Tre aggettivi
per un solo Amore
Commento alle Letture della domenica XXIV C
Francesco Follo
Le parabole di Gesù oltre a darci il suo insegnamento profondo e bello ci mostrano il punto di vista di Dio. E così succede nelle tre parabole di oggi, in cui Cristo parla della pecorella smarrita, della moneta perduta e del figlio prodigo, mettendo in evidenza il “cuore del Vangelo” cioè l’amore misericordioso.
La misericordia pastorale
Già nella prima parabola si vede un modo di agire non umano o, per lo meno, insensato dal punto di vista umano. In effetti, alla domanda del “Quale uomo tra voi, avendo cento pecore e perduta una di esse, non abbandona le novantanove nel deserto e (non) va verso quella perduta, finché non l'abbia trovata?” (Lc 15,4), verrebbe da rispondere: “Nessuno”, perché chi è l’uomo di buon senso che lascia le 99 pecore nel deserto e non nell’ovile, e che di notte va alla ricerca della smarrita, sfidando i pericoli del deserto?
I pericoli del deserto sono fame, sete, caldo, predoni, belve, perdita dell’orientamento soprattutto con il buio, che rende pressoché impossibile continuare la ricerca nell’oscurità della notte. Ma Cristo, buon Pastore divino è mosso da un amore umanamente insensato, ma divinamente logico e va alla ricerca.
Si può dire che continua la ricerca che Lui fa dell’uomo da quando questo si era nascosto nel paradiso terrestre fino agli inferi, ci rivela che per lui noi valiamo più di Lui, tant’è vero che poi è morto al nostro posto dando la vita per noi.
Si può dire che la nostra ricerca di Dio inizia quando Dio ha terminato la sua, trovandoci e perdonandoci e facendo festa con noi.
Nella parabola della pecora perduta e ritrovata, si annota che il pastore non interrompe la sua ricerca finché non la trova: dunque una ricerca ostinata, perseverante, per nessun motivo disposto ad abbandonare la pecora al suo destino. Allora comprendiamo che la decisione del Pastore non fu poi così insensata, fu coraggiosa e frutto di intelligenza ardita e di un cuore che ama perdutamente.
Questo mi permette di fare notare che questa parabola, come pure le due che seguono, termina parlando della gioia di Dio per il ritrovamento qui della pecora, poi della moneta e del figlio: «Così, vi dico, c'è gioia davanti agli occhi di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15,10).
Si possono ricavare due insegnamenti. Uno esplicito: agli occhi di Dio l’uomo anche e, forse, proprio perché peccatore ha un valore immenso. L’altro implicito: con la gloria recuperata di un unico peccatore “aumenta” la Gioia divina.
La misericordia materna
Analoga nella sostanza è la seconda parabola: quella della dracma[1] perduta.
Anche qui la ricerca per trovare ciò che si è smarrito è fatta in modo accurato, oggi diremmo scientifico. La padrona di casa accenda la lampada, che mette in un punto strategico, poi scopa lentamente, attentamente l’intera casa, cerca con cura[2], finché trova la moneta perduta. Trovatala, chiama le amiche e le vicine e le interpella per gioire insieme sulla “dracma perduta e ritrovata” (v.9). Se la prima parabola parla del Pastore, che nel mondo ebraico di allora indicava pure il Re, vediamo l’amore “pastorale” di chi guida, nella seconda vediamo l’amore “sollecito” della madre di famiglia che mette a soqquadro il “mondo”[3] per cercare il “tesoro” che è la ragione della sua vita: il figlio.
Una donna, una madre sa molto bene il valore di un figlio e in questa parabola vediamo che essa rappresenta Dio che, con amore infinito di padre e di madre, “si affanna” nel ricercare la preziosa moneta smarrita.
In ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate che sono chiamate ad “affannarsi” maternamente mendicando nella preghiera il perdono per i peccatori, offrendo la loro preghiera di intercessione (RCV 28) per gli smarriti soprattutto per coloro che hanno perso la fiducia nella misericordia divina, e trasferendo nei luoghi dove vivono e lavorano l’amore di Dio che sempre perdona.
La misericordia paterna
E qui subentra la terza parabola. Se per una moneta e per una pecora prima si fa festa in cielo, immagiate che festa fa Dio quando “realtà ritrovata” è un uomo: un figlio perdutosi e ritrovato.
Questo figlio, che è chiamato prodigo perché ha sperperato l’eredità paterna nei vizi, e si è ridotto all’estrema miseria e alla fame, si è “perduto”: ha smarrito la consapevolezza della bellezza della propria identità. Ha smarrito la gioiosa memoria del volto del Padre e della sua misericordia. Questa pagina del Vangelo quindi è un annuncio apportatore di gioia per noi: quando sperimentiamo di esserci "persi", affidiamoci a colui che è venuto a cercarci e confidiamo nel suo grande amore. E' questa la volontà del Padre. Noi siamo preziosi ai suoi occhi.
In questo contesto comprendiamo il senso del testo dell'Esodo (prima lettura “romana”), dove il popolo d'Israele, liberato dalla schiavitù, si dimentica spesso di Dio, tanto che costruisce l'idolo del vitello d'oro. Meriterebbe per questo il castigo, ma il Signore lo perdona per la commossa e profonda preghiera di intercessione di Mosè. Così pure l'apostolo Paolo (seconda lettura) afferma che Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, e lui si sente tanto peccatore... ma ha ottenuto misericordia.
La misericordia esprime l'onnipotenza di Dio, l'amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente: è il volto di Dio.
Accostiamoci spesso al Sacramento della Riconciliazione o Penitenza, che altro non è che attuare in noi il ritorno a casa del figlio prodigo.
L'esperienza del peccato, che è questo “perdersi”, diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci “perseguita”[4] con il suo amore misericordioso e fa festa perché ci ha ritrovati.
NOTE
[1] Una dramma era il salario giornaliero di un contadino od operaio al tempo di Gesù Cristo.
[2] In greco ἐπιμελῶς che si legge epimelòs e che significa “diligentemente, attentamente, accuratamente”.
[3] Guardata con gli occhi di Dio la Terra è una casa neppure tanto grande in rapporto all’Universo intero.
[4] Dal verbo “perseguire” dal latino PERSEQUI composto dalla particella intensiva “PER” e “SEQUI” = seguire, dunque tener dietro con costanza e ardore. Significato derivato “perseguitare”, “persecuzione”.