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    Il Triduo pasquale,
     
    fulcro dell'intero
     
    anno liturgico
     
    Benedetto XVI
     24_lavanda_dei_piedi


    Stiamo vivendo i giorni santi che ci invitano a meditare gli eventi centrali della nostra Redenzione, il nucleo essenziale della nostra fede. Domani inizia il Triduo pasquale, fulcro dell'intero anno liturgico, nel quale siamo chiamati al silenzio e alla preghiera per contemplare il mistero della Passione, Morte e Risurrezione del Signore.
    Nelle omelie i Padri fanno spesso riferimento a questi giorni che, come osserva Sant’Atanasio in una delle sue Lettere Pasquali, ci introducono «in quel tempo che ci fa conoscere un nuovo inizio, il giorno della Santa Pasqua, nella quale il Signore si è immolato» (Lett. 5,1-2: PG 26, 1379).
    Vi esorto pertanto a vivere intensamente questi giorni affinché orientino decisamente la vita di ciascuno all'adesione generosa e convinta a Cristo, morto e risorto per noi.
    La Santa Messa Crismale, preludio mattutino del Giovedì Santo, vedrà domani mattina riuniti i presbiteri con il proprio Vescovo. Nel corso di una significativa celebrazione eucaristica, che ha luogo solitamente nelle Cattedrali diocesane, verranno benedetti l’olio degli infermi, dei catecumeni e il Crisma. Inoltre, il Vescovo e i Presbiteri, rinnoveranno le promesse sacerdotali pronunciate il giorno dell’Ordinazione. Tale gesto assume quest’anno, un rilievo tutto speciale, perché collocato nell’ambito dell’Anno Sacerdotale, che ho indetto per commemorare il 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars. A tutti i Sacerdoti vorrei ripetere l’auspicio che formulavo a conclusione della Lettera di indizione: «Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare da Cristo e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace!».
    Domani pomeriggio celebreremo il momento istitutivo dell’Eucaristia. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinti, confermava i primi cristiani nella verità del mistero eucaristico, comunicando loro quanto egli stesso aveva appreso: «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me» (1Cor 11,23-25). Queste parole manifestano con chiarezza l’intenzione di Cristo: sotto le specie del pane e del vino, Egli si rende presente in modo reale col suo corpo donato e col suo sangue versato quale sacrificio della Nuova Alleanza. Al tempo stesso, Egli costituisce gli Apostoli e i loro successori ministri di questo sacramento, che consegna alla sua Chiesa come prova suprema del suo amore.
    Con suggestivo rito, ricorderemo, inoltre, il gesto di Gesù che lava i piedi agli Apostoli (cfr Gv 13,1-25). Tale atto diviene per l’evangelista la rappresentazione di tutta la vita di Gesù e rivela il suo amore sino alla fine, un amore infinito, capace di abilitare l’uomo alla comunione con Dio e di renderlo libero. Al termine della liturgia del Giovedì santo, la Chiesa ripone il Santissimo Sacramento in un luogo appositamente preparato, che sta a rappresentare la solitudine del Getsemani e l’angoscia mortale di Gesù. Davanti all’Eucarestia, i fedeli contemplano Gesù nell’ora della sua solitudine e pregano affinché cessino tutte le solitudini del mondo. Questo cammino liturgico è, altresì, invito a cercare l’incontro intimo col Signore nella preghiera, a riconoscere Gesù fra coloro che sono soli, a vegliare con lui e a saperlo proclamare luce della propria vita.
    Il Venerdì Santo faremo memoria della passione e della morte del Signore. Gesù ha voluto offrire la sua vita in sacrificio per la remissione dei peccati dell’umanità, scegliendo a tal fine la morte più crudele ed umiliante: la crocifissione. Esiste una inscindibile connessione fra l’Ultima Cena e la morte di Gesù. Nella prima Gesù dona il suo Corpo e il suo Sangue, ossia la sua esistenza terrena, se stesso, anticipando la sua morte e trasformandola in un atto di amore. Così la morte che, per sua natura, è la fine, la distruzione di ogni relazione, viene da lui resa atto di comunicazione di sé, strumento di salvezza e proclamazione della vittoria dell’amore. In tal modo, Gesù diventa la chiave per comprendere l’Ultima Cena che è anticipazione della trasformazione della morte violenta in sacrificio volontario, in atto di amore che redime e salva il mondo.
    Il Sabato Santo è caratterizzato da un grande silenzio. Le Chiese sono spoglie e non sono previste particolari liturgie. In questo tempo di attesa e di speranza, i credenti sono invitati alla preghiera, alla riflessione, alla conversione, anche attraverso il sacramento della riconciliazione, per poter partecipare, intimamente rinnovati, alla celebrazione della Pasqua.
    Nella notte del Sabato Santo, durante la solenne Veglia Pasquale, "madre di tutte le veglie", tale silenzio sarà rotto dal canto dell’Alleluia, che annuncia la resurrezione di Cristo e proclama la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte. La Chiesa gioirà nell’incontro con il suo Signore, entrando nel giorno della Pasqua che il Signore inaugura risorgendo dai morti.
    Cari Fratelli e Sorelle, disponiamoci a vivere intensamente questo Triduo Santo, per essere sempre più profondamente inseriti nel Mistero di Cristo, morto e risorto per noi. Ci accompagni in questo itinerario spirituale la Vergine Santissima. Lei che seguì Gesù nella sua passione e fu presente sotto la Croce, ci introduca nel mistero pasquale, perché possiamo sperimentare la letizia e la pace del Risorto.

    * * * * * * *

     

    Stola e grembiule

    Tonino Bello

    Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
    Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
    Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.
    Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
    Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento!

    Un grembiule ritagliato dalla stola

    La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile.
    C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”.

    Si alzò da tavola

    Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo ricevuto.
    Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice, che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si isterilisce.
    Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un sacramento incompiuto. La spinta all’azione è così radicata nella sua natura, che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima sacrilega, come quella di Giuda: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”.
    Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono dall’eucarestia. Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.
    Per i presbiteri ogni impegno vitale, ogni battaglia per la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera, insomma.
    Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà.

    Depose le vesti

    Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.
    Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.
    Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.
    Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.
    Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.
    Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.
    Non possiamo amoreggiare col potere. Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente. Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare. Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. Che la nostra parola fa vincere un concorso. Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di Cristo.
    In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire “clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri.

    Si cinse un asciugatoio

    Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe poso scattate in momenti di abbandono.
    La Chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’”hit parade” delle preferenze, il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca.

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