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    Liturgia e

    ricerca spirituale oggi

    Goffredo Boselli

    In questo intervento non ho la minima pretesa di rispondere in modo esaustivo alle intelligenti domande che mi avete fatto pervenire, cercherò invece di intercettare la questione che mi è parso sottostare alle questioni da voi posto. Proverò in qualche modo di far rientrare nella riflessione le domande da voi poste, tuttavia ne scelgo tre dalle quali muovere la mia breve riflessione:
    - Nella civiltà contemporanea, l’azione liturgica può trovare spazi per il recupero della spiritualità?
    - L’obbligatorietà del precetto ha ancora un senso? Senza, però, un presenza costante ha senso? Si riesce a parlare di comunità?
    - Come far convivere la liturgia con il mondo giovanile.
    Mi sembra di poter sintetizzare queste problematiche all’interno del rapporto tra liturgia e ricerca spirituale oggi.

    Parto da una premessa che è di fatto una costatazione. Se l’analisi del profondo cambiamento in corso nel credere oggi in Italia ha visto ampiamente impegnata la sociologia della religione con inchieste, analisi e pubblicazioni anche recenti, molto meno ha coinvolto la riflessione teologica e ancor decisamente meno quella liturgica. Il rapporto tra liturgia e ricerca spirituale contemporanea, le ricadute della secolarizzazione sul celebrare cristiano sono temi che in Italia, occorre riconoscerlo, sono perlopiù sottovalutati se non perfino ignorati. Nelle accademie ci si limita a studiare il ruolo della liturgia nella storia della spiritualità, arrestandosi alle acquisizioni fondamentali del Movimento liturgico e del rinnovamento del Vaticano II. Nell’insieme si constata una scarsa percezione dello scarto sempre più crescente tra la liturgia e le specificità che la ricerca spirituale ha assunto in questi ultimi tempi.
    La versione ufficiale e autorizzata secondo la quale l’Italia – a differenza della Francia, della Germania o della più parte dei paesi europei – resisterebbe alla secolarizzazione grazie al sentimento popolare religioso ampiamente diffuso e all’appartenenza (anche solo sociale) al cattolicesimo da parte del popolo italiano, ha rappresentato in questi ultimi anni una campana di vetro sotto la quale rifugiarsi per non prendere fino in fondo atto del cambiamento radicale in corso nell’esperienza del credere.
    È ormai un’evidenza rilevare che il credere in Dio non è scomparso ma sono mutate le forme del credere, conseguenza del fatto che il rapporto con la religione non è venuto meno ma ha cambiato forma. Questo è uno dei principali punti fermi che, al di là di posizioni e accenti diversi, i sociologi della religione da tempo ormai ci consegnano in modo sostanzialmente convergente. In altre parole, l’evidenza è che la secolarizzazione ormai da anni ha segnato anche in Italia la fine del cattolicesimo per inerzia.
    La “terra di mezzo del credere” è l’immagine, particolarmente indovinata ed efficace, formulata dal sociologo Alessandro Castegnaro per descrivere il mutamento in corso delle forme del credere (C’è campo? 2010, Fuori dal recinto 2013). C’è uno vasto spazio, probabilmente maggioritario secondo Castegnaro, in cui prendono vita stadi e forme del credere quanto mai diseguali e frastagliate tra loro. La maggior parte delle persone sembra abitare questo territorio intermedio segnato, da un parte, da chi si riconosce convintamente credente e, dalla parte opposta, da chi si dichiara non credente. L’esistenza di questa estesa “terra di mezzo del credere” invita a riconsiderare a fondo le categorie tradizionali e fondamentali di “credente” e “non credente”, immediatamente riconducibili a “praticante” o “ateo”.
    Credere non è più associato e direttamente associabile all’idea di certezza come fino ad ora si pensava. Credere oggi significa piuttosto credere di credere, cioè non avere certezze o averne poche. Significa non essere sicuri di poter credere ma neppure di non poter credere. È una situazione di stallo più che incredulità. Credere è sempre stato associato a un’idea di pienezza o di vuoto, di sì o di no. Questo modo consueto di intendere la fede non corrisponde all’esperienza spirituale di un numero oggi tendenzialmente crescente di persone anche in Italia, i giovani soprattutto ma non solo, anche gli adulti nati negli anni Settanta.
    Se i multiformi profili del credere che costituiscono la “terra di mezzo” non sono espressioni dalla “mancanza di fede” (la neotestamentaria apistía), esse non sono neppure immediatamente riconducibili alla “poca fede” (ologopistía), ma si approssimano maggiormente a quella che l’apostolo Paolo definisce come “debolezza del credere” (asthéneia tes písteos) (Rm 4,19; 14,1). Dunque, quello maggioritario non è, come abitualmente si afferma, il territorio dell’indifferenza o del disinteresse nei confronti del credere, oppure della poca fede, quanto piuttosto di chi vorrebbe credere, di chi si trova all’interno di una dinamica, di chi vive un processo e per questo ha bisogno di tempo. Chi permane in questo territorio mediano non è disponibile a dire con certezza “io non credo”, perché percepisce un movimento oscillatorio interiore ed esperimenta il paradosso di credere e non crede contemporaneamente. Un paradosso che rinvia immediatamente all’appello che, nel vangelo secondo Marco, il padre del ragazzo epilettico gli rivolse: “Credo; aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24).
    Quello che oggi può scioccare è il dover prendere atto che il cristianesimo attuale e, ancor di più, quello che ci attende dove essere in grado di accettare persone giunte all’età adulta che, sebbene battezzate, non hanno definito appieno la loro identità religiosa. La “terra di mezzo del credere” è la terra di chi non sente nessuna pregiudiziale avversa al credere ma, al contrario, percepisce una sincera attrazione alla dimensione spirituale della vita e tuttavia non la identifica pienamente nelle espressione tradizionali della religione, vale a dire le sue istituzioni, le dottrine, i precetti e anche riti.
    Di fronte a questo vero e proprio passaggio epocale, la domanda da porsi non è tanto cosa rappresenti la liturgia per i numerosi abitanti della “terra di mezzo del credere”, quanto piuttosto come la liturgia può rispondere alla sfida che oggi si pone alla Chiesa e al cristianesimo contemporaneo occidentale. Quali potranno e dovranno essere i criteri e le modalità attraverso le quali la liturgia può rispondere alle sfaccettate forme del credere oggi e negli anni futuri, alla loro condizione spirituale, alle loro attese interiori, alle domande di senso, ai bisogni umani e spirituali?
    Per tentare, non senza insicurezza e fatica, una risposta a queste domande, mi limito a un semplice abbozzo di quattro possibili metafore con le quali provo ad esprime ciò che, a mio avviso, la liturgia sarà chiamata ad essere negli anni che ci stanno davanti.

    La liturgia approdo

    In un tempo nel quale, come molti hanno già rilevato, la “ricerca” diviene la forma fondamentale della vita spirituale, tra coloro che abitano la “terra di mezzo del credere” vi è il credente viandante, ricercatore, nomade. È il credente disincantato per il quale i sistemi di credenza espressi nelle forme tradizionali non sono convincenti e pienamente credibili. Il credente viandante vive una tensione interiore: da un lato sente di dover esperimentare nuovi percorsi, personalizzando valori e pratiche, in qualche modo rifondandole sulla base delle proprie conoscenze e delle esperienze fatte. Il loro mondo spirituale è il loro unico tempio. Tuttavia, nello stesso tempo, si trova abitato dal desiderio di trovare riposo in una credenza finalmente certa e stabile o in una esperienza religiosa alla quale aderire in modo definitivo.
    La liturgia approdo è quella che si comprende e si offre come un porto al quale il credente viandante può talvolta attraccare nei suoi percorsi di esplorazione, con i ritmi e tempi che lui solo stabilisce: necessità interiori, momenti significativi della vita propria o dei figli, feste religiose maggiori. L’attracco episodico e sporadico non è immediatamente riconducibile al cattolicesimo di socializzazione o di tradizione, ma risponde a una sorta di nostalgia dell’origine da cui il cammino ha avuto inizio. È nostalgia della casa dalla quale si è usciti ma senza averla mai del tutto abbandonata. La liturgia approdo risponde al bisogno e al desiderio di una ritualità conosciuta fatta di luoghi, simboli, canti, formule e preghiere interiorizzate e condivise con altri. Una liturgia conosciuta alla quale poter tornare come ad un approdo sicuro del quale si è certi dell’esistenza, sul quale si sa di poter contare e che può assolvere alla funzione di rifugio e riparo dalla fatica del cercare e di temporanea sosta nel tanto pellegrinare, pronti poi, mollati gli ormeggi, a riprendere la traversata.
    Il nomade non chiede nulla di particolare alla liturgia se non di esserci, di accoglierlo, ospitarlo e in questo modo riconoscerlo. Lui riconosce la comunità cristiana in preghiera e la comunità in preghiera riconosce lui. Per questo è necessario che la liturgia della Chiesa con il suo stile e i suoi messaggi verbali e non verbali non crei mai delle barriere e degli ostacoli. Nel suo modo di essere celebrata non respinga e non allontani nessuno. Per questo è decisivo l’ambiente, il clima che è percepito immediatamente, prima di ogni parola. Una liturgia diventa approdo se rinuncia ad essere solo per eletti, puri e salvati, ma è capace di ospitare ogni forma di ricerca di Dio, è capace di empatia con il cercatore di Dio.
    La liturgia approdo è simile all’esperienza vissuta da quelle tante figure evangeliche che vengono a Gesù in modo quasi sempre anonimo e spesso furtivo, per chiedergli anche solo un segno, una parola, un gesto di guarigione, alle quali Gesù dichiara “va, la tua fede ti ha salvato”, “alzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa”, “nessuno ti condanna”, e poi di loro non si sa più nulla. Persone che sono venute a Gesù, hanno trovato in lui quello che cercavano e poi se sono andate. A questi Gesù non ha chiesto nulla, ma in loro ha semplicemente trovato e riconosciuto la fede.

    La liturgia pozzo

    La liturgia pozzo si rende disponibile a quelle persone che, differenza dei viandanti in ricerca, vivono la difficile condizione di abitare sul crinale tra la sincera ricerca spirituale e l’avvertire ancora in sé resistenze nel credere interamente. Sono persone nelle quali è in atto un sorgivo e autentico cammino di conversione. La liturgia, come un pozzo, ha qui la funzione di essere luogo al quale potersi recare per ascoltare l’annuncio della fede e, quando avviene, attingere ragioni per credere. Il pozzo attrae, mobilita a sé per quello che offre di vitale e che non si trova altrove. La liturgia pozzo è vissuta come riserva di senso, luogo dell’incontro con la parola di Dio, con la predicazione del vangelo, con coloro che si confessano credenti. Può essere identificata nelle liturgie ordinarie delle comunità parrocchiali, ma ancora di più in quelle dei monasteri o delle comunità religiose o di esperienze spirituali particolarmente significative. Gli haut-lieux li chiamo i francesi. La liturgia pozzo è riflesso di un cristianesimo capace di attrazione (come ricorda spesso papa Francesco riprendendo una immagine di Benedetto XVI), capace di vincere le resistenze e le riserve maggiori. La liturgia pozzo è quella che ispira a credere, è esperienza del già e non ancora della fede.
    Si rende sempre più necessaria una liturgia che sia eloquente per gli uomini e la donne di oggi, più credibile per essere all’altezza della sfida che oggi gli si impone. Per questo, la liturgia deve trovare un linguaggio diverso. Qui si pone il grande problema del linguaggio della liturgia presente anche nelle vostre domande. Le parole della liturgia devono poter diventare che parlano, parole eloquenti: parole di salvezza, parole che umanizzano e che qui e oggi fanno bene alla vita. Sì a parole di salvezza ma a condizione che sia una salvezza incarnata non astratta, che ha a che fare con l’esistenza concreta delle persone. Attenzione a una liturgia che non solo non aiuta a credere e a vivre, ma per il suo stile e la sua grammatica a volte rappresenta un ostacolo a credere perché percepita come vecchia, stanca, abitudinaria, muta, paludata. Come alla fede così alla liturgia oggi si chiede una cosa sola: che aiuti a dare senso alla vita, che sostenga le prove e le fatiche del vivere, che aiuti a stare bene con sé stessi, gli altri e Dio.
    La liturgia pozzo è quella che, come Gesù alla Samaritana al pozzo di Sicar, dona acqua che genera la fede. Ricordiamo che nel quarto vangelo il pozzo è il luogo dove Gesù compie la più alta rivelazione del nuovo culto “in spirito e verità” da lui iniziato perché da lui vissuto.

    La liturgia soglia

    La liturgia soglia rappresenta è il sottile confine tra i territori: dalla “terra di mezzo del credere” consente di accedere gradualmente all’esperienza di Dio aprendo all’adesione convinta alla fede e all’appartenenza comunitaria. È il momento più delicato e complesso nel quale la liturgia adempie il suo compito di levatrice, rivela la sua capacità maieutica. È la fase nella quale la ritualità liturgica, grazie soltanto alla parola di Dio che annuncia con gesti e parole, diventa generativa a patto che essa sappia sollecitare l’interesse di chi vi prende parte la cui domanda di esperienza è tanto sincera quanto esigente. La liturgia come soglia riconosce che questo passaggio ha bisogno di tempo, non avviene dall’oggi al domani, e soprattutto che vi sono persone per le quali lo stare sulla soglia può essere è la condizione permanente della propria esperienza di credente.
    Questo comporterà, da parte della Chiesa, una più grande capacità di penetrazione del mistero del corpo di Cristo e dell’azione dello Spirito santo che anche nel futuro sarà Spirito di comunione. Per questo, la liturgia come soglia è quella liturgia che sa unire, tenere insieme in un “noi”, coloro che confessano l’unico Cristo, cioè che nelle maniere più diverse si riconoscono nel Gesù narrato nei vangeli e che in qualche modo sentono di appartenergli. Un “noi” formato da uomini e donne che hanno scelto di essere presenti all’assemblea eucaristica domenicale non per dovere e tanto meno per abitudine, ma perché hanno una ragione particolare per esserci e che possono, nonostante la loro grande diversità e magari anche singolare eterogeneità rispetto agli “habitués” delle nostre eucaristie, essere spiritualmente uniti nella stessa celebrazione del mistero.
    La figura neotestamentari del credente della soglia è quella di Nicodemo che va di notte da Gesù per interrogarlo e ascoltarlo riconoscendo che Dio è con lui, ma tuttavia non prenderà mail la decisione di seguirlo come discepolo.

    La liturgia casa

    Da ultimo, la liturgia casa è la liturgia di chi si riconosce a si dichiara agli altri come credente, di chi sente di appartenere stabilmente a una comunità cristiana. La liturgia casa è la liturgia dei dimoranti, dei discepoli che si riunisco assiduamente attorno al loro Signore per ascoltare la sua parola e spezzare il pane. Tutto quanto è stato detto nelle metafore precedenti di ciò che si impone oggi circa l’eloquenza, la comprensibilità e l’autenticità della liturgia vale, a maggior ragione, anche per questa ultima immagine. I credenti “discepoli” vivono anch’essi immersi nell’età secolare, sono credenti disincantanti che, in forme e modalità diverse, esperimentano le stesse dinamiche del credere oggi, con i bisogni e le esigenze che ne conseguono. Più che una realtà già data e realizzata una volta per tutte, la liturgia casa è un compito che ancora ci attende.
    Mi limito a evocare quella che a mio parere è la problematica più decisiva che la liturgia dovrà affrontare per poter sapientemente interagire alle profonde trasformazioni delle forme del credere già da tempo in atto ma che nei prossimi anni emergeranno con particolare evidenza. La liturgia è infatti intrinseca alla vita di fede e ne è sua espressione fondamentale. Si è soliti ribadire, e a giusto titolo, uno dei principi cardini della riforma liturgica conciliare, quello della “partecipazione attiva” dei fedeli alle liturgie. Un principio che rappresenta, senza ombra di dubbio, un’acquisizione irrinunciabile e un punto di non ritorno. Accanto all’esigenza di una maggiore partecipazione attiva occorre domandarsi quanto la liturgia del Vaticano II crei le condizioni necessarie per la partecipazione attiva dei fedeli. Se si offre un cibo per essere mangiato, bisogna verificare che questo cibo sia effettivamente mangiabile. Fuor di metafora, se il linguaggio dei testi liturgici e le modalità di formulare la fede che essi veicolano siano effettivamente in grado di coinvolgere i fedeli rendendoli partecipi. Si partecipa attivamente solo a condizione di esserne fatti partecipi. Se l’esperienza di preghiera che la liturgia propone riesce a interagire con le modalità attraverso le quali i credenti di oggi vivono la loro relazione con Dio. Oggi la “partecipazione attiva” interroga anzitutto le forme e i linguaggi della liturgia prima e molto più di quanto interroghi coloro che vi partecipano.
    Di fronte al profondo cambiamento in corso nel credere oggi, in Italia c’è urgente bisogno di maggiore ricerca in campo liturgico; non solo convegni e commissioni ma anche e soprattutto laboratori di liturgia, cioè realtà, comunità, luoghi nei quali si esperimenta, si elabora, si ricerca iniziando in primo luogo da nuovi testi per la liturgia e una altra gestualità rituale. Anche laboratori realizzati dai giovani nei quali essi possano essere direttamente coinvolti nella ricerca di nuove forme espressive, di nuovi linguaggi, di altri modi di dire la fede cristiana oggi.

    Fare della liturgia il luogo fondamentale dell’ospitalità cristiana

    Vorrei concludere condividendo con voi l’intuizione che da qualche tempo inseguo anche alla luce della lettera apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium, cioè che il primo compito oggi della liturgia è quello di essere luogo fondamentale ed essenziale dell’ospitalità cristiana. Per me si tratta di declinare in termini di comunità eucaristica, di assemblea liturgica la riflessione del teologo francese Christoph Theobald, il quale insiste particolarmente sull’ospitalità come carattere proprio della santità di Gesù che noi cristiani siamo chiamati a condividere e, aggiungo io, anche nella nostra liturgia.
    Il cristianesimo che di fatto già ora viviamo, specie in Piemonte, ma che nei prossimi anni ancora più ci attende, almeno in occidente, dovrà essere un cristianesimo capace di riconoscere e discernere le profonde trasformazioni dell’esperienza umana e della sua ricerca di senso, ossia di cosa significa vivere e che significato dare alla vita. Dobbiamo prepararci a una sempre maggiore differenziazione e singolarità dei cammini di fede, che ci chiederà una particolare capacità di cardiogniosi, cioè di conoscenza dei cuori. Per questo, sarà oltremodo necessaria una liturgia che faccia vivere la celebrazione della fede in Cristo come atto di fede nella vita, espressione di quella fiducia radicale nella vita che può e deve abitare il cuore di ogni essere umano. La fede nella vita è infatti il nucleo del messaggio pasquale. Noi cristiani confessiamo Cristo vivente e questo significa credere alla vita più forte della morte e di ogni genere morte.
    In fine, il cristianesimo che ci attente esigerà il riconoscimento delle condizioni morali delle persone, delle forme di vita più varie, stabili o temporanee, vissute da soli oppure insieme, anche da persone dello stesso sesso; questo ci chiederà di essere capaci di ascolto profondo e, al giusto momento, di avere una parola non rigida, moralistica ma neppure condiscendente e libertaria, ma una parola condita di sapienza. Vale a dire una parola capace di esprimere le esigenze del vangelo e al tempo stesso esperta delle fragilità umana, coniugandole senza sconfessare o l’una o l’altra. Una parola nata da viscere di compassione che fa sentire ogni persona amata per quello che è, nella situazione concreta nella quale si trova e dalla quale, spesso, non può oggettivamente uscire. Per questo, serve una comunità eucaristica capace di accogliere senza giudicare non solo con le parole, ma anche con ammiccamenti, sguardi, sussurri, a volte persino con avvisi dati prima di accostarsi alla comunione con i quali far sapere, talvolta senza la minima delicatezza, chi è ammesso e chi è escluso dalla tavola del Signore, come talvolta capita di sentire nelle celebrazioni delle esequie o dei matrimoni.
    Al contrario, una liturgia della misericordia ospitale è quella che consente a ciascuno di entrare in chiesa e partecipare della tavola del Signore, non soltanto standoci ma, come a una tavola, trovando un suo posto che gli consenta la comunione con agli altri e con il Signore. Alla tavola del Signore, infatti, il santo mistero della vita umana di ciascuno incontra il santo mistero del Dio, Padre di tutti. Qui, ne sono oltremodo persuaso, si gioca la fiduciosa recezione e la concreta applicazione di Amoris Laetitia.
    Con tutto ciò, ricordiamoci, che non ci potrà mai essere una liturgia della misericordia se non c’è una comunità della misericordia, una Chiesa della compassione, che sa fare della sua assemblea eucaristica l’esperienza ancora oggi, qui e ora, di quella santità contagiosa che Gesù comunicava ai peccatori seduti alla sua stessa tavola.

    Gruppo liturgico della parrocchia di San Lorenzo in Ivrea
    Bose 13 maggio 2017


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