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    Al cuore della comunicazione

    Gianfranco Brunelli


    Il 27 gennaio scorso il direttore de Il Regno Gianfranco Brunelli ha preso la parola a Bologna alla XVIII edizione dell’annuale convegno-seminario rivolto ai giornalisti in occasione della festa di San Francesco di Sales, organizzato dall’Ufficio Comunicazioni sociali della Conferenza episcopale dell’Emilia-Romagna e dalla Chiesa di Bologna e concluso dall’arcivescovo card. Matteo Zuppi. Il tema era «Comunicare e parlare con il cuore L’informazione e la deontologia per la cura delle relazioni». Pubblichiamo integralmente l’intervento di Brunelli. (G. Mc.)

     

    Cuore è parola antica, arcaica. Nel linguaggio biblico il termine leb – lebab designa l’organo vitale dell’uomo, ma soprattutto assume il significato traslato di centro dell’uomo. I pensieri, sia buoni sia cattivi, salgono dal cuore; nel cuore l’uomo parla a sé stesso e Dio parla attraverso il cuore dell’uomo; la sapienza del cuore è l’origine dei disegni e delle decisioni, in esso avviene la conversione, in esso parla la coscienza.
    La parola cuore è dunque un concetto simbolico-reale, il centro originario della persona. Qualcosa in più di una sineddoche. Questo centro originario della persona è aperto a Dio e alle altre persone. Si tratta del centro originario della persona della sua soggettività, del principio permanente di poter essere in sé, cioè nella libertà. Questa soggettività fondamentale, che Heidegger chiama «situazione», è necessariamente il luogo del rapporto trascendentale con Dio e con il tu personale dell’altro. Il cuore è per eccellenza il luogo della comunicazione: è l’io comunicativo.

    Affidabilità e falsità dell’informazione

    La post-verità, la verità considerata elemento del tutto secondario rispetto a un fatto che si sta commentando, le fake news e i leaks, le notizie false e le indiscrezioni diffuse ad arte, il loro influsso sui comportamenti (non solo politici), questi sono oggi alcuni dei temi fondamentali della comunicazione. Si tratta di forme che andrebbero distinte tra loro con più accuratezza, rammentando, ad esempio, che la cosiddetta post-verità ha riempito di sé tutto il dibattito filosofico del Novecento.
    Poi vanno distinti i soggetti. Un conto è la comunicazione orizzontale dei social. Altro sono i troll. Nel gergo delle comunità virtuali, queste figure, mutuate dalla letteratura scandinava, sono soggetti che interagiscono con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti o volutamente errati, fatti circolare con il solo obiettivo di fuorviare la comunicazione.
    Ci sono società e singoli prezzolati che agiscono in rete con lo scopo preciso di disinformare per conto terzi.
    Gli attacchi informatici, la reputazione in rete e i siti di disinformazione e tutta l’informazione orizzontale, incontrollata e incontrollabile, che passa attraverso le reti sociali creano una diversa contestualità. Diffondere false notizie fa parte da sempre dell’azione politica. Ma oggi la disinformazione preterintenzionale è molto curata.

    Guerra e manipolazione delle notizie

    I social sono una nuova frontiera della manipolazione e della disinformazione. Si cominciano a organizzare contromisure anche tecniche, ma esse richiedono un grado di competenza elevato. È quel che ha fatto lo staff di Macron nel corso delle ultime elezioni presidenziali francesi, disseminando di falsi documenti i computer di collaboratori potenzialmente sottoposti a attacchi informatici, per ritardare gli attaccanti e minare la credibilità di eventuali leaks e fake news.
    I contenuti pubblicati su internet si possono modificare, si possono estrapolare dai contesti. Le notizie non sono del tutto false o del tutto vere, e poi ci sono i commenti. Le fake news insomma spesso non sono notizie false, ma notizie per le quali si sposta il significato. Questo spostamento di significato agisce nei nuovi contesti.
    Nel caso delle guerre, la manipolazione delle notizie appartiene alla strategia di guerra. I casi sono diversi naturalmente da guerra a guerra. Nella Seconda guerra del Golfo, i giornalisti non avevano possibilità di movimento sul campo, chiusi negli alberghi le informazioni erano il frutto di comunicati di parte statunitense.
    Oggi nella sporca guerra di Putin la situazione è alquanto diversa. Mosca non permette informazione libera. L’informazione è di regime ed è soprattutto rivolta all’interno. Putin è alla ricerca di un processo di legittimazione per avere consenso a una sua guerra illegittima. Qui il rapporto tra legittimità e legittimazione è rovesciato. Mentre in Ucraina si può entrare e informare con un alto grado di libertà.

    Spettacolarizzazione vs. responsabilità

    Infine va posto il tema della spettacolarizzazione delle notizie, in gran parte legata alla crisi dei media tradizionali. Quello che preoccupa è che le persone utilizzano queste notizie diversamente da quelle dei mass media tradizionali, le utilizzano quasi come un modello di intrattenimento.
    Ma se la crisi dei giornali tradizionali è al culmine, con quaranta milioni di italiani che ogni giorno vanno a cercare informazioni su Facebook, il problema diventa quello dell’affidabilità e della verifica delle notizie, contrapposte alla ricerca del sensazionalismo da parte dei media tradizionali che cercano di tenere dietro ai social network.
    La notizia viene in qualche modo distorta non solo dalle reti sociali ma anche da chi, come i canali televisivi all news, aggiorna le notizie minuto per minuto. Si è persa la responsabilità della notizia. «Prima viene data così com’è, senza verifica, spettacolarizzata in un certo senso, poi viene aggiustata, nel flusso dell’informazione».
    Il rischio è che la gente non sappia distinguere realtà da finzione, spettacolo da notizia. E che quindi non sappia gestire i media online, che non sappia distinguere i diversi generi, i diversi format a disposizione. Siamo di fronte a una perdita di realtà o al proliferare di realtà sostitutive.
    C’è qui un compito nuovo dell’informazione e una nuova responsabilità dell’informatore. Serve maggiore preparazione culturale dell’informatore e un suo esercizio etico della libertà. L’informazione è il nuovo terreno dove si giocano la democrazia e la libertà.

    La storia, processo aperto

    Oggi è il 27 gennaio, il giorno della memoria. Non posso non toccare il tema del ricordare, del rapporto tra presente e passato, soprattutto in relazione a quel processo di cancellazione della storia che va sotto il nome di cancel culture. Ricordare è riportare al cuore, cioè al profondo di se stessi, dell’essere persona. Cosa ricordare? Cosa ricordiamo?
    La storia è un processo aperto. La sua apertura al futuro non riguarda solo il domani, ma comporta delle conseguenze relative anche per gli eventi remoti: sotto lo sguardo retrospettivo del tempo che segue, anch’essi si trasformano. Benché la realtà del passato non possa essere cambiata da qualche nuovo presente, tuttavia, senza nulla togliere all’effettività di quanto accaduto, si trasforma l’immagine storica del passato, e la sua comprensione. Vista sotto altra luce quella stessa immagine appare sotto una luce diversa. Avvenimenti e figure prima indispensabili alla narrazione possono cadere nell’oblio. Altre che sembravano di secondo piano, acquistano centralità o significanza.

    Il passato tra memoria e presente

    Il passato è in sé un dato immodificabile. Non così la sua comprensione. La conoscenza del passato è un processo in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente. Nuove tracce, nuovi documenti (o medesimi rivisti), nuove tecniche, nuove applicazioni, nuove discipline consentono al metodo critico di meglio comprendere gli «andirivieni paralleli della causa e dell’effetto», secondo la felice espressione blochiana. Andirivieni che, se pur muovono dal presente e ad esso ritornano, debbono essere messi al riparo da utilizzi strumentali, quasi sempre di natura ideologica.
    Il tempo si stratifica in maniera diversa e conferisce all’epoca un nuovo profilo. Le certezze della Guerra fredda, ad esempio, così granitiche per lunghi anni, oggi ci appaiono sempre più modificate. Non si crea tuttavia un vuoto, il tessuto che si disgrega viene subito sostituito e compensato con elementi di una memoria che vive grazie al ritorno di tempi passati, ritenuti in un altro presente definitivamente superati.
    Anche la perdita di memoria diretta (pensiamo alla scomparsa dei testimoni della Shoah) svolge un ruolo analogo e condanne morali e politiche che per un lungo tempo appartenevano a valori condivisi, improvvisamente perdono la loro autoevidenza, fino ad essere messe in discussione nella loro stessa fondatezza.

    Crisi della democrazia social-liberale

    Il nostro presente europeo e nazionale sembra oggi sottrarsi al passato prossimo per riavvicinarsi a nuovi desueti modelli della storia europea. Il ritorno di spazi storici evoca nella memoria il ritorno di tempi storici.
    In seguito alla cesura del 1989 riemergono tendenze sempre più forti che affondano le loro radici nei conflitti tradizionali del XIX secolo e nelle guerre civili del XX secolo. Si sta relativizzando l’asse dell’antagonismo ideologico, che rappresenta sempre meno l’unica chiave interpretativa del Novecento; cede il passo a un altro asse interpretativo, legato non tanto all’opposizione tra valori e tra forme diverse di Weltanschauung, quanto alla validità di elementi etnici e geografici. Che naturalmente erano presenti anche prima e che ora riesplodono.
    La perdita progressiva della supremazia statunitense (non adeguatamente sostituita dagli stessi Stati Uniti con una diversa struttura istituzionale condivisa); la mancata evoluzione politica dell’integrazione europea (oggi posta in questione da nazionalismi, secessionismi e isolazionismi vari) hanno mancato al compito storico di offrire una guida equa e un tentativo di regolamentazione al processo di globalizzazione. Si pensi al processo di finanziarizzazione dell’economia, al monopolio della ricerca tecnologica e al grave incremento delle disuguaglianze e della povertà.
    Ne è scaturita una crisi profonda della democrazia social-liberale, che sembra non reggere l’urto dei conseguenti cambiamenti geopolitici e della globalizzazione. Assistiamo alla fine di quella intrinseca interdipendenza fra democrazia e libero mercato. Non a caso il modello totalitario cinese viene considerato da molti, soprattutto nelle aree più povere, come il più efficace e di fatto come sostitutivo della democrazia politica. Si potrebbe sintetizzare dicendo che il processo di globalizzazione, ridotto nella pura forma del neo-liberismo finanziario, ha fallito la possibilità di una guida democratica, consumando gli Stati Uniti e l’Europa proprio nelle ragioni fondamentali della loro egemonia culturale.

    Da che distanza si guarda un quadro

    Nessuno dei due assi interpretativi (quello dell’antagonismo ideologico e quello della contrapposizione etnica) garantisce però un’adeguata descrizione e interpretazione non solo del Novecento, ma di quello che sta accadendo in questo ultimo periodo. La guerra tra Russia ed Europa, perché questo è quello che succede in Ucraina, da un lato ci riporta al passato della Guerra fredda, ma da un altro rialimenta la figura dei nazionalismi.
    La guerra di Putin ci riporta al passato. A un passato tuttavia conosciuto e sconosciuto assieme. È una guerra imperialista, una guerra ideologica di aggressione, che viola tutte le norme: sia il diritto internazionale, sia lo jus in bello. Della Seconda guerra mondiale ha preso il peggio: non distingue tra popolazione e militari. È una guerra alla popolazione civile.
    Questo mette in crisi il concetto di pace. Dire: pace, pace rischia persino di essere non solo retorico, ma fuorviante. Se non dico pace assieme al riconoscimento che c’è un aggressore e un aggredito, io sto non nella neutralità o nell’equidistanza. Io sto con l’aggressore. Per dire pace con forza occorre chiederla realmente, cioè in base alla realtà, ai valori in gioco, al peso geopolitico e morale che essa ha.
    L’informazione deve riconoscere e raccontare quel che accade, tutto quel che accade, comunque, lo deve testimoniare sul campo quando è possibile, poi lo deve interpretare. Perché non basta sapere tutto, occorre sapere cosa sapere. È il tema di una costruzione narrativa.
    E nell’interpretare non c’è equidistanza. Serve obiettività, ma questa è connessa a paradigmi legati all’etica, al diritto, alla giustizia. Poiché la realtà è fatta di luoghi antropologicamente significativi, altrimenti è spettacolo.
    Mi devo chiedere se sto con l’aggredito o con l’aggressore, con l’uomo nudo o con quello vestito, con l’affamato o con chi affama. E se parlo col cuore devo mettere in conto l’ombra del male, persino nella vittima.
    «Da che distanza si guarda un quadro?», si chiedeva provocatoriamente Pascal. Risposta: dipende.

    (Il Regno - 13 Febbraio 2023)


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