli oppressi,

    [50] Velère Novarina citato in BARCELLONA in La parola perduta, 11. La citazione fa riferimento al testo di Velère NOVARINA, Davanti alla parola, Milano, Ubulibri, 2001.


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