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    Animali, alberi

    e fiori sono maestri

    La giornata per la custodia del creato

    (1° settembre)

    Luciano Manicardi

    Più leggiamo la Scrittura per vivere della parola di Dio, più la nostra lettura si concentra sui vangeli. Più leggiamo i vangeli, più scopriamo l’estensione e la profondità del mistero della persona di Gesù. E come ogni mistero esso non parla di ciò che non è conoscibile, ma di ciò che, quanto più è conosciuto, tanto più si fa profondo, invitante, affascinante. E più avanziamo negli anni frequentando il Vangelo, più scopriamo che ciò conosciamo di Gesù è una parte minima, infinitesimale, a volte perfino illusoria.
    Nella pagina evangelica odierna Gesù dice: «Guardate attentamente gli uccelli del cielo», «considerate i gigli del campo», e altrove: «osservate i corvi», «guardate il fico e tutti gli alberi», «imparate dall’albero di fico».
    Sono comandi di Gesù che normalmente non prendiamo in considerazione perché pensiamo — forse a ragione, forse no — che non abbiano la stessa rilevanza di «Fate questo in memoria di me» o di «Siate vigilanti e pregate» o di «Amatevi gli uni gli altri», eppure sono parole che rivelano sia la persona di Gesù sia come lui vorrebbe i suoi discepoli. Rivelano anzitutto qualcosa di Gesù, del suo animo, della sua vita interiore, della sua umanità, del suo cuore. E su cui pertanto non siamo autorizzati a sorvolare con sufficienza.
    Gesù osservava animali, piante e fiori e ne coglieva il magistero, sapeva imparare da essi, sapeva porsi alla loro scuola. Tanto che nelle sue parabole e nel suo parlare di Dio e del suo Regno ricorrono chiocce e pulcini, volpi e lupi, cammelli e asini, passeri e colombe, grani di senape e chicchi di grano, vigne e cardi, zizzania e frumento, e per designare sé e i suoi discepoli parla di vite e di tralci. Le parole di Gesù ci svelano che animali, alberi e fiori sono maestri.
    Essi lo sono, anche per noi, oggi, lo sono con la loro presenza silenziosa, lo sono con il loro semplice esserci: il comando di Gesù si rivolge non a loro, ma a noi umani che dobbiamo risvegliarci al reale, lasciarci illuminare dal reale, ascoltare e osservare e imparare dalle creature del creato. Perché solo allora la nostra esperienza di Dio e il nostro parlarne potranno avere una qualche credibilità. Animali, alberi e fiori sono lì, con la loro silente presenza a offrirci con discrezione la possibilità di entrare in consonanza con il sentire che fu in Gesù stesso.
    Che cosa imparare dalle creature del creato? Che cosa ci insegnano? Anzitutto a far cadere l’illusione che ci abita e ci muove quotidianamente, del nostro situarci al centro, di essere al centro di tutto. Siamo invece una grande comunione, accanto ad animali domestici e selvatici, accanto a piante diverse che ogni giorno ci narrano la loro fedeltà, accanto a fiori che ci insegnano la lezione della precarietà e preziosità della bellezza.
    Sì, queste creature sono maestri, ma anzitutto sono compagni, amici, fratelli, sorelle. Sono per noi consolazione con il loro semplice esserci accanto senza che noi lo abbiamo minimamente meritato. Quindi ci insegnano la grandezza delle cose piccole, a noi che siamo affascinati e abbagliati da ciò che è potente e si impone, nel mondo come nella chiesa. Lo insegnano a noi che spesso rimpiccioliamo ciò che è grande per ridurlo alla nostra misura. Ci insegnano a relativizzare il senso dell’indispensabilità del nostro fare per condurre avanti il mondo: spesso è solo un modo di acquietare la nostra angoscia, di rassicurare la nostra coscienza, di illuderci di avere controllo sulla realtà e sugli altri.
    Gli uccelli del cielo, dice Gesù, non seminano, non mietono e non raccolgono nei granai. I gigli del campo non faticano e non filano. Ci insegnano — queste creature — a fermarci, a entrare in amicizia con il tempo, a guardare e a vedere, a sentire e ad ascoltare il loro racconto, a dialogare silenziosamente con esse. Ci insegnano a essere presenti a esse e dunque a noi stessi. Ci insegnano l’umiltà, la fatica e la bellezza della contemplazione.
    Ascoltando la loro preghiera che si rivolge a noi e ci chiede di rispettarle, di lasciarle essere, ci insegnano che l’unico vero potere legittimo che abbiamo è quello su noi stessi, quello per cambiare noi stessi e il nostro cuore, il nostro sguardo, il nostro sentire. E infine ci insegnano, anzi ci rivelano, come ricorda sorella Maria di Campello, un raggio dell’invisibile bellezza di Cristo. Può darsi dunque che i comandi ascoltati nella pagina evangelica di questa eucaristia, siano meno importanti di quelli sopra ricordati: «Fate questo in memoria di me», «Siate vigilanti e pregate», «Amatevi gli uni gli altri». E tuttavia. La considerazione del chicco di grano e della spiga di frumento, della vite e dell’uva, hanno a che vedere con il pane e il vino della condivisione e della comunione e ci ricordano che l’eucarestia da ripetere in memoria del Signore è un pasto di comunione, non un rito sacrale. L’attenzione e lo stupore, l’ascolto e il dialogo a cui le creature ci invitano, sono pienamente parte della vigilanza e della preghiera che Gesù ci chiede. Scrive sorella Maria di Campello: «Una stella che ci guarda dal cielo; un fiore che ci dà il suo sorriso; ecco cose sante dinanzi a cui è peccato essere freddi».
    E infine, come obbedire al comando di amarci gli uni gli altri senza la concreta cura del corpo e della persona dell’altro? Senza amare l’ambiente in cui egli vive? Come amare in verità senza consegnare a chi verrà dopo di noi un mondo segnato da bellezza e vivibilità? È ancora Maria di Campello che annota: «Le persone spirituali considerano difettosa, contaminata la via umana, e cercano come perfetta la via soprannaturale; per me la via umana è la via segnata da Gesù».


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