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    Brexit

    Editoriale de "La Civiltà Cattolica"

    A distanza di qualche mese dall'evento che ha "sconvolto" tutti, un autorevole posato commento del quindicinale dei Gesuiti 


    Brexit è ormai una realtà, con grande sorpresa per l’opinione pubblica e per i responsabili politici. Era una delle due opzioni del referendum del 23 giugno 2016 per il Regno Unito. Coloro che hanno optato per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sono stati il 51,9% dei votanti. È un fatto. La nostra rivista, alla vigilia del voto, aveva dedicato un’ampia analisi al tema del referendum, descrivendo i tratti fondamentali dell’economia del Regno Unito e della sua esperienza nell’Unione dopo la sua integrazione nel 1973. Avevamo indicato in forma sintetica sia i contributi di questo Paese all’Unione sia i benefici da esso ottenuti con la sua adesione. L’articolo terminava con la considerazione delle diverse ripercussioni, sia politiche sia economiche, per il Regno Unito e per l’Unione Europea, qualora l’esito del referendum fosse stato il rifiuto della permanenza (F. de la Iglesia Viguiristi, «Il referendum su “Brexit”», in Civ. Catt. 2016 II 342-355).
    Adesso ci troviamo a riprendere quelle riflessioni in questo «nuovo passaggio della storia difficile per tutti», come ha affermato il cardinale Nichols, arcivescovo di Westminster. Dobbiamo ragionare su ciò che è accaduto e sulle prospettive. Qui troviamo - a caldo - lo spazio per proporre alcuni spunti ulteriori rispetto a quelli già indicati.

    * * *

    Il Regno Unito ha sempre avuto un posto a sé stante nell’Europa.
    Lungo tutta l’avventura europea, sin dal 1973, Londra ha sempre cercato delle eccezioni, sui contributi sociali, sull’immigrazione, sulla moneta rifiutando l’euro, sulla libera circolazione rifiutando il trattato di Schengen, e così via. La sua visione liberale dell’econoEDITORIALE 106 mia non appariva pienamente coerente con una visione più solidale delle altre società del continente. Il malcontento contro Bruxelles non cessava mai di crescere.
    David Cameron ha pensato che ottenere nuove concessioni avrebbe portato a un «sì» definitivo per l’Unione Europea. Ponendo la questione in un momento politico così difficile tra immigrazione, terrorismo e globalizzazione, quando la ripresa del nazionalismo è dovunque potente, ha corso un grosso rischio. E ha perso la scommessa.
    Qualcuno afferma che una parte degli elettori ha votato senza realmente rendersi conto delle conseguenze della sua azione. Un esempio: tutti i lavoratori europei in Gran Bretagna e tutti i britannici che lavorano nell’Unione Europea potrebbero ora dover chiedere e ottenere il visto di soggiorno e il permesso di lavoro.
    Qualsiasi commercio con l’Unione Europea forse dovrà passare attraverso dazi doganali, poiché è la fine del libero mercato, che costerà caro a quanti vivono di scambi con il Continente.
    Un nuovo voto ora però sembra impossibile. I giovani hanno votato per due terzi contro Brexit. Sono consapevoli che saranno loro a subire i primi effetti della privazione di forti legami con gli altri popoli d’Europa. Forse un elettorato generalmente più anziano ha seguito i settimanali e le informazioni di carattere generale, affascinato dagli slogans degli estremisti.
    Diversi fattori hanno pesato sulla decisione della maggior parte degli elettori britannici: ci si è sentiti dire dai sostenitori di Brexit che il Paese avrebbe riguadagnato la sua indipendenza e la sua sovranità. Gli inglesi avevano l’impressione che venissero imposte leggi europee contro la loro volontà. Non era stato chiaramente spiegato loro che l’Unione Europea esercitava una sovranità condivisa in tutta Europa, in quanto le decisioni erano prese insieme, e che il diritto di veto è stato spesso usato, mostrando con questo che la condivisione non era inutile. Il concetto di bene comune europeo si è confrontato con i nazionalismi.
    Una seconda considerazione è quella legata ai temi dell’immigrazione, anche se il Regno Unito non fa parte di Schengen, e quindi non è vincolato alla libera circolazione. Le immagini - utilizzate dall’estrema destra - di una lunga processione di migranti hanno colpito l’opinione pubblica senza dare una risposta. In realtà il Paese aveva già il vantaggio di avere una politica diversa su questo punto e poteva applicare in materia di immigrazione leggi più severe per i non europei.
    Un terzo problema riguarda una questione davvero importante, cioè il funzionamento democratico dell’Unione, la mancanza di responsabilità e la preoccupazione per la burocrazia. L’amministrazione di Bruxelles sembra essere intoccabile e onnipotente. Il Parlamento è troppo poco conosciuto e non ha abbastanza potere.
    Sono necessarie riforme politiche.
    La campagna per il referendum è stata molto difficile. Una parte della popolazione ha avuto paura nel sentir parlare di Stato federale o degli Stati Uniti d’Europa, formule false, che fanno sparire inutilmente le peculiarità nazionali. Si è tanto parlato del prezzo da pagare da parte dei membri dell’Unione, senza mai parlare dei benefici ricevuti in molteplici settori dall’Unione, come le università o la ricerca, come il sostegno per la cultura e lo sviluppo locale. Nigel Farage, leader del partito indipendentista di estrema destra, ha confessato di aver dato informazioni false. David Cameron ha mancato di pedagogia e non è riuscito a contrastare questa propaganda. Gli interventi dall’estero, come quelli di Obama o dei funzionari responsabili dell’Unione Europea, non sono stati ascoltati.
    Il risultato del referendum fa anche pensare al funzionamento della democrazia diretta e a ciò che essa rivela, ma anche alla rottura del legame che univa gli elettori britannici alle élites politiche e istituzionali del loro Paese. Tutti i capi di partito erano favorevoli al remain, cioè alla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, come pure la maggior parte degli eletti, dei funzionari di banca e dell’industria, e dei numerosi esperti in materia. Tuttavia l’elettore ha scelto il leave, l’abbandono dell’Unione.
    Si ha l’impressione che abbia prevalso una certa paura del futuro: la paura di essere declassati, di essere lasciati fuori di una macchina europea non ben comprensibile, di perdersi in casa tra gli stranieri. Il partito UKIP, nazionalista e xenofobo, ha avuto buon gioco su questi temi. Il referendum ha rivelato una crisi generazionale che, di certo, Brexit non potrà risolvere.
    L’uscita del Regno Unito è dunque decisa, anche se ancora non effettiva. Vedremo se essa lo sarà solo dopo le dimissioni del premier Cameron, previste a ottobre. Certo in Europa c’è la consapevolezza che l’uscita debba avvenire al più presto possibile, per chiarire e stabilizzare le relazioni tra Londra e Bruxelles. Il ministro delle Finanze, George Osborne, cercando di rassicurare i mercati, dice che tocca a Londra dichiarare quando vuole avviare la procedura dell’articolo 50 sull’uscita. Ma i partner dell’Unione Europea non vogliono che questo periodo duri a lungo, per evitare una instabilità eccessiva. L’incertezza, al momento, potrebbe diventare il danno maggiore. I prossimi mesi sono pieni di incognite. Ciò non impedisce che, essendosi consumata la separazione, possano essere trovati accordi per fare del Regno Unito un alleato privilegiato.
    Per l’Unione Europea, Brexit è stato come un fulmine a ciel sereno, un serio richiamo a un esame di coscienza sui problemi posti dagli euroscettici dei 28 Paesi. Altri Paesi potrebbero essere tentati di seguire la scelta del Regno Unito. Si impone una nuova politica: non c’è altro sbocco dall’alto. Liberati dal freno che il Regno Unito ha a lungo rappresentato, i 27 Paesi rimanenti, e in particolare la zona euro, devono prendere iniziative.
    Abbiamo bisogno di più Europa, mettendo in comune le legislazioni economiche e fiscali, le politiche bancarie sulla gestione del debito. Le decisioni devono essere prese rapidamente insieme su temi delicati come l’immigrazione. Ma dobbiamo nello stesso tempo avere più democrazia, e quindi dare maggiore potere al Parlamento europeo.
    Queste nuove politiche saranno un banco di prova per l’Unione Europea di oggi. Uno sforzo particolare dovrebbe essere fatto per spiegare che cos’è questa associazione di Stati.

    * * *

    Papa Francesco ha appreso la notizia della vittoria dei favorevoli all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea arrivando all’aeroporto di Fiumicino, per partire alla volta di Yerevan. Ha deciso di fare una breve dichiarazione al riguardo ai giornalisti: «È stata la volontà espressa dal popolo. Questo richiede da tutti noi una grande responsabilità per garantire il bene del popolo del Regno Unito e anche il bene e la convivenza di tutto il Continente europeo. Questo mi aspetto». Ha ripreso poi il discorso nella conferenza stampa del volo di ritorno. Ha parlato di «un’aria di divisione» in Europa e anche all’interno degli stessi Paesi, davanti alla quale occorre «trovare soluzioni che siano percorribili, che portino avanti». Per Francesco, «sempre l’unità è superiore al conflitto» e «i ponti sono migliori dei muri».
    Ma egli ha aggiunto che a questo punto serve che l’Unione Europea ritrovi «la forza che ha avuto nelle sue radici», che faccia «un passo di creatività», perfino che si possa «pensare un’altra forma di unione».
    Le due parole chiave per l’Unione Europea sono, per il Pontefice, «creatività e fecondità». Per questo il Papa ha fatto riferimento alle motivazioni del premio Carlo Magno, da lui ricevuto il 6 maggio scorso in Vaticano (cfr A. Spadaro, «Lo sguardo di Magellano. L’Europa, Papa Francesco e il premio Carlo Magno», in Civ. Catt. 2016 II 469-479).
    Il cardinale Marx, presidente del Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea), ha affermato che «il voto dei cittadini del Regno Unito naturalmente va rispettato, anche se da parte nostra lo troviamo estremamente deplorevole». Ha lanciato tuttavia un messaggio di speranza e concretezza: «Dopo questo referendum, è giunto il momento per l’Europa di guardare avanti». L’Unione Europea ha bisogno di un «nuovo inizio», e tutti noi siamo chiamati a «ripensare l’Europa in qualche modo». Ma allo stesso tempo giunge anche l’invito a non rinchiudersi a riccio nell’autocommiserazione dell’accaduto e in una riflessione molto autocentrata: «I popoli europei hanno una responsabilità morale verso il mondo», e «la Chiesa si opporrà con tutte le sue forze», perché «il nazionalismo non deve diventare una leva per alimentare esclusione, ostilità e discordia».
    Nella stessa linea, anche il primate della Comunione anglicana, Justin Welby, ha detto: «Dobbiamo rimanere ospitali e compassionevoli, costruttori di ponti e non di barriere».
    Questo, dunque, oggi risulta decisivo: trovare una via di uscita a quello che potenzialmente è uno dei più gravi errori della morale politica dopo la Seconda Guerra Mondiale.


    © La Civiltà Cattolica 2016 III 105-109 | 3986 (23 luglio 2016)


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