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    Nascere e ri-nascere

    Il battesimo dei bambini
    e l’accoglienza della vita

    Andrea Bozzolo

    battesimobambini

     

    1. Il problema: venire al mondo e venire a Dio

    La tradizione teologica moderna ha pensato il rapporto che sussiste tra l’esperienza della nascita di una nuova vita e la grazia del battesimo in termini piuttosto estrinseci. Orientava in questa direzione anzitutto la tendenza del pensiero colto, documentata da molte pagine della letteratura filosofica e teologica, a considerare l’atto della trasmissione della vita come un fatto ovvio e trasparente che, proprio perché connaturale alla condizione umana, non solleva particolari interrogativi per il sapere. La nascita dei figli appariva agli occhi del sapere riflesso dei secoli passati come una realtà immediatamente apprezzabile e per questo quasi spontaneamente perseguita, nella prospettiva delle esigenze intrinseche alla propagazione della specie e nella logica dei beni propri del matrimonio (il bonum prolis).[1]

    Un tale approccio al fenomeno della generazione, che può essere qualificato come “naturalistico” perché riconduce la comprensione di questo accadimento a ciò che è proprio della “natura” umana, appare all’uomo contemporaneo sotto vari aspetti deficitario.[2]

    Esso infatti trascura di porre in risalto che l’esperienza più comune a ogni uomo – quella appunto di esser stato generato – ha in realtà nella vicenda irripetibile di ogni soggetto un rilievo assolutamente determinante, perché costituisce l’elemento che più di ogni altro contribuisce al costituirsi dell’identità personale.

    Ciò che l’approccio naturalistico trascura di considerare, in altre parole, è la complessità esistenziale del fenomeno della trasmissione della vita, gli interrogativi che esso pone alla coscienza, le paure che suscita, le speranze che vi sono connesse: dimensioni che, quand’anche non giungano a essere formulate a parole – e di fatto raramente trovano le parole giuste per essere espresse –, risuonano però da sempre nel profondo della coscienza umana. L’esperienza di aver ricevuto la vita ha infatti un ruolo decisivo nella costituzione della propria identità irripetibile e della propria appartenenza a un mondo comune e, come tale, esige certamente di essere interpretata in una forma assai più elaborata di quanto la tradizione filosofica e teologica dei secoli scorsi ha provveduto a fare. Lo impone, se non altro, il fatto stesso che oggi la generazione non sia più semplicemente “ovvia”, ma anzi sia addirittura diventata problematica: nelle sue forme, esposte alla manipolazione della tecnica, e ancor più nei suoi significati, minacciati da gravi distorsioni.

    Per altro verso, orientava nella stessa direzione di disgiungere l’esperienza antropologica della nascita da quella teologale del battesimo un modo di rappresentare la grazia di questo sacramento che s’inquadrava nell’antropologia del duplex ordo, ovvero in quella prospettiva teologica che afferma l’esistenza di un ordine creaturale naturale completo in sé al quale si aggiunge come dall’esterno un ordine salvifico superiore, sicché l’uomo risulterebbe costituito dalla somma di naturalia (realtà naturali) e gratuita (realtà eccedenti la pura creaturalità). L’orientamento espresso da tale linea di pensiero emergeva nitidamente nel titolo stesso del trattato manualistico De Deo creante et elevante, in cui i due momenti della creazione e dell’elevazione soprannaturale si trovavano di fatto a essere semplicemente accostati e giustapposti, con la conseguenza che il dono della grazia cristologica finiva per ridursi a una modificazione accidentale sovrapposta alla struttura essenziale dell’uomo, pensato senza riferimento costitutivo a Gesù di Nazareth. Evidentemente, in questa prospettiva, il nascere – considerato come un accadimento da inscrivere nell’ordine del naturale – non aveva molto da dire per la comprensione del dono offerto con il battesimo; più precisamente non poteva avere qualcosa da dire, in quanto la grazia offerta con il battesimo è esattamente la vita soprannaturale, ossia ciò che per definizione eccede la natura. Il cammino dell’antropologia teologica del Novecento e le stesse indicazioni autorevoli del magistero hanno ormai ampiamente mostrato i limiti di questo approccio, che finisce per condurre all’estrinsecimo della gratia Christi alla creazione, e hanno permesso di riguadagnare la prospettiva biblica che già a partire dall’Antico Testamento presenta sempre la creazione entro l’orizzonte dell’alleanza e nel Nuovo Testamento giunge all’esplicita attestazione dell’universale predestinazione in Cristo: tutto è stato creato per mezzo di lui ed egli è il primogenito di ogni creatura (1Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,2-3).

    Approccio naturalistico all’esperienza della nascita e teologia soprannaturalistica della grazia del battesimo procedevano dunque di pari passo, alimentando una reciproca estraneità, che però la pratica effettiva provvedeva in buona misura a ridimensionare. La tempestività con cui il battesimo veniva amministrato ai neonati – di là dalle motivazioni di volta in volta addotte a sostegno di tale prassi – manteneva di fatto nell’esperienza concreta dei credenti la nascita e il sacramento della fede assai più uniti di quanto non lo fossero nel ragionamento speculativo della teologia. Certo i difetti dell’elaborazione critica del rapporto tra i due momenti faceva sì che ciò avvenisse in forme non sempre ineccepibili quanto all’immaginario che mettevano in gioco e alle forme concrete cui davano corso. Si pensi ad esempio ad alcuni modelli discutibili, o anche francamente distorti, di intendere la situazione salvifica del bambino non ancora battezzato[3] o a certe interpretazioni della benedizione della madre post partum [4].

    Ma in ogni caso la modalità concreta con cui i credenti sperimentavano l’accoglienza della vita nascente era immediatamente illuminata dalla configurazione simbolica e dalla pratica rituale del battesimo cristiano.

    Il nodo su cui, d’altra parte, questo intreccio tra nascita e battesimo porta l’attenzione, è di notevole rilievo teologico e di indubbio radicamento scritturistico. Lo documentano i diversi testi del Nuovo Testamento che prospettano l’adesione di fede a Gesù Cristo come l’ingresso nella vera vita, ossia come la vera nascita. Si pensi anzitutto alle esortazioni che la Prima lettera di Pietro rivolge ai credenti, ricordando loro che sono stati «rigenerati» (1,3.23) e pertanto «come bambini appena nati» devono desiderare «il genuino latte spirituale» (2,2). Ma ancor più si richiami la poderosa elaborazione che il tema della «ri-nascita» o della «nascita dall’alto», «dallo Spirito», «da Dio» ha nella letteratura giovannea.[5] Vi è dunque, nella prospettiva biblica, un misterioso legame che collega l’esperienza del “venire al mondo” e quella del “venire a Dio”. Se il Nuovo Testamento per parlare del battesimo e dell’accesso alla fede cristiana ricorre al vocabolario della nascita, ciò significa che tra il nascere che inizia alla vita e il battesimo che inizia alla fede esiste un legame che la teologia è chiamata a mettere in luce e ad approfondire. E se, d’altra parte, la novità dell’evento battesimale è così profonda da dover essere pensata come una seconda nascita o una ri-generazione, ciò significa che le potenze della carne e del sangue non bastano da sole per introdurre l’uomo a quella vita per cui è nato.[6]

    Quanto abbiamo fin qui esposto intercetta certamente una vasta serie di temi teologici e apre numerose piste di riflessione e di ricerca. Molti di questi temi sono francamente complessi e su alcuni di essi la lingua cristiana corrente fatica a trovare il giusto registro espressivo.[7]

    Di tutta questa fitta trama di argomenti, noi qui ci limitiamo a prendere in considerazione l’aspetto che corrisponde all’orientamento di questo numero di «Rivista Liturgica», per mettere a fuoco il modo in cui il battesimo dei bambini illumini l’esperienza della nascita e dunque costituisca la prima e fondamentale configurazione dell’atteggiamento cristiano nei confronti della vita nascente.[8]

    A scanso di equivoci, chiariamo subito che ovviamente non intendiamo caratterizzare il battesimo unilateralmente o primariamente come sacramento degli infanti, né intenderlo come una sorta di festa della nascita, né isolarlo dall’insieme dell’iniziazione cristiana. Vogliamo però mettere a fuoco la particolare connotazione che viene ad avere la partecipazione al mistero pasquale di Gesù, celebrato da tutta l’economia sacramentale, quando si realizza a fronte di quel momento nodale dell’esistenza che è la nascita.

    Procederemo pertanto in tre passaggi, dedicati rispettivamente a mettere in risalto la profondità antropologica del “nascere”, come apertura sul mistero dell’origine di tutte le cose e iniziazione radicale all’affidamento; a mostrare come Gesù, il Figlio di Dio nato da donna, illumini il senso ultimo del vivere come coinvolgimento nel suo eterno essere generato dal Padre; a prospettare il battesimo dei bambini come luogo paradigmatico in cui i genitori cristiani possono imparare ad accogliere il dono e assumere il compito della vita nascente, relativizzandosi a colui che ne è l’origine.

     

    2. L’esperienza antropologica: la nascita e l’affidamento

    L’esperienza della nascita è indubbiamente uno dei luoghi più importanti di comprensione dell’umano. Esso attesta con particolare chiarezza la radicale dipendenza che caratterizza il sorgere di ogni nuova vita. Ogni uomo, infatti, fa il proprio ingresso nella scena di questo mondo non nella condizione di un essere autonomo e autosufficiente, ma in una situazione di totale precarietà e di assoluto bisogno, così che il suo stesso sopravvivere è totalmente nelle mani di altri. Tale dipendenza si realizza anzitutto sul piano biologico, poiché la vita prende forma entro il corpo di un’altra persona, partecipando totalmente delle sue funzioni vitali. Ma si realizza ancora più profondamente sul piano esistenziale della libertà e del suo orientamento, dato che nessuno ha mai potuto decidere di iniziare a esistere, ma è stato chiamato alla vita da altri e con ciò coinvolto nella loro storia, nel loro mondo, nel loro linguaggio, nella loro visione della realtà. L’inizio stesso dell’esistenza, dunque, non è mai semplicemente un punto zero o una pagina bianca; ogni vita prende il proprio avvio da dove altri sono giunti, muove da una situazione già trovata e non scelta, porta in sé la memoria misteriosa della trama di altre vite umane.

    Proprio per questo ogni uomo è costitutivamente «figlio» e permane per sempre nella condizione di un essere «generato». Non a caso la parola ebraica ben (figlio) – con oltre cinquemila ricorrenze – è «il sostantivo di gran lunga più attestato nell’Antico Testamento».[9]

    Quando la Bibbia parla dell’uomo, lo chiama abitualmente «figlio dell’uomo» o anche, seppur meno frequentemente, «nato da donna». Già solo questa ricorrenza, di là da ulteriori rilievi, attesta la presenza nei testi sacri di una precisa antropologia che l’analisi dettagliata di molte pagine potrebbe confermare: la prima verità dell’essere umano è che egli deriva da chi lo precede, dipende dai propri genitori e ultimamente dall’umanità nel suo complesso. E ciò indica che prima di dover essere pensato, come ha fatto l’antropologia moderna, come un “soggetto autonomo”, deve essere compreso come un “soggetto affidato” alla cura di altri.

    Nascere dunque significa essere portato alla vita da altri ed essere consegnato alla loro cura. Significa iniziare a esistere come eredi della ricchezza altrui e debitori della propria vita. Significa apparire entro un legame e grazie ad esso. Lo stesso travaglio del parto che conduce alla separazione del bimbo dal corpo della madre, se da un lato è l’accadimento traumatico che sembra spezzare un’unità originaria, più in profondità è il passaggio necessario che istituisce quell’alterità effettiva entro cui il legame potrà essere veramente ricevuto come dono per la libertà e onorato come suo compito.

    Proprio per questa forma radicale di coinvolgimento in un legame in cui ne va della vita, l’evento del nascere e la costellazione di esperienze che vi sono connesse si impone da sempre nella coscienza umana come uno dei luoghi privilegiati dell’apertura al sacro. Nello stupore dei genitori, e degli adulti in genere, di fronte a una nuova creatura si manifesta la percezione misteriosa di un volto arcano della vita, che troppo spesso risulta coperto dall’apparente banalità ripetitiva del quotidiano. In questo senso, la nascita “interrompe” veramente il tempo monotono dell’agire dell’uomo per mettere di fronte all’apparire di qualcosa che non può essere ricondotto semplicemente a “opera” o “prodotto” dell’uomo e rivela l’esistenza di una fecondità che appartiene a un altro ordine rispetto a quello dell’efficienza.

    La Scrittura inquadra questo tema associando l’esperienza della fecondità e della nascita all’idea dell’originaria benedizione divina sulla prima coppia. Le parole del libro della Genesi: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28), ben prima che esprimere un comando divino, rappresentano infatti una benedizione originaria sull’uomo e sulla donna, che neppure l’esperienza del peccato potrà cancellare.

    La vita potrà continuamente essere trasmessa perché colui che ne è l’autore ha benedetto per sempre il gesto della sua generazione. Di qui il rilievo che viene ad avere nel testo biblico la presenza delle genealogie, con cui il trasmettersi della benedizione divina sulla vita viene presentata come infrastruttura portante della storia.[10]

    Dal punto di vista del bambino, questo tema fa emergere il legame tra la percezione della filialità nei confronti dei genitori e il riconoscimento della creaturalità nei confronti di Dio. L’inizio fragile e promettente della vita s’impone come il simbolo cui guardare per poter decifrare il grande mistero dell’“origine” trascendente del proprio esistere. Fioriscono così le splendide confessioni di fede che troviamo nei salmi: «Sei tu che […] mi hai tessuto nel seno di mia madre» (Sal 39[38],3); «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno» (Sal 71[70],6). 

    Esse orientano a leggere l’evento della nascita come espressione di un vincolo originario che, prima ancora di essere quello contratto con i genitori, è quello gratuitamente offerto da colui che della vita è l’artefice e la sorgente. Sotto questo profilo, la nascita è veramente iniziazione del bambino ad affidarsi a chi viene prima di lui e fonda la sua esistenza: immediatamente i genitori, ultimamente Dio. Dal punto di vista dei genitori, e in particolare della madre, la benedizione originaria della fecondità è invece prospettata come una sorta di iniziazione alla preghiera. La prima genealogia della Genesi, quella del capitolo quarto, che si ricollega intenzionalmente con la benedizione sulla prima coppia, si conclude con l’affermazione lapidaria: «Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. A quel tempo si cominciò a invocare il nome del Signore» (Gn 4,26). Ma già l’inizio del capitolo, facendo risuonare il grido della prima puerpera: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore» (Gn 4,1), lasciava intravvedere uno stretto legame tra esperienza del parto e invocazione del nome di Dio. Commenta un autore: «Comunque voglia intendersi la spiegazione di questo nome [Caino], passibile di diverse accezioni e sfumature interpretative […], un’intensa lode narrativa (che appunto reagisce a un’iniziativa divina) celebra qui l’evento del primo nato come rivelazione divina degna di viva corrispondenza. Tutta al femminile, la prima preghiera della storia salvifica suona come giubilo semplice e magnifico per la prima vita umana riprodotta. Felice la reciprocità di fecondità generativa e spirituale: il primogenito neonato, iniziato al mistero della vita, insegna alla propria madre l’invocazione del nome divino (maternità come mistagogia)».[11] .

    Nell’esperienza della nascita, dunque, tanto il figlio che la madre sono iniziati a una condizione di affidamento: la dipendenza connessa alla condizione umana e al mistero della sua “origine”, da parte del figlio, e la preghiera che deriva dalla percezione del carattere arcano della fecondità, da parte della madre. Ciò spiega perché la realizzazione matura di tale affidamento, che è la relazione orante con Dio, potrà essere espressa con l’immagine della quiete profonda di un «bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131[130],2); e, viceversa, perché il momento della sofferenza e della tribolazione, in cui la fede viene messa alla prova, prenderà la forma della domanda angosciata sul perché del proprio venire al mondo e addirittura della maledizione del giorno della nascita. Sono le espressioni che troviamo sulle labbra di Giobbe: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “è stato concepito un maschio!”. Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce» (Gb 3,3-4), o negli sfoghi accorati di Geremia: «Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto. Maledetto l’uomo che portò a mio padre il lieto annuncio: “Ti è nato un figlio maschio”, e lo colmò di gioia» (Ger 20,14.15). Tutto ciò è segno evidente che il senso del nascere è veramente appeso alla possibilità reale di potersi affidare a delle mani che sostengano la vita. Senza quelle mani, la nascita diviene addirittura una maledizione. Senza che sia rivelato il volto amorevole di Dio, l’inizio terreno dell’esistenza rimane un enigma da decifrare.

     

    3. L’evento cristologico: la fede e la nascita da Dio

    Alla luce di quanto abbiamo finora sommariamente esposto a proposito della complessità dell’esperienza antropologica del nascere, emerge in modo più limpido la forza delle affermazioni con cui Paolo sintetizza il significato dell’evento cristologico, raccogliendolo intorno ai temi della nascita e della figliolanza: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”. Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (Gal 4,5-7).

    In questa mirabile sintesi, Paolo annuncia che l’iniziativa con cui Dio si comunica agli uomini, liberandoli dalla schiavitù della legge, si compie attraverso la nascita di un bambino, perché colui che eternamente e da sempre è suo Figlio assume radicalmente su di sé la trama della vicenda umana fin dal suo inizio in un grembo materno. E ciò è davvero paradossale: l’evento più sorprendente della storia si realizza nella forma più comune all’esperienza degli uomini, com’è quella di esser generati; il dono della vita trinitaria, che eccede sotto ogni profilo il limite delle possibilità umane, avviene coinvolgendo una mediazione intima agli affetti terreni come la maternità; la redenzione del nostro spirito dalle molteplici forme della sua servitù si avvera quando il Figlio viene nella nostra carne.

    Ma il paradosso accresce ulteriormente se si tiene conto che la nascita di quel bambino consente agli uomini di ricevere a propria volta l’adozione a figli, ovvero di trovare nella comunione più intensa possibile con il Padre il traguardo ultimo che giustifica la loro chiamata alla vita. Nella nascita del Figlio di Dio fatto uomo, dunque, il senso del nascere umano definitivamente si chiarisce: l’uomo nasce per ricevere da Dio la grazia di partecipare alla stessa figliolanza di Gesù.[12]

    Per questo, se è vero che ogni bambino che nasce introduce nella storia una novità, genera attese e suscita speranze, nel caso della nascita di questo bambino è l’“origine” stessa di ogni vita e di ogni speranza che viene a mostrarsi tra noi e a salvarci dal male. Come afferma la lettera agli Ebrei: 

    «Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine [il Padre]; per questo [il Figlio] non si vergogna di chiamarli fratelli» (Eb 2,10-11). 

    Il Padre che è la fonte e l’origine di tutta la vita trinitaria si comunica all’uomo non solo come creatore, ma con quel livello di condivisione intima di tutto il suo essere che è offerto al Figlio e che fa di noi incredibilmente i suoi fratelli. Questa partecipazione della figliolanza divina, d’altra parte, è il significato complessivo di tutta la vicenda terrena di Gesù e in modo particolare del mistero pasquale in cui essa trova il suo culmine. Come afferma ancora la lettera agli Ebrei: 

    «Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14-15). 

    Gesù porta fino alle estreme conseguenze la sua solidarietà con la condizione umana perché coloro che sono nati sotto la schiavitù della morte possano diventare solidali con la sua condizione filiale di Risorto. In questo senso il mistero pasquale è in sé mistero di nascita dei figli di Dio, ovvero mistero con cui il Figlio partecipa pienamente agli uomini la propria filialità. Meditando su questo tema, il grande teologo H.U. von Balthasar afferma: 

    «Gesù soffre in quanto Figlio. Sul monte degli Olivi si ode per la prima volta nella sua preghiera personale la parola di figlio “Abbà”, papà (Mc 14,36). Anche se il Padre ora non può più rispondere, tutto il dolore, sino al grido per l’abbandono sulla croce, viene vissuto nello spirito di filiazione. Dopo essere stato condotto attraverso tutti gli orrori del sabato santo – come un bimbo smarrito in una terribile foresta vergine – il Figlio può annunciare trionfalmente il giorno di Pasqua: “… salgo al Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17), poiché ha ottenuto che i suoi divenissero figli insieme con lui, “risuscitati” e “fatti sedere nei cieli” (Ef 2,6)».[13]. 

    La missione che il Padre gli ha dato, quella di farci rinascere da Spirito come figli di Dio, attraverso la morte e la risurrezione è portata a compimento. Quando il Padre lo innalza nella gloria della risurrezione, presentandolo definitivamente al mondo come il Figlio glorioso, anche noi siamo pienamente generati in lui come figli adottivi.[14]

    Si comprende allora la ricchezza dell’affermazione paolina nella lettera ai Galati, quando pone sulle labbra dei credenti l’invocazione che il vangelo fa risuonare sulle labbra di Gesù: «Abbà! Padre!». I battezzati esprimono con questa preghiera, suscitata in loro dallo Spirito, la loro reale partecipazione alla figliolanza di Gesù. Se il Figlio è nato tra noi per coinvolgerci nella sua eterna nascita dal seno del Padre, si può ben affermare che «chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio» (1Gv 5,1). L’accoglienza di Gesù e la fede in lui è dunque per il Nuovo Testamento l’autentica nascita alla vita, quella nascita dall’alto che Gesù propone a Nicodemo e che rende possibile a coloro che credono in lui: «A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).[15].

     

    4. Il battesimo dei bambini e l’accoglienza della vita

    Le riflessioni che finora abbiamo svolto ci hanno mostrato come la nascita di una nuova vita sia un evento che porta in sé una densità di significati che eccedono di molto il semplice livello biologico.

    Proprio per questo, come afferma la Scrittura, nascere «secondo la carne» non basta: occorre anche nascere a una lingua, che non a caso sarà detta «lingua materna», a una cultura, a un mondo di relazioni che segneranno a fondo la propria identità. Occorre in altre parole nascere al senso della vita. Ma perché ciò sia possibile è necessario confrontarsi con le domande più profonde che attraversano la coscienza umana, quelle che riguardano la propria origine e il proprio destino. La vita, infatti, si presenta come una benedizione solo se è sostenuta da una speranza che consenta di guardare al futuro come una pienezza desiderabile, un compimento possibile, una sorta di terra promessa da raggiungere.

    Non è dunque un caso se l’atteggiamento che i genitori hanno di fronte alla vita dei loro bambini assume così spesso e così in profondità i tratti della speranza. Per i loro figli, infatti, gli adulti in molti modi si danno da fare, si impegnano, progettano, ma poi soprattutto “sperano”: sperano che crescano bene, che abbiano la salute, che studino, che trovino un buon lavoro, che incontrino la persona giusta per formare una famiglia. In questo modo essi riconoscono implicitamente di non poter procurare con le proprie forze ciò che pure a ogni costo vorrebbero dare: una vita felice. Ma ancor più riconoscono che, senza la speranza di un compimento, la vita stessa non sarebbe possibile. E così emerge, tra le pieghe delle molteplici speranze quotidiane, il bisogno di una speranza più profonda, una speranza che possa sostenere fino in fondo il cammino della vita, una speranza che ultimamente si riveli capace di resistere alla minaccia della morte, perché più forte perfino di essa.

    Tale speranza per il cristiano non è puramente un auspicio, ma qualcosa di reale, fondato sull’evento della risurrezione di Cristo, grazie a cui il credente può fin da ora avere la «vita eterna», cioè la partecipazione alla pienezza divina dell’essere e dell’amore. La luce del mistero pasquale, infatti, illumina l’ingresso nella vita offrendo all’uomo la speranza capace di sostenere radicalmente il suo cammino e di dissipare le ombre dell’angoscia di fronte al nulla. Come richiama Benedetto XVI nella sua seconda enciclica, con il cristianesimo viene superato il fatalismo che faceva dire a un antico epitaffio: «In nihil ab nihilo quam cito recidimus» («Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo») e si apre la possibilità di una vita che, proprio perché «salvata nella speranza», è una vita nuova.[16] . Tutto ciò concretamente si realizza nel gesto con cui i genitori “immergono” la nascita dei loro figli nel mistero pasquale del Signore, ossia con il gesto del battesimo, perché si aprano alla grazia di poter partecipare alla figliolanza divina di Gesù e vivano come uomini nati dallo Spirito.

    Con il battesimo dei bambini, il cristianesimo configura in profondità gli atteggiamenti con cui i genitori sono chiamati ad accogliere la vita. Di fronte alla nascita dei figli essi sono chiamati anzitutto a percepire la ricchezza e la profondità del dono della vita che, se li ha visti coinvolti nell’atto della generazione, li trascende però inevitabilmente. I genitori, infatti, sono il luogo dell’inizio della vita, ma non ne sono la prima e radicale “origine”. E quando essi portano i loro figli al fonte battesimale riconoscono colui che è la «sorgente» di ogni fecondità e il «principio» senza principio, il Padre e il Creatore di ogni vita.

    E la professione di questa verità, se correttamente assunta, ha anche una forte valenza formativa per la coscienza del padre e della madre, perché conduce a correggere alla radice le ambiguità che sempre insidiano il rapporto genitoriale, come l’aspirazione ad avere il figlio perfetto o la tendenza a proiettare sui figli i propri desideri, o ancora un atteggiamento possessivo che mortifica in vari modi la libertà. Riconoscere con il battesimo che i figli vengono da Dio e sono dono suo significa accettare realmente e con gratitudine la loro originalità, accettare che saranno diversi da come si sono sognati, accettare il cammino della loro libertà, di cui solo Dio conosce fino in fondo il mistero e la vocazione.

    Insieme a questo atteggiamento profondo di accoglienza, il pedobattesimo conduce poi i genitori ad assumere coerentemente le proprie responsabilità nei confronti del figlio, non solo sul piano della cura quotidiana del suo crescere, ma sul piano più profondo della testimonianza autorevole del vero e del bene, responsabilità che proprio nell’azione liturgica sono chiaramente identificate come un compito di rappresentanza e di anticipazione. Scriveva a questo riguardo, alcuni anni fa, il teologo J. Ratzinger: «I parenti e gli amici non portano sulle braccia soltanto l’esistenza biologica del bambino, ma anche quella spirituale. La sua vita spirituale si sviluppa nell’esistenza spirituale dei genitori e dei maestri.

    In un processo di nascita molto più lento di quello biologico, l’esistenza spirituale del bambino cresce nel grembo del pensiero e della volontà dei genitori, per emergere a poco a poco attingendo il livello personale. L’io del bambino è messo al riparo dall’io dei genitori; la rappresentanza non è una costruzione teologica, ma il destino fondamentale dell’uomo. Questo ruolo rappresentativo, che si fonda sull’influenza, determinante per la vita, dell’amore, o del fallimento, dei genitori è per sua natura un’anticipazione, l’avvio preventivo del cammino personale».[17] Si spiega così il motivo per cui i genitori con la scelta battesimale possono e devono rispondere in nome del proprio figlio e assumere per lui l’impegno del discepolato di Gesù, che naturalmente egli dovrà poi ratificare con la propria libera assunzione personale. Non si tratta affatto, come spesso induce a credere la cultura postmoderna del soggettivismo e del relativismo, di una prevaricazione nei confronti dell’autonomia del bambino, ma si tratta invece del debito che i genitori hanno nei confronti della sua libertà, il debito di rispondere del perché lo hanno generato, realizzando così anche sul piano della trasmissione del patrimonio umano e spirituale ciò che hanno compiuto sul piano della trasmissione genetica e biologica dell’identità. L’impegno di onorare questo debito mostra quanto profondamente attraverso il gesto liturgico del sacramento la vita nascente sia accolta e stimata, con l’inserirla nel contesto esistenziale che consente la sua piena realizzazione. Il richiamo al contesto esistenziale apre così la prospettiva dall’ambiente familiare a quello più ampio della comunità cristiana locale e della Chiesa intera. L’ambito della teologia del battesimo è da sempre uno dei luoghi privilegiati in cui la missione della Chiesa viene caratterizzata con i tratti della maternità, in uno stretto rapporto tipologico con il concepimento di Cristo nel grembo di Maria. Tra i tanti testi patristici che svolgono il tema della generazione in riferimento a Maria e alla Chiesa possiamo riportare questo breve passo di Agostino: 

    «Maria ha partorito il vostro capo, la Chiesa ha partorito voi. Anche la Chiesa è madre e vergine: madre per le viscere di carità, vergine per l’integrità della fede e della pietà. Partorisce popoli, ma sono membra di uno solo, di cui essa è corpo e sposa. Anche in questo è paragonabile alla Vergine, perché, pur partorendone molti, è madre di unità».[18]. 

    Sulla stessa lunghezza d’onda, la tradizione liturgica ha sempre custodito il rapporto esistente tra il parto verginale di Maria e la maternità della Chiesa nelle acque del battesimo. Così il prefazio della notte pasquale del Sacramentario Gelasiano cantava: 

    «O mistici e venerandi scambi di questa notte! O pii benefici eterni della santa madre Chiesa! (…) Esultò Maria nel sacratissimo (tipo di) parto, esulta la Chiesa in questa generazione dei suoi figli».[19] 

    E anche oggi la preghiera di benedizione di un fonte battesimale recita: 

    «Dio... ci doni la gioia di inaugurare con solenne rito questo fonte di salvezza che scaturisce dal grembo della Chiesa madre (...). Manda, o Padre, su queste acque lo Spirito Santo, che adombrò la Vergine Maria, perché desse alla luce il Primogenito; il tuo soffio creatore fecondi il grembo della Chiesa, sposa del Cristo, perché generi a te una nuova progenie di candidati alla patria celeste».[20]. 

    La maternità della Chiesa appare così come la testimonianza che essa rende, nella potenza dello Spirito, alla verità del vangelo. Essa culmina nel gesto sacramentale perché in esso, per la potenza dello Spirito, gli uomini sono resi partecipi della Pasqua di Gesù e così, liberi dalla catena di ambiguità con cui i figli di Adamo si trasmettono la vita e il suo significato, possono porsi al seguito del nuovo Adamo e camminare fin dall’inizio dell’esistenza sulla via della vera libertà.

    Nell’economia sacramentale del battesimo cristiano, dunque, la trasmissione della vita è assunta e interpretata secondo l’originario progetto di Dio che Gesù ci ha rivelato. La nascita di un bambino diventa il luogo in cui fare grata memoria della nascita tra noi del Figlio di Dio e professare quella fede nella sua risurrezione che fa veramente nascere dallo Spirito. Ciò che la risurrezione di Gesù ha inaugurato per tutta la storia, il battesimo dei bambini lo offre all’inizio di ogni nuova vita. Così il venire alla luce di una nuova creatura si realizza realmente nella luce pasquale del Risorto, che ci rende figli di Dio, e anche in questo senso mirabile si compiono le antiche parole del salmo: «È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36[35],10). 

    96/2 (2009) Rivista Liturgica 187-202 



    [1] L’assenza di una voce dedicata al tema della nascita nel celebre Dictionnaire de théologie catholique (Librairie Letouzey et Ané, Paris 1903-1950) rispecchia la disattenzione della riflessione teologica moderna a riguardo di questo argomento, accostato per lo più solo sotto il profilo morale della regolazione delle nascite o dell’urgenza del battesimo.

    [2] Per una più compiuta caratterizzazione dell’approccio culturale qui sommariamente richiamato, rimandiamo alle acute analisi che si trovano in G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e pensiero, Milano 1991, in particolare al cap. II.

    [3] In alcuni casi, com’è noto, vi era un’enfasi unilaterale sul peso che grava su  ogni uomo a causa del peccato originale, a scapito di una visione soteriologica più  equilibrata. Una nuova impostazione di questo tema, più attenta a far interagire i  diversi elementi teologici in gioco (volontà salvifica universale di Dio, unicità della  mediazione di Cristo, necessità del battesimo per la salvezza, azione universale della  grazia in rapporto ai sacramenti, legame tra peccato originale e privazione della  visione beatifica, creazione in Cristo) viene recepita dal recente documento della  Commissione teologica internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo (19 aprile 2007), LEV, Città del Vaticano 2007.

    [4] Ci riferiamo più precisamente alla mentalità che interpretava la Benedictio  mulieris post partum presente nel Rituale Romanum tridentino prevalentemente  in termini di “purificazione della puerpera”, con il rischio di conservare il retaggio  dell’idea di un’impurità connessa alla gestazione e al parto. D’altro canto, l’esistenza  di questo rito segnalava un’attenzione importante al fatto che il parto, per il sangue  versato e il dolore sofferto, presenta anche i tratti di un trauma fisico e psichico per  la donna e richiede un periodo di superamento, che spesso risulta impegnativo e  delicato. Varrebbe la pena di riflettere se la benedizione rivolta alla madre al termine  del battesimo dei bambini valga in modo sufficiente a raccogliere la complessità  dell’esperienza spirituale che, con le sue eventuali ambiguità, l’antica benedizione  cercava di intercettare.

    [5] Il vocabolario della «rinascita» negli scritti giovannei ha molte attestazioni (Gv 1,13; 3,3ss.; 1Gv 2,29; 3,9-10; 4,7; 5,1.4.18-19) . Il testo più importante ovviamente è il dialogo con Nicodemo (Gv 3), per cui rimandiamo a P.-R. Tragan, Battesimo e fede cristologica nel dialogo tra Gesù e Nicodemo (Gv 3,1-21), in Id. (ed.), Fede e sacramenti negli scritti giovannei. Atti del VI Convegno di teologia sacramentaria. Roma, 23-25 maggio 1983, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1985, pp. 47-120; K.O. Sandnes, Whence and whither. A Narrative Perspective on Birth anothen (John 3,3-8), in «Biblica» 86 (2005) 153-173, anche in https://www.bsw.org/project/ biblica/bibl86/Comm05.html (30.3.2009).

    [6] Per una prima documentazione circa la collocazione del tema della nuova nascita nella tradizione cristiana, si può partire da M. Sinoir, Naissance (nouvelle), in Catholicisme hier, aujourd’hui, demain, vol. IX, Letouzey et Ané, Paris 1982, pp. 991-997.

    [7] Basti pensare alla ricorrente polarizzazione con cui l’attributo di «figli di Dio» viene utilizzato per esprimere rispettivamente la novità della grazia battesimale (con il battesimo si diventa figli di Dio) e la condizione nativa di ogni uomo (ogni uomo è figlio di Dio).

    [8] Per una prima introduzione alle numerose questione teologiche e pastorali connesse al battesimo dei bambini rinviamo a G. Angelini - P. Caspani - P. Colombo - E. Mazza - B. Seveso - S. Ubbiali, Il battesimo dei bambini. Questioni

    teologiche e strategie pastorali, Glossa, Milano 1999.

    [9] J. Kühlewein, ben, in E. Jenni - C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, vol. 1, Marietti, Torino 1978, p. 276.

    [10] B. Rénaud, Les généalogies et la structure de l’historie sacerdotale dans le livre de la Génèse, in «Révue Biblique» 97 (1990) 5-30.

    [11] R. Vignolo, Il legame più complesso. Luci e ombre delle relazioni parentali nella Bibbia, in Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (ed.), Genitori e figli nella famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002, pp. 147-215; 159-160. L’autore mette in luce che il racconto ha carattere eziologico e rimanda quindi all’idea che ogni madre apprende con la nascita del figlio a invocare il nome del Signore. D’altra parte, egli pone in risalto come la formulazione letteraria del grido di Eva di fronte alla nascita del figlio non sia esente da ironia e da ambiguità (il figlio è subito chiamato uomo, viene lasciato in ombra il ruolo del marito…), a testimonianza della complessità e delle molteplici sfumature che hanno i vissuti genitoriali.

    [12] Scrive al riguardo Giovanni Paolo II nella sua enciclica dedicata al valore e all’inviolabilità della vita umana: «All’aurora della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta notizia: “Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore” (Lc 2,10-11). A sprigionare questa “grande gioia” è certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16,21)» (Evangelium vitae, 1).

    [13] H.U. von Balthasar, Se non diventerete come questo bambino. Quattro meditazioni cristologiche, Piemme, Casale M. 1992, pp. 39-40.

    [14] Interessante notare come At 13,33 riferisca al mistero della risurrezione la citazione di Sal 2,7: «Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato».

    [15] Su questa convinzione che la fede battesimale costituisce la vera nascita dell’uomo si fonda l’interpretazione antica del martirio come nuova nascita (cf., ad es., Tertulliano, Scorpiace, 6) e la tradizione che estende a ogni santo la considerazione del giorno della morte come autentico dies natalis.

    [16] Benedetto XVI, Spe salvi, 2. L’epitaffio latino è tratto dal Corpus inscriptionum latinarum, vol. VI, n. 2003.

    [17] J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, Brescia 1986, p. 41.

    [18] Agostino, Sermo 195,2. Analogamente Leone Magno mostra come la nascita verginale di Cristo sia fondamento della rinascita battesimale del cristiano: «L’origine che Gesù assunse nel grembo della Vergine, l’ha posta nel fonte battesimale: dà all’acqua quel che diede alla madre; la potenza dell’Altissimo e l’ombra dello Spirito Santo che fece di Maria la Madre del Salvatore, ora fa sì che dall’acqua rinasca il fedele» (Tractatus 25,5).

    [19] «O noctis istius mystica et veneranda conmercia! O sanctae matris aecclesiae pia sempiterna beneficia! […] Exultavit Maria in sacratissimam puerperi, exultat ecclesia in filiorum suorum generationis speciem» (L.C. Mohlberg, Liber sacramentorum Romanae Ecclesiae ordinis anni circuli, Herder, Roma 1981, n. 457).

    [20] Rituale Romano riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da papa Giovanni Paolo II, Benedizionale, CEI - LEV, Roma 1992, n. 1187


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