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    Signore da chi andremo?

    Tu hai parole

    di vita eterna!

    Franco Giulio Brambilla

     

    60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. 64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.

    67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 70Gesù riprese: «Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». 71Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici.

     

    Abbiamo ascoltato l’ultima sezione del capitolo 6 di Giovanni che richiama la pri­ma. Il grande “discor­so sul pane di vita” è incorniciato tra l’episodio della moltiplicazione dei pani e della ricerca di Gesù (Gv 6,1-25) e la risposta “drammatica” a cui sono chiamati i discepoli (Gv 6,60-71). Tale risposta sfocia in una duplice possibilità: per alcuni «questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (v. 60); per altri, Pietro e i Dodici contiene «Parole di vita eterna» (v. 68). Il cammino percorso nelle quattro tappe precedenti non è completo se non si realizza nella risposta personale ed ecclesiale. Una risposta totalmente a servizio della città degli uomini. Questo il tema della Lectio di stamane.

    Finito il “discorso sul Pane di vita”, cala il silenzio e l’attesa si fa grande. Un discorso è sempre rivolto a qualcuno. Un grande discorso come questo, è un tragitto dentro l’esistenza quotidiana, rivela il cuore e attende una reazione. Essa non tarda a venire. «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (v. 60) Per alcuni discepoli il linguaggio di Gesù è duro, la pretesa di Gesù insopportabile. Ma che cosa è propriamente inaccettabile? Non si tratta solo dell’invito a «mangiare la carne Gesù e bere il suo sangue», ma a far questo riconoscendo Gesù come Parola/Pane/Vita. L’uomo vive di Pane e di Parola, e solo ciò gli dà la Vita. Perché ciò accada occorre riconoscere l’origine dall’alto/dal cielo/dal Padre, sia del Pane che della Parola. Per riconoscerlo in modo autentico è necessario sperimentare che il Pane di cui ci saziamo («Voi mi cercate… perché vi siete saziati», Gv 6,26) ha bisogno della Parola che gli dà senso e sapore, perché solo così diventa compimento del desiderio di vita dell’uomo. Questo propriamente è lo «scandalo», l’insopportabile pretesa di Gesù, di cui il momento eucaristico è, allora come oggi, l’arduo cammino. Noi dobbiamo percorrere l’irto cammino che va dal desiderio che cerca solo di saziarsi allo sforzo di riconoscere in modo grato che il Pane di cui viviamo, gli affetti che scambiamo, la fatica del lavoro e la gioia della festa, le ferite della sofferenza e la fragilità sociale, la passione dell’educare e l’avventura del comunicare, l’impegno civile e la dedizione sociale, hanno bisogno di prendere sapore dalla Parola che esce dalla bocca di Dio. La Parola viva e zampillate che viene da Dio, sana le nostre ferite, scioglie le nostre rigidità, irrora le lande desolate della nostra esistenza quotidiana. Questo è lo skandalon, la pietra d’inciampo da superare: il pane sa di sale e ogni bene della vita terrena è duro calle da percorrere se non riconosce la sua origine dall’alto, dal cielo, da Dio!

    Si comprende perché la risposta di Gesù all’obiezione dei discepoli rimandi alla Pasqua. «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima..». Gesù non nasconde le asperità del cammino che propone. Anzi raddoppia lo skandalon, perché rimanda a un’altra risalita in alto, a un salto mortale dell’esistenza, possibile solo perché Gesù vi passerà per primo nella sua Pasqua, quando sarà «giunta la sua ora per salire da questo mondo al Padre» (Gv 13,1). Tuttavia, la sua risalita al Padre non è una ripetizione della discesa, ma essa è arricchita dall’attraversamento del mondo, dal passaggio nella carne dell’uomo, dalla guarigione delle ferite ch’essa porta con sé. Cari amici, in questi giorni abbiamo passato in rassegna molte figure della vita quotidiana con i loro momenti magici, ma anche con tutte le contraddizioni e le trappole che nascondono. È possibile passarvi attraverso, farle diventare passaggi pasquali, finestre di speranza? Non ci sentiamo forse poveri, non ci pare ancora più difficile questo aspetto dell’arduo cammino?

    Gesù però non ci lascia soli: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita» (v. 63). Gesù ci dona il suo Spirito, che c’introduce alla pienezza della verità, che fa della sua carne, della sua vicenda storica, parole che «sono spirito e sono vita». L’ardito cammino è solo una possibilità dello “spirito”, Quello che egli ci dona e che rianima il nostro spirito debole e fiacco. È un cammino “spirituale”, fatto di parola che accende la carne, che fa storia, che cambia i rapporti, che risana le relazioni, che suscita sogni nei nostri figli e nelle nostre figlie. Lo Spirito di Dio sfida la carne, che da sola non giova a nulla, ma che diventa vita se è attraversata dal soffio dello Spirito. La vicenda di Gesù è la carne animata dallo Spirito, una vita che diventa spirito e uno spirito che sprigiona la vita. Questo è il percorso fatto in questi giorni. Il cammino nello Spirito è la fede («Ma tra voi vi sono alcuni che non credono», v. 64); essa è però oggi occasione di scandalo, non ha uno spazio pubblico, è risospinta nel privato, è ammirata come emozione personale, ma è inutile nella costruzione della città.  Perciò Gesù ci dice che si può accedere a Lui, solo se il Padre lo concede (v. 65). In tal modo la dinamica trinitaria è anche la forma del dimorare in Cristo che porta a compimento il desiderio dell’uomo. Sembra un paradosso: più Gesù precisa il cammino e ne rivela senza sconti le altezze, più sembra generare sconforto. Fino all’esito finale: «Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (v. 66). Se non entriamo nel movimento indicato da Gesù, questo è già un «tirarsi indietro», un «allontanarsi da Lui» (v. 66). Si apre per tutti una drammatica possibilità: tornare indietro, disperdersi, escludersi dalla missione del Figlio per la vita del mondo.

    Entriamo così nella seconda parte del brano della nostra lectio. Ora, siamo posti di fronte alla scelta radicale («Forse, volete andarvene anche voi?», v. 67). Gesù si rivolge ai suoi, ai Dodici, al nucleo incandescente della Chiesa e, quasi con uno scatto fulmineo, dice anche a noi: Forse, volete andarvene anche voi? Oso immaginare la sua voce incrinata, i suoi occhi lampeggianti, il suo sguardo sovrano. Al centro di una settimana come questa, dinanzi al Signore dell’eucaristia, a colui che è Pane di vita e Parola che si fa carne, dobbiamo sentir penetrare questa domanda dentro la nostra anima come la lama affilata, che divide ossa e midollo. Forse volete andarvene anche voi? Così dice Gesù a questa Chiesa che non si lascia più bruciare dal roveto ardente della sua Pasqua, che baratta i poveri con la cura del corpo del Signore, o si nasconde dietro gli orpelli luccicanti di una celebrazione eucaristica trionfante per non riconoscere gli ultimi che bussano alla nostra porta. Forse, volete andarvene anche voi? Sì, Signore, così tu smascheri la nostra vita spirituale scialba ed esangue, il nostro fare indaffarato e vuoto, il nostro agire senza misericordia e magnanimità, la nostra comunione tiepida e psichica, la nostra passione civile timida e incerta, la nostra carità ostentata e talvolta interessata, la nostra missione senza slancio e speranza. E, su tutto, i nostri linguaggi ecclesiali che non edificano vita, ma spargono scoramento e sfiducia. Forse, volete andarvene anche voi? Gesù ci sfida a leggere il nostro tempo, a non tirarci indietro di fronte ai mutamenti sociali e culturali, a non avere una fede timida e impaurita, a non pensare che la nostra epoca sia più grama di quando i cristiani sono stati gettati nel mondo romano, germanico, nella scoperta del mondo nuovo, nella prova drammatica della rivoluzione francese, nel tempo tragico delle ideologie totalitarie. Certo la nostra epoca porta con sé un’insidia sottile, che fa deperire lo spirito e lo rende vacuo e indifferente. È questa indifferenza soddisfatta che genera un assottigliamento spirituale e rende la città dell’uomo una landa di ululati solitari. Faccio solo notare un sintomo che sta sotto gli occhi di tutti. I nuovi templi che svettano nella città secolare sono la città mercato e lo sportello di credito: sono belli, curati, hanno ampi spazi per parcheggiare, hanno servizi per ogni desiderio, hanno occhi per ogni bisogno. Stanno diventando le città del nostro tempo libero, ma – come ha fatto osservare qualcuno – sono terribilmente uguali da Bolzano a Catania, e così ci omologano tutti facendo perdere il senso della festa e lo spazio dell’incontro. E si potrebbe continuare ancora per molto, con la chiara sensazione che non abbiamo più occhi per riconoscerne il carattere mortifero soprattutto per i giovani e le famiglie. Forse, volete andarvene anche voi? Tale domanda di Gesù risuona ancora oggi in tutta la sua urgenza e forza.

    Pietro, a nome dei Dodici, ci conduce per mano e, rivolto a Cristo, invoca: «Signore, da chi andremo?» (v. 67). È la decisione di «andare da Lui» e di fare la Chiesa come luogo della comunione e della missione («non ho forse scelto voi, i Dodici?»). C’è un sorprendente parallelismo con il Vangelo di Marco: «ne scelse Dodici perché stessero lui e anche per mandarli…» (Mc 3,13). La Chiesa è sospesa continuamente alla risposta di Pietro, forma e modello della nostra («Tu hai parole di vita eterna»). La Chiesa, anzi, realizza se stessa in questa risposta. Il suo è frutto dell’elezione di Gesù e può capovolgersi nella tragica possibilità del rifiuto, che si annida nel cuore stesso dei Dodici («Uno di voi.../uno dei Dodici… mi tradirà»). Anche oggi – soprattutto in questa giornata – siamo chiamati a dire in verità: Tu, solo Tu, hai parole di vita eterna! Mi pare che nello spirito di questo giorno dedicato al rapporto tra l’eucaristia e la cittadinanza, possiamo far risuonare tre brevi frammenti di tale Parola di vita eterna: il primo per la chiesa, il secondo per la carità, il terzo per la società. Qui la nostra lectio si avvia a fornire qualche spunto per la meditatio. 

    1. Anzitutto, occorre dire con chiarezza che la Chiesa è insieme il luogo e il frutto della Parola di vita eterna, solo se diventa spazio della comunione. Non facesse nulla per la città dell’uomo, essa diventa forza propulsiva quando è segno reale della comunione tra e per gli uomini. Pietro risponde a Gesù dicendo: Tu hai parole di vita eterna! Accogliere Gesù come cibo, significa diventare il suo corpo. La necessità della Chiesa sta tutta qui: la carne di Gesù donata come pane vivo ci introduce nel mistero del Padre e disegna il volto dei credenti e li fa dimorare in Lui. La Chiesa è il pane vivo spezzato che ci nutre, è la parola/cibo assimilata che ci innesta in Lui. Le parole di vita eterna che troviamo in Lui sono la pienezza della comunione, l’incorporazione a Lui. La chiesa ne è il segno reale per il mondo: è segno perché rinvia a Lui come ciò che la fa essere, come realtà che comunica la vita stessa di Dio, come ciò che può accogliere solo nella gratitudine della fede, prima che come frutto del proprio impegno. E’ reale perché il rimando a Lui realizza effettivamente qui ed ora la comunione, ne è la presenza efficace nel mondo. Non è solo un vago segno che rinvia ad altro, ma è la realtà stessa dell’evangelo offerto e accolto. La Chiesa è il pane mangiato e accolto, è l’«Amen» all’eucarestia, è la testimonianza stessa di Cristo. Non è testimonianza di una notizia a lei esterna, ma è propriamente il «suo corpo»! Mi chiedo se le chiese in Italia hanno questa forte preoccupazione di tenere alto il profilo della comunione, delle relazioni buone, della fraternità evangelica. Domando se le nostre parrocchie sono un luogo dove ciascuno ascolta e sperimenta parole di vita e spezza un pane che nutre e fa crescere, dove si fa spazio alle famiglie, ai ragazzi e ai giovani, agli adulti e agli anziani. Non solo fornendo servizi e aiuti, ma semplicemente facendoli respirare al soffio vitale della comunione fraterna. La comunione viene percepita oggi nella forma debole di un rapporto psichico e caldo o di un luogo a cui si arriva per il proprio bisogno religioso. L’antidoto principale contro questi pericoli è la consapevolezza che la parrocchia è una comunione che viene dal Giorno del Signore con al centro l’Eucaristia: è una comunione teologale, con Dio e tra di noi; è una comunione impegnativa, nella quale occorre dimorare anche quando ci sono difficoltà, incomprensioni e tensioni; è una comunione vocazionale, che mira a far trovare il proprio volto a tutti e a ciascuno; è una comunione ministeriale, perché chiama a servire anche la fede altrui; e solo a queste condizioni è una comunione missionaria, perché il suo annuncio e il suo servizio hanno l’orizzonte della missione di Gesù. 

    2. In secondo luogo, la chiesa e il cristiano sono segni di vita eterna quando diventano luoghi della carità. Gesù nell’eucaristia domenicale è colui che sta in mezzo a noi come uno che serve. La domenica è allora il “giorno della carità”. La carità per il cristiano è ad un tempo facile e insidiosa. Facile perché è un segno in cui riconosce e può esprimere la sua propensione alla solidarietà. Carità e solidarietà sembrano equivalersi. Ma non è sempli­cemente così. I cristiani debbono vigilare perché il loro compito non si esaurisca rispon­dendo al bisogno, ma incontrando il bisognoso, o meglio facendo scoprire il desiderio di un bisogno più grande. Una cura del bisogno inteso in modo solo materiale, senza mettere in luce che esso è un segno di una domanda più radicale, del desiderio di un bene più profondo, non apre né il singolo né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Gesù guarisce molti malati e quasi sempre, una volta guariti li spedisce a casa, perché nessuno sospetti che li ha guariti per farli diventare dei suoi. Ma quando li guarisce, sembra suggerire alla loro coscienza che la guarigione è il segno di una salvezza più piena, che essi troveranno nel rispondere liberamente a quel bene più grande che è la vita in pienezza e non è solo la salute riacquistata.

    La carità interroga l’essere chiesa della parrocchia e dei movimenti, il loro stile di vita, le loro scelte: domanda alla comunità come spende i soldi ed è disponibile agli altri, come fa crescere nuove vocazioni di volontariato, come gestisce la colletta della domenica (un segno che, soprattutto presso i ragazzi e i giovani, ha perso la sua dirompente capacità di educare alla generosità e all’elemo­sina), come vive il rapporto con i beni, come suggerisce alla famiglia la sobrietà e la condivisione, com’è capace di perdono e di riconciliazione, come sa essere accogliente e ospitale con le persone in difficoltà, i ragazzi bisognosi, i malati, gli anziani, e così via… 

    3. Infine, la chiesa e il cristiano sono testimoni di vita eterna se costruiscono la città nella giustizia e nella speranza. La cura per i buoni rapporti di prossimità è l’atmosfera di cui vive la giustizia. Forse bisogna chiarire la relazione tra carità e giustizia, correggendo il luogo comune. Esso dice così: la giustizia trova il suo criterio nel favorire buoni rapporti sociali nella città, definiti in modo laico, al di là delle convinzioni religiose, e riguarda le prestazioni a prescindere dalle convinzioni; mentre la carità si riferisce alla forma dei rapporti umani, lasciata alle convinzioni personali e religiose e deriva dalla buona volontà del singolo, ma non presiede al rapporto sociale. La giustizia in questo modo regge la città, al prezzo della sua separazione dalla coscienza; la carità è promossa e praticata come forma della libera scelta di fronte alle situazioni di bisogno e si colloca ai confini della città. Essa è molto valorizzata, ma rimane marginale rispetto alla dinamica del rapporto sociale. In tal modo la giustizia regola i rapporti civili e si prefigge il consenso sociale, mentre la carità fa leva sulle convinzioni personali e va richiamata solo alla coscienza di ciascuno. Questo modo di vedere le cose è molto rassicurante, ma produce una visione distorta. L’im­pegno del cristiano nel mondo viene sospinto nel volontariato, nell’assistenza sociale, nel servizio al povero, o nelle forme utopiche del pacifismo e della salvaguardia del creato. Occorre, invece, riconoscere un rilievo politico all’amore del prossimo. Il rapporto sociale, mediato dalle leggi e dal diritto, deve necessariamente riferirsi sempre alla prossimità con l’altro. Solo così la carità non sarà ai margini della società, ma sarà come l’atmosfera che favorirà rapporti giusti, così come – reciprocamente – il miglioramento della grammatica sociale favorirà forme sempre nuove della relazione di aiuto e prossimità. La separazione di carità e giustizia corrompe in modo sentimentale la carità, e fa praticare una giustizia senz’anima e senza speranza. Perché essa funziona senza investimento personale. 

    Concludiamo. Ogni giorno con Pietro e come Pietro dobbiamo rispondere: Tu hai parole di vita eterna, edificando la diversità del popolo dei Dodici, assumendo la terribile possibilità del tradimento, promuovendo con cura ogni dono dello Spirito. Così realizziamo la risposta che ci fa diventare «i Dodici» per dire con verità: «Tu sei il pane vivo disceso dal cielo. Tu hai parole di vita eterna». Non solo per noi, ma per la vita del mondo!

     


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