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    Limite, dolore,

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    Ivo Lizzola


    L’incontro nella cura

    È quando sono debole che mi trovo ricondotto al debito originario, verso la “cura” che mi ha accolto nel palmo della mano; ma è allora che vengo anche riconsegnato alla “esposizione” senza difesa al sacrificio. Ci sono condizioni di vita, o transizioni biografiche, che ben rappresentano un non riuscire a nascere del tutto, “un essere appena vivi, essere già qualcosa, seppure privo di forma”. In esse è venuto meno l’orizzonte protettivo della vita quotidiana, vi è “la massima indeterminatezza” della nascita, “uno stato nascente che rasenta l’informe e il privo di espressione”[1] Come ben rappresentato nel commento a El niño de Vallecas di Velázquez che Zambrano inserisce in suo scritto del 1971.[2]
    L’antropologia, come i miti dell’origine, ci portano qui, a questa ambivalenza tragica dell’esperienza di debolezza degli uomini. Esperienza della possibilità, dell’infanzia, dell’affidamento e dell’esposizione alla forza. Vicina al silenzio, alla penombra, all’insignificanza.
    Ma, forse, nell’esperienza dell’essere debole può esser colto altro delle donne e degli uomini. Ritrovare, in qualche modo riscattare (tornare a prendere, riassumere in modo nuovo), l’esser debole dell’infanzia può volere dire, anche, svelare le forme dell’esercizio della forza che si fa prepotenza e disprezzo attorno a noi, che si fa dura freddezza e indifferenza. Si può rendere evidente questo nelle modalità della resistenza nonviolenta, e della vita che resiste anche prendendo pieghe ferite nella tragedia e nella pietà. Si può chiamare a una novità e a un gioco convertito grazie alla “rottura instauratrice” del perdono. Si può provocare, chiamare alla responsabilità e alla cura con la domanda di dedizione e di liberazione.
    Da un’altra parte, ritrovare la debolezza dell’infanzia è prezioso per mantenere la veglia sulla nostra forza, sul potere e sul sapere che, donne e uomini, abbiamo coltivato e assunto negli anni. Nell’essere deboli, allora, può esser coltivato un sentire attento, quello che coglie gemiti e fremiti, perché sa “restare nel vivo”.

    L’esperienza umana della cura

    Nella realtà della medicina d’emergenza o di confine (le terapie intensive, il pronto soccorso le patologie neonatali, le oncologie, i trapianti d’organo) come nei servizi per la riabilitazione, la cronicità, la terminalità, i paradigmi della bio-medicina, i suoi protocolli terapeutici e le sue “spiegazioni” subiscono quasi una torsione. Devono – come dire? – tornare all’origine e provare a stare di fronte alla vita, alla morte, al senso. Provare a dire di nuovo. Succede quello che Emmanuel Lévinas nelle prime pagine di Totalità e infinito nota circa le esperienze umane che devono fronteggiare il male e la forza: “la realtà fa a pezzi le parole e le immagini che la nascondono e finisce con l’imporsi nella sua nudità e nella sua durezza”.[3]
    Come può prendere forma la cura su questi confini della pratica clinica, quando non si sa se può darsi (o si sa che non si darà) possibilità di guarigione? Quando la vita prenderà una piegatura segnata irreversibilmente da inabilità o da cronicità?
    Non sempre attorno ai luoghi e alle relazioni nei quali si pongono queste domande si trova il respiro di una riflessione antropologica e pedagogica (oltre che psicologica e socio-culturale) e realtà pur avanzate dell’assistenza, come settori di punta della pratica medica rischiano di essere guardati solo da una prospettiva tecnica e organizzativa, sviluppando pensieri e ragionamenti “lineari”, rigidi e deduttivi. Una prospettiva pluridisciplinare può esplicitare nuove dimensioni, che restano abitualmente sottaciute e trascurate anche nella loro rilevanza etica.[4]
    Il recupero di una “ragionale prossimale” può consentire di introdurre categorie interpretative nuove, di mettere a fuoco i vissuti dei diversi attori coinvolti, degli aspetti relazionali, comunicativi e organizzativi, degli atteggiamenti cognitivi ed emotivi che favoriscono e coltivano processi decisionali condivisi. Il profilo etico che emerge è quello, spesso trascurato, di un’etica della decisione, più che di un’etica normativa.
    Il patto di cura basato sulla fiducia si costituisce oggi in modo più faticoso e più complesso. La fiducia si negozia e si alimenta nella relazione, in più momenti, non per vie lineari. In ogni caso i singoli gesti di cura, concreti, ricevono senso all’interno del patto che impegnando in gesti concreti e tecnici, li ricolloca sempre anche in una dimensione simbolica, nello sforzo di aprire al malato o alla persona fragile qualche possibilità di vivere un rapporto umano con il tempo di vita.
    Tra gli esiti più delicati e importanti dei programmi della medicina contemporanea c’è il nuovo peso che la malattia ha assunto nella vita dei singoli e nelle relazioni che tessono la convivenza,[5] a partire dalle relazioni familiari. In questi ultimi anni le reti familiari e di prossimità sono sollecitate a (ri)-farsi carico di manifestazioni di patologie (si pensi al disagio psichico), di attese di diagnosi e interventi, di post degenze, di periodi di riabilitazione, di un riequilibrio ricovero-domiciliarità con un più marcato peso su quest’ultima. La cura, e la terapia, la palliazione, tornano ad essere assunte dai contesti familiari (divenuti spesso più fragili e isolati), in un clima culturale nel quale l’esperienza umana della malattia ha cambiato forma, collocazione e significati nella storia delle donne e degli uomini. In questi ultimi decenni le modalità della comunicazione e le rappresentazioni dell’immaginario diffuso della malattia sono andate modificandosi velocemente, rivelando la forte tensione tra voglia di rimozione e bisogno di elaborazione che attraversa le persone.[6]
    Il tempo della malattia è segnato per ciascuno dalla prova e dalla provocazione alla libertà. Prova e provocazione per una donna, un uomo come pure per la rete delle loro relazioni di vita. Anzitutto perché nella malattia emerge un obbligo a un ridisegno (pratico e dei significati) delle forme della vita. Obbligo e ridisegno che richiamano a un gioco nuovo tessuti familiari dalla trama più fragile, discontinua e complessa.[7] E che sollecitano i servizi sanitari i quali, nel momento in cui si fanno più efficienti e specializzati negli interventi, meno caricati dalla durata dell’esercizio di cura, si trovano chiamati a un maggiore coinvolgimento nella relazione con i malati, con i loro contesti di vita, con le domande di senso, con il ridisegno delle biografie di singoli e di famiglie. Ma i servizi si trovano anche nella condizione di potere accentuare la loro estraneità a tutto questo. Questo legame nuovo tra persone, famiglie, reti di prossimità e servizio sanitario può produrre, infatti, nella convivenza e nel clima sociale anche una deresponsabilizzazione generalizzata, una forma nuova di mancato riconoscimento pubblico del dolore e della sofferenza.
    Cosa si gioca nell’incontro tra le donne e gli uomini, tra le persone malate, i loro familiari e prossimi, il personale curante? Incontro nel quale si impongono e ridefiniscono dimensioni di senso, di potere e di esposizione/abbandono.
    L’esperienza può forse essere raccolta e narrata attraverso tre immagini.

    La prima immagine è quella dell’irruzione, di una reciproca irruzione. È un movimento di irruzione, di invasione in un mondo ordinato, che caratterizza l’ingresso da parte di una struttura sanitaria, di una organizzazione di riabilitazione e cura, dei suoi operatori e dei suoi protocolli, nella storia di una famiglia, di una rete vitale, di una persona seriamente malata o ferita. Ed è un’irruzione nel mondo ordinato dei saperi e delle funzionalità sanitarie e assistenziali anche quella che mettono in atto, con la forza un poco cieca di storie e sentimenti e con strategie più o meno consapevoli, familiari e vicini.
    Durante la reciproca invasione, mentre uno “spazio comune” non è ancora (del tutto) costruito occorre sorvegliare ciò che si porta e ciò che si chiede all’altro, al suo “mondo”, e prestare attenzione a come va accettata e contenuta (anche nel senso di tenere dentro, lì presso) quella presenza d’altri che ci fa sentire di restare “allo scoperto”.
    È frequentemente denunciata nei gruppi professionali la fatica a capire, e a farsi capire sulla soglia fra dentro e fuori. Capire, far capire, voler capire non chiamano, però, in causa solo elementi cognitivi: sono dimensioni che si giocano nella relazione. Una “concentrazione esterna”[8] può permettere di trovare e accogliere i modi e i tempi dell’altro, del suo venire in presenza, del suo rendersi disponibile ad accogliere ed elaborare quanto viene comunicato e richiesto.
    È complesso il gioco del dentro e del fuori nelle rappresentazioni e negli scambi di una équipe con le persone in cura, con i loro vicini, negli scambi all’interno della stessa équipe. Chi tiene dentro e chi tiene fuori la solitudine e la sofferenza della persona “ferita”? Chi è dentro e chi è fuori la relazione con lei? Chi è dentro e chi è fuori il nuovo spazio di vita, fatto di contatti, di manipolazioni, spazio fisico, in cui è “forzata” e, insieme, curata? Medici e infermieri sono dentro con i pazienti; e i familiari, le persone vicine sono fuori? I pazienti sono dentro le vite, le attese, le cose, i progetti dei familiari e sono fuori da vite e progetti e affetti di medici e infermieri? Come entra dentro, come è ospitata la realtà del reparto (con le sue figure, le sue “esigenze”, i suoi tempi, il suo supporto, i suoi linguaggi) nella famiglia, nella rete di prossimità? [9]
    La fatica a entrare e uscire da più momenti e più storie può essere sostenuta sentendosi impegnati in una presenza non segnata dalla forza: né dall’intimità, neppure da esclusività. Può essere sostenuta dal sentirsi responsabili insieme.
    La stessa comunicazione con i parenti e le persone prossime se da un lato richiede continuità e coerenza (quindi un punto di riferimento), può recuperare anche in una certa pluralità e differenza di voci, e di modi della presenza, l’occasione per vedere ascoltati e accolti i diversi stati psicologici, i vissuti, ora più scossi ora più in equilibrio, come le domande nuove o ricorrenti presentati da chi “sta fuori”. Sempre che ci sia una buona regia.
    Una équipe per essere tale necessita di una “cura educativa” come tutti i contesti interumani nei quali: si vive la dinamica di una trasmissione di saperi e di pratiche; si costruisce conoscenza condivisa attorno a problemi sui quali si interviene operativamente; si produce un’interazione complessa tra ruoli, saperi, tecniche diversi e specifici; si deve sviluppare un’attenzione continua su processi e situazioni in evoluzione; si deve sapere comunicare efficacemente e tempestivamente; si vive un “conflitto delle interpretazioni” assumendo storie di malattia e di relazione; si giocano emozioni e vissuti, si agisce con un alto investimento di motivazioni e senso.[10]
    L’équipe deve essere in grado di garantire sempre una adeguata “prestazione professionale” tesa a guarire il sintomo, a ristabilire al meglio un equilibrio che la malattia ha alterato. Ma questa “prestazione” sempre si colloca (e gioca parte della sua efficacia) in dialoghi, richiami alla responsabilizzazione, attenzioni alla storia di vita del paziente, collaborazioni con la sua famiglia. La “cura medica” si esprime nell’intreccio di queste due dimensioni: la dimensione relazione di accoglienza, di ascolto e quella dell’intervento professionale.[11]
    Se prevale una definizione dell’identità del medico che passa attraverso l’identificazione delle sue funzioni, sono la diagnosi, la ricerca, la scelta terapeutica, la tecnica d’intervento ad essere in gioco. Ed è la “certezza della diagnosi” a esprimere la forza e la scientificità e l’efficacia della medicina contemporanea, quindi dell’équipe. Ma quando si propone attenzione alla cura, anche nel confronto, nello scambio e nei dialoghi nell’équipe, allora non ci si può distribuire nelle singole funzioni ma subito è centrale la relazione con il malato e con il suo sistema di vita, rientrano in gioco le dimensioni dell’“interpretazione” del passaggio esistenziale, dell’assistenza, della sostenibilità della malattia e della terapia.[12]
    Qui la ricerca pratica, la storia unica, il confronto tra diversi apporti, … tutto questo è importante. È prezioso un “buon conflitto” tra attenzioni diverse e diverse “ragioni”.
    Sforzo per guarire, attenzione ad avere cura; attivare intervento (o insistervi), dare senso e rendere sostenibile la malattia; affinare diagnosi, capire il contesto di vita della persona malata: sono solo alcune delle polarità che entrano in tensione che si misurano, sperabilmente, in “alleanza agonistica”, dentro l’équipe e all’interno spesso di alcuni o molti dei singoli membri dell’équipe. Vanno assunte queste tensioni e il loro “risultato” in una strategia di cura.
    In questo gioco di tensioni che sono energie, non elementi pericolosi e distruttivi, ognuno dà voce a sé, alle diverse “parti” di sé, ad altri (il malato anzitutto, il suo sistema di relazioni; ma anche altri colleghi) Quotidianamente, negli scambi dentro i ritmi di lavoro e le forme di comunicazione, nei momenti formali e nella tessitura reale-informale della vita di Unità operative, reparti, servizi.
    I familiari che entrano in una “situazione critica” vedono interrotta una presenza, una comunicazione; devono vivere una distanza fisica forte, uno spaesamento… mentre donne e uomini, in forza d’un “sapere esperto” operano anche intrusivamente, e comunque direttamente sul corpo del congiunto, della persona vicina. I familiari devono fidarsi, mentre devono lasciare. Avvertono poi una forte distanza tra quel che vedono e quel che sperano, tra quel che aspettano e quel che colgono come segnale dal corpo a loro caro, tra quel che si rappresentano e quel che viene comunicato loro dai medici. È una distanza abitata da movimenti d’affidamento e da movimenti reattivi di distanziamento, di dubbio, di risentimento. In storie diverse pur vicine, dai tratti simili; ma anche nella stessa storia, in fasi diverse.[13]
    È già complesso il gioco della fiducia, ma si fa decisamente problematico se i medici e gli infermieri non conducono con attenzione a leggere la situazione (del corpo, delle comunicazioni con esso, delle zone d’ombra e di incertezza, delle possibili evoluzioni, degli elementi di non ritorno,…); se non tengono in relazione e insieme non tengono un po’ a distanza paziente e parenti. Occorre affinare un “saper trattare con l’altro” che – come scrive María Zambrano e abbiamo già ricordato – è anche “saper trattare con il mistero”. I due atteggiamenti si legano in una dimensione sola: la pietà. Che certo non è commiserazione, né fuga dal gioco delicato e ambivalente della fiducia, né formalizzazione della fiducia nelle procedure della delega (del “consenso informato”, delle “liberatorie”).
    Il mistero non è un vuoto, un vuoto improvviso, quanto piuttosto una “porosità” irriducibile dell’esperienza che si manifesta quando la parola “apre fessure” nella trama dei nessi che circoscrivono e rinserrano persone, cose ed eventi.
    María Zambrano suggerisce che la pietà non è filantropia, né compassione, “é qualcosa di più: è ciò che ci consente di comunicare.”[14] È la pietà dalla quale ci sentiamo avvolti. E che ci fa reggere davanti alla ferita dell’altro, al suo morire. Trovando la parola. Oltre e dentro le competenze, i saperi; dentro e oltre il pensare.

    La seconda è l’immagine di un incontro su una faglia.
    Le famiglie, le persone più vicine ai pazienti, le persone ricoverate vengono incontrate su una frattura che scompone o ha scomposto i giorni e le relazioni. Si vive, di nuovo, come su una faglia: ciò rende i paesaggi fino a quel punto definiti dalle storie, dagli affetti e dalle comunicazioni come sospesi, rivoltati e fortemente incerti, o irrimediabilmente perduti. Scosse sono pure le responsabilità reciproche e spezzati i progetti di futuro.
    Su una faglia che rompe, scuote e scompone, che rende incerti e “minacciati”, emergono sia i “fondi” delle risorse psicologiche, etiche, simboliche, sia i “fondi” delle paure, dei rancori, dei sensi di colpa. Tutto questo entra nell’incontro tra i medici, gli infermieri e i familiari, le persone prossime ai ricoverati in una terapia intensiva. Chiedendo attenzione particolare.
    Su una faglia i paesaggi si distruggono e si rigenerano, la ricostruzione chiede nuova flessibilità e nuova resistenza. Ci vuole ascolto continuo di ciò che si muove in profondità, nel silenzio, che può suggerire smottamenti e crisi, o nuove effusioni, o consolidamento.
    Su una faglia si riaprono non scontate capacità relazionali di credito reciproco, di fiducia, di negoziazione attenta, e di apprendimenti dall’altro, di veglia e sorveglianza reciproca. O rifugi in strategie di resistenza nei propri mondi ordinati, nel ripristino dell’ordine “dato” prima, in separazioni e distanze, in estraneità.
    L’incontro tra noi, ricorda Eugenio Borgna, è sempre una ferita, faticosa da portare. Sulla faglia due fatiche si incontrano. La prima è quella di medici e operatori che provano a (e han bisogno di) far entrare in una situazione nuova – spesso drammatica e imprevista – i familiari e le persone più vicine, con l’urgenza e la necessità di farlo in tempi rapidi, efficacemente e correttamente.[15]
    La seconda fatica è quella dei malati, dei feriti e delle famiglie e di quanti sono i più prossimi, che provano a lasciare entrare nella loro frattura (che li mette così in questione e allo scoperto) le figure, i linguaggi e i messaggi degli operatori sanitari o sociali. Quelle donne e quegli uomini, medici e infermieri, psicologi e assistenti sociali che così direttamente sono entrati nei tempi, nei significati, negli affetti della loro vita, quella che si sviluppava con chi ora è “ferito”, con chi si è fatto così lontano, o forse è in fine.
    Non si tratta, dunque, solo di descrivere la condizione “oggettiva” della persona che l’incidente o la malattia “ha portato così lontano”, presentando i numeri, illustrando la “realtà “effettiva”. Si tratta, piuttosto, di far entrare in dialogo con la nuova condizione della persona ricoverata, presa in carico dal servizio, con lui in ultima istanza.
    Proprio in luoghi (come una Terapia Intensiva, una Patologia Neonatale) nei quali si applica una intensificazione massima nell’utilizzo delle tecnologie della ricerca, prende spazio non di rado un richiamo ad un pensiero condiviso, frutto di scambi, capace di elaborare senso e significato, e di accompagnare le decisioni. Forse perché in questi luoghi quello che alcuni definiscono l’”apparato tecnico-scientifico” incontra la realtà del dolore, della vulnerabilità, e tocca il limite ed il confine della manipolabilità, dell’efficacia. Limite che, insieme, richiama e svela la necessità del senso. E sono lo stesso utilizzo della tecnologia e lo sviluppo della ricerca scientifica applicata alla clinica che portano su tale confine.[16] Su di esso, da sola, la razionalità “forte”, tecnico-scientifica non sa stare.
    Soprattutto su questo confine medici, tecnici e operatori chiedono di non stare da soli: nelle loro comunicazioni e nelle pratiche quasi si avverte un bisogno di intreccio, di convergenze tra razionalità, bene e vero.
    La presenza crescente di tecnologie mediche nel lavoro ospedaliero riduce il conflitto? Forse no, di certo ne cambia un poco la natura e le occasioni. Tecnologizzazione e specializzazione (ma anche la socializzazione della medicina) chiamano in gioco attenzioni nuove alla “mediazione” e alla “ricomposizione” dei linguaggi e delle pratiche e delle presenze. “Il rapporto è talora impoverito anche a causa dell’apparato tecnologico inserito tra medico e paziente, un apparato a volte così complesso da rischiare la mutazione, da trait d’union diagnostico-terapeutico, con diagramma separatore e distanziatore, con perdita di contatto tra i due… A colmare i vuoti aperti da un crescente nichilismo curativo, caratterizzato da un’assenza di ascolto e di dialogo e da una carenza del prendersi cura globale, si iperespande un interventismo terapeutico tanto fitto di esami quanto zeppo di farmaci”. [17]
    L’attenzione alla relazione e all’uomo rischia, allora di essere tutta delegata a “funzioni” specifiche (alcune figure tra gli infermieri, la psicologa).
    Certamente il rapporto di potere tra operatori sanitari e pazienti, la stessa posizione del malato, sono cambiati: la persona malata controlla poco di ciò che si fa su di lui. Eppure molte storie di malattia chiedono accettazione, convivenza con una patologia, costruzione di senso dell’esperienza: una “guarigione” non ci sarà.
    Sono soprattutto i giovani i più indifesi nei confronti della sofferenza di cui è portatore il paziente, la mancanza dell’elaborazione della propria paura, la mancanza di interrogazione su di essa, la debolezza del “sapere l’emozione” crea tensioni nel reparto e nell’équipe. A volte si opera una scissione tra chi si concentra sulla conoscenza della malattia, sulla responsabilità terapeutica, (i protocolli operativi, gli aspetti scientifici tecnologici, …) e chi gestisce la relazione con il paziente (le sue domande profonde, il suo bisogno “d’abbraccio”): sperando di tenere una linea di demarcazione, una distanza tra le due aree. Ognuna di esse deve riuscire a non riflettersi nello sguardo dell’altra.[18]
    Eppure ciò che permette di salvare storie ed incontri è l’annodarsi, lo sciogliersi ed il tornare a tendersi e ad intrecciarsi di tanti sguardi, di tante direzioni dello sguardo (quelli lineari e diritti, quelli che guardano dietro alla persona; quelli che si lasciano guardare, o che riflessivamente si dirigono a sé; quelli che rispondono e rinviano…). E anche ciò che permette di non dovere, soli, sostenere tutto il peso e il confronto con il dolore e con l’incertezza da parte di medici e infermieri. “Sguardo circolare”, di un sapere medico che si addentra nell’incertezza e si accetta interrogante. “Sguardo sull’esistenza” di donne e uomini che sanno stare gli uni di fronte agli altri come persone, che sanno “lavorare a se stessi”.

    La terza immagine è quella della soglia di una attesa.
    A ben guardare, tutto l’apparato tecnologico e organizzativo in un servizio di cura è finalizzato (anche) a rallentare o frenare processi, a vegliare e cogliere segnali poco percettibili, a lasciare aperte o sostenere riprese e reattività; a tenere aperto il tempo. Verso un venire, o un tornare, in presenza. Pare di cogliere una sorta di riscatto di un agire in attesa, vigile e attento, un “agire passivo” come direbbe Simone Weil, proprio anche dell’intensività. Riscatto rispetto ad un eccesso di intrusività subito risolutiva che, spesso, caratterizza l’intervento tecnico, e anche quello medico.
    Un agire che “permette l’attesa” nel senso che molte volte fronteggia l’emergenza, il possibile tracollo delle condizioni del paziente. Cerca di “stabilizzarlo” perché il suo corpo reagisca e trovi, nel tempo “conquistato” e tenuto aperto dall’intervento intensivo, una via di ripresa di funzionalità ed autonomia. Oppure è un agire che prova a riabilitare, a ricostruire, a permettere pratiche nuove di vita, come di sé, assunzione di nuovi limiti e residualità.
    Attorno si resta in una, intensissima, attesa. Attesa che, nei suoi movimenti e nei segnali che coglie, accompagna altre attese: e apre o sospende il tempo vissuto, e fa spazio o accoglie i tempi interiori. Anzitutto delle persone ricoverate, certamente, e poi delle persone che con più intensità hanno le loro storie intrecciate alle loro.
    In questi luoghi quello che alcuni definiscono l’”apparato tecnico-scientifico” incontra la realtà del dolore, della sofferenza e della vulnerabilità e tocca il limite ed il confine della manipolabilità, dell’efficacia. Limite che, insieme, richiama e svela la necessità del senso. E sono lo stesso utilizzo della tecnologia e lo sviluppo della ricerca scientifica applicata alla clinica che portano su tale confine. Su di esso da sola la razionalità “forte”, tecnico-scientifica non sa stare.[19]
    Medici e infermieri chiedono di non stare da soli. Familiari e vicini di essere accompagnati per ristrutturare un orizzonte, per operare ciò che gli psicologi chiamano delle faticose “risimbolizzazioni affettive”.
    Le storie e le pratiche raccolte nelle strutture socio-sanitarie ed ospedaliere parlano di una medicina che si confronta con, e accoglie il, limite: e non tanto nel significato di “barriera” contro cui si scontrano i saperi e il potere medico, quanto invece come “contorno”, lineamento e soglia che conferisce forma all’umano, al tempo di vita e alle relazioni tra donne e uomini. Forma di una vita buona e di una buona cura.
    Un dato importante, in parte sorprendente, emerso è proprio questo: dalle storie narrate da medici e infermieri capiamo che essi hanno un rapporto disincantato con la tecnologia sofisticata di cui pure si avvalgono: abbiamo qui uno spunto per ripensare il senso generale dell’agire tecnico, nella nostra epoca. Ad esempio, è impossibile prevedere il decorso delle condizioni di salute di molti pazienti ricoverati in questi reparti, o come essi reagiranno a un determinato farmaco. Spesso la cura consiste in un “prendere tempo” o un “dare tempo”: si sostiene il paziente nei momenti di crisi e si aspetta, per vedere se il suo corpo saprà trovare un nuovo equilibrio, o si fa reggere in vista di un incontro atteso, d’una comunicazione. È come se in questi casi – in cui certamente il personale sanitario non rinuncia a praticare interventi che si presumono efficaci e utili – la medicina “della pretesa” lasciasse il campo a quella “dell’attesa”.

    Una fiducia da “negoziare”?

    “Ritorniamo tutti figli, … figli al fine ci ritroviamo”. Don Salvo ha occhi lucidi, e una lentezza della parola, quasi una incertezza che ricorda l’ictus dell’anno passato. Ma che ricorda anche l’incespicare dei piccoli e delle piccole d’uomo in cerca delle parole che, dicendo le cose che si sono incontrate, risuonano di esse. L’anno prima lo sguardo incantato nell’impossibilità di ogni movimento e quasi d’ogni comunicazione per l’ischemia, ha colto la danza di tanti, attorno, nel sollecito abbraccio e nella cura amorevole, appena dopo la paralisi e la caduta: “del tutto nelle loro mani, … erano buone e attente”..:
    La ripresa aveva attraversato il silenzio interiore, difficile, in un obbligato ripiegamento e raccoglimento; nella forzata accettazione di gesti verso il proprio corpo, e nell’incapacità della risposta se non nello sguardo. Solo domanda muta e muto grazie. Silenzio dentro, e recettività negli sguardi scambiati. In nuova innocenza; apprendendo uno sguardo nuovo, in sé e negli altri. “Ho visto come per la prima volta, donne e uomini conosciuti da sempre, a me affidati da anni… li guardavo, ora li vedevo come per la prima volta. Prima li consolavo… ora, finalmente, li vedevo”.
    Lo sguardo tra donne e uomini nella sofferenza è una esperienza di vita che fa cogliere tra
    chi soffre e chi è accanto che nello sguardo ogni volta si risponde. Nel buio. Si risponde, si va incontro: con attenzione e pudore, lasciando libera l’altra persona di essere ciò che è: angosciata e delusa, o fiduciosa, o silenziosa.
    Chi è nella sofferenza può vivere la tentazione di ritirare lo sguardo, di ritirare la fiducia, perché il suo corpo sente solo il corpo e non più il mondo, o gli altri. Ma in ogni sguardo di uomini e donne si avverte una sorta di “esposizione”: quando si è di fronte l’uno all’altro accettiamo di essere esposti nel gioco della fiducia e dell’’affidamento. Certo, lo sguardo può velarsi, diventare freddo come il cristallo, segnare distanza, disprezzo: quasi un ferire o un uccidere simbolico. Ma le donne e gli uomini sono preziosi per ciò che spesso sanno portare nel loro sguardo d’amore e nel loro sguardo nella sofferenza.
    La prova della differenza e la prova della vulnerabilità rappresentano un limitare esigentissimo e prezioso, sul quale la vita dei nostri corpi sente la vertigine del nulla e la destinazione a una comunione, entrambe al limite dell’impossibile, entrambe con forti radici nel corpo proprio. Solo nella destinazione, però, è possibile cogliere la promessa dell’origine, dell’esser nati: corpi fragilissimi, nati da corpi fatti casa, messi al mondo, esposti e in qualche modo curati. Corpi figli che incontrano altri corpi.
    Quando il malato, e le donne e gli uomini la cui vita è legata a quella del paziente “non ascoltano” o “non capiscono”, “non si rendono conto”, può essere che stiano chiamando (dalla loro apparente impermeabilità) a rispettare i tempi e i modi della attesa, anche verso il corpo che non risponde loro del loro caro. E che richiamino a prestare attenzione all’unicità d’ogni storia clinica. In questa direzione qualche pratica segnata da particolare attenzione o recettività viene agita dagli infermieri, che meglio, e quotidianamente, “segnano il passo” della presenza dei familiari, e sono vicini ai corpi che vivono la fragilità.
    Qui si apre lo spazio per una delicata e difficile negoziazione della fiducia. Diverse ricerche in questi ultimi anni hanno mostrato l’emergere della questione della “negoziazione della fiducia” tra medico e paziente. Mutamenti culturali, diffusione di informazioni sulle malattie e sui prodotti farmaceutici, trasformazione delle attese verso la medicina, ruolo dei media: questo ed altro fa sì che non sia scontata né permanente la fiducia e la delega delle persone nei confronti della medicina e dei medici.[20] Questo preme sui climi e sugli scambi nelle équipe. Per altro a loro volta sollecitate da una nuova redistribuzione dei saperi, delle competenze, delle specializzazioni.
    In una organizzazione, in un servizio della cura la questione della negoziazione della fiducia assume, così, forma e tonalità specifiche. I movimenti di delega e di fiducia vedono interagire diversi soggetti, in situazioni d’emergenza e di radicale dipendenza.
    Il medico, l’operatore socio-sanitario portano sicuramente raffinati saperi specialistici ed esperti. Ma appena fuori dalla loro porta è ampio lo spazio per la formazione di rappresentazioni, di aspettative, di proiezioni non controllate, distorte o senza senso della realtà. Un gioco di illusioni e delusioni, di sensi di colpa e attese miracolistiche, con un’alta intensità emotiva, apre anche a una forte esposizione al rancore, al risentimento, o alla depressione.
    Tutto questo, anche questo, crea una distanza abitata da movimenti d’affidamento e da movimenti reattivi di distanziamento, di dubbio, di risentimento. In storie diverse pur vicine, dai tratti simili; ma anche nella stessa storia, in fasi diverse.
    La parola si fa difficile, non sa dove “appoggiarsi”. E la comunicazione del limite (delle cure, delle speranze), come del danno, dei rischi e della incertezza è impegnativa . Dentro il contesto organizzato della cura tutto questo si dice utilizzando paradigmi che sono molto lontani dalla capacità di incontrare i vissuti (i linguaggi, le capacità di rappresentare) di chi è fuori. Così che quando dentro e fuori si incontrano, allora si cercano traduzioni, mediazioni: ci si prova ad intendere.[21]
    È ben reale la questione della comunicazione, delle sue forme, delle diverse strategie che vengono utilizzate. Colpisce come attorno alla malattia, al nascere, al morire vi sia un grande fiorire di metafore: forse la parola esplicita, trasparente, non riesce ad illuminare e ad orientare completamente le scelte e le esperienze che lì si vivono. Di certo un universo simbolico che per secoli ha suggerito alle donne e agli uomini come provare a dire il mistero pare divenire incerto e scomporsi.
    La parola assume una potenza grande. Da un lato si fa “esplicita”, in una trasparenza impietosa e definitoria: è la “dichiarazione” di morte encefalica che rende “cadavere”, e forse donatore, il paziente. Da un altro lato, invece, la parola si fa strumento di una compagnia e prova a tessere vicinanze, narrazioni di vita (ospitando gli incontri, gli scambi, le domande tra i pazienti, i medici, gli infermieri, i parenti,…). Queste narrazioni sono da prendere sul serio perché consentono di riflettere sulla dimensione antropologica del “rianimare”, del “tenere”, del “lasciare”, del “ripristinare”, del “riabilitare”, del “vedere”.
    Il gioco della fiducia si fa decisamente problematico se non si conducono con attenzione a leggere la situazione (del corpo, delle comunicazioni con esso, delle zone d’ombra e di incertezza, delle possibili evoluzioni, degli elementi di non ritorno). E se non si opera correggendo le rappresentazioni sociali, come pure gli atteggiamenti che legano la fiducia al risultato atteso piuttosto che alla presenza attenta.[22]
    Non si può cercare sempre e solo riconoscimento. Non lo si può pretendere come non si può chiedere una gratitudine che chi è fragile non può trovare forza e condizione per esprimere. Gli operatori più esposti, gli infermieri per esempio, sanno bene che lo stato di sofferenza può “dilagare” nella relazione, può portare pazienti e parenti a non riconoscere le loro azioni, la loro cura. Nella cura infermieristica spesso non si vive reciprocità; c’è la libertà di tirarsi da parte e rompere la relazione. La cura infermieristica è relazione unidirezionale e non deve contare su riconoscenza, o su collaborazione benevola: quelle possono essere espresse o, a volte, per alcuni passaggi possono non emergere. Non è nei pazienti (e nei parenti) che può essere attinta energia per reggere nella cura.[23]
    “Si può immaginare che la sorte dell’altro sia legata, in un determinato momento, alla mia capacità di intervento. Ma si può anche facilmente immaginare come un legame troppo stretto diventi una reciproca prigionia e come l’analisi del bisogno dell’altro possa nascondere l’incapacità di analizzare le mie necessità”.[24] Ecco che l’altro evidenziando anche il mio limite (di capacità e di possibilità di intervento) mi permette di conoscermi e di riconoscere, o di chiedere l’aiuto di altri mentre pure non rinuncio alle mie responsabilità. “Nelle relazioni d’aiuto c’è questa possibilità di capovolgere il rapporto e di scoprire che chi aiuta è in realtà aiutato.”[25]
    Prima e durante ogni cura, ogni terapia particolare, la cura agisce come “formazione dell’uomo”, se chi cura “nel corso del suo operare, rende se stesso e l’altro co-autori del testo delle reciproche esistenze. Testo, appunto, “a cura di” e non “a norma di”.[26] Come “rivela l’implicito senso formativo dell’agire umano nei confronti degli altri uomini, agire sempre sul punto di tradire e misconoscere l’umanità dell’uomo”.[27] Nelle strutture mediche pare che riesca a riemergere con una certa fatica la dimensione originaria della cura, come “incontro con un soggetto in via di costituzione”.[28]
    In questa struttura relazionale si colloca una strategia di tessitura di elementi di fiducia e di speranza, oltre che di significato, nella quale i medici, gli operatori sanitari giocano un ruolo importante. Ma nella quale si trovano co-implicati con le “presenze di prossimità” del paziente, oltre con gli altri operatori dell’assistenza. Un “patto di cura basato sulla fiducia” riguarda, certo, medico e paziente, e si costruisce transitando negli scambi e nelle pratiche, oltre e attraverso il fossato e la dissimmetria che separano chi soffre e chi possiede alcuni saperi esperti.
    La fiducia si negozia e si alimenta nella relazione, in più momenti, non per vie lineari. Può essere minacciata, dal lato del paziente e dei parenti, dalla diffidenza per il vissuto di un eccesso di potere del corpo medico; dal lato del medico, dalle pressioni e dai limiti imposti al suo impegno sia dalle scienze biomediche che dalla prospettiva della sanità pubblica.[29]
    I codici deontologici rappresentano strumenti di orientamento e salvaguardia ma non lo sostituiscono, né, da soli, garantiscono il patto di cura basato sulla fiducia. Essi hanno una funzione “universalizzante”, perché il patto non sia legato all’arbitrio, e una funzione di “comunicazione” e di “arbitrato” tra molteplici posizioni e tensioni che nascono lungo le frontiere di una pratica medica di orientamento “umanista”.[30]
    “La sofferenza non riguarda solo la pratica medica: tocca e destruttura il rapporto con se stessi, in quanto soggetti dotati di varie capacità, ma anche una molteplicità di relazioni con altri esseri, nell’ambito della famiglia, del lavoro e di una grande varietà di istituzioni; nondimeno, la medicina è una delle pratiche fondate su una relazione sociale che ha nella sofferenza la motivazione fondamentale e nella speranza, per l’ammalato, di essere aiutato e guarito il suo télos”.[31]
    Le persone fragili, come ogni persona, temono la perdita di sé nella relazione; le resistono, si sottraggono, temendo di non essere “lasciati essere”. Possono ritrovare vita e crescita solo quando riconoscono uno sguardo e una presenza che non pretende di dare la vita, ma che cerca solo di serbarla e riconoscerla. Ma possono sottrarsi (o almeno provarlo!) ad una pressione troppo forte, operata da chi osserva e dispone ma non si lascia guardare. Luigina Mortari, dopo anni di lavoro e di ascolto negli asili nido, parla di un “vero sapere del corpo di bambine di bambini” che si fa profonda memoria di quella tenerezza che ha curato e che ha fatto prendere respiro allo spirito. Questa memoria riemerge ogni volta che il corpo si trova nella fragilità, corpo che non si sostiene. E “legge” le relazioni.
    Se non si sostiene il timore di perdere (parti di) sé non si cammina oltre, non si torna a nascere. Ma se chi è vicino nella cura cerca e non sta in attesa, interviene e applica senza attendere a ciò che nasce, allora chi è fragile resterà nella paura perché nel suo corpo avverte: “non saprò sostenere da solo il cammino”.
    È nella relazione che riusciamo a “disfare” e a giocare in forme inedite, le immagini che abbiamo di noi stessi. Dentro le quali ci muoviamo interpretando: interpretando il modo e interpretando noi in relazione agli altri, alla realtà, ai contesti di vita.
    Accettare la nostra vulnerabilità esige di attraversare esperienze di semplicità, di povertà. Non è la ricerca di una presenza e di una perfezione, in una lotta agonistica tesa a combattere e vincere i sentimenti negativi. Quasi volendo plasmarci purificati. Occorre, umilmente, con pietà essenziale, guardare a noi e a chi è vicino, coltivando “l’amore per il mondo” che invoca Hannah Arendt, amore che chiede di diminuire, di fare spazio.[32]
    L’esperienza della faglia porta con sé domande grandi. Che fare delle ferite, della distruzione, e dei suoi segni che restano nel tempo, della sua inaggirabile presenza? Come utilizzare, che farne dei “materiali” prodotti, quelli frantumati e rotti e quelli emersi dal profondo attraverso la fenditura? Come tenere e dar figura alle nuove relazioni cresciute nel tempo della scossa e del turbamento? Come lasciarle, affrancarsene, “lasciandole andare” con quelle spezzate o risucchiate nel gorgo?
    Si intrecciano necessariamente prospettive diverse: quella adattativa, per la quale la realtà e il nuovo rapporto con essa va assunto, letto nei suoi vincoli e nelle sue possibilità; quella pro-attiva per la quale occorre provare il nuovo rapporto con la vita e la realtà tracciando e aprendo cammini, sondando il nuovo con la forza della speranza e del progetto di cambiamento. Nell’intreccio si può, piano piano, vedere il disegno reale e possibile dei giorni, e leggere il gioco di sé, delle proprie forze (residue e nuove), nell’alleanza e nei legami con altri. Quelli prossimi, e gli altri, anche sconosciuti e lontani, ma presenti nel loro lavoro di tutela dei diritti e della dignità umana, nella loro consegna, nella responsabilità assunta, nella dedizione, nella testimonianza.
    In questi passaggi si osa la fiducia e nella fiducia: si provano delicati e difficili riposizionamenti generazionali, rideclinazioni di interpretazioni di ruoli familiari, professionali e sociali. Il concreto riconsolidarsi e riaprirsi del tempo personale, della storia delle relazioni di prossimità, di un nuovo rapporto con la realtà, tutto questo si intreccia ai piani della cura o riabilitativi.

    Il dolore e la vulnerabilità

    Ci sono incontri e dialoghi in cui le parole fan fatica a venire, non sono già dette, sono come trattenute nel silenzio originario. Così si vive quando l’altro è del tutto affidato alle mie mani, al mio sapere, alle mie capacità. “La miseria e la povertà non sono proprietà dell’Altro, ma le modalità della sua apparizione, la sua maniera di riguardarmi, il modo della sua prossimità”.[33]
    Proprio la forza, l’ambizione del pensiero, specie nell’epoca dominata dalla tecnologia, va fronteggiata dalla sobrietà. L’intelletto non può, senza esercitare violenza, rompere quest’isolamento o riuscire nel padroneggiamento.
    Occorre, sobriamente, lasciare il pensiero sospeso sull’irriducibilità e attraversare la condizione di finitezza, trovandovi la possibilità – non lo scacco – della verità di ciò che si vive. Serve sobrietà per non perdere il senso e la verità dell’avventura umana.[34] Nei varchi che si aprono là dove le esperienze individuali (in una Terapia Intensiva, in una Patologia Neonatale, oppure in decisioni legate a una crisi familiare o nella gestione di una crisi economica, oppure ancora dentro una delicata sfida educativa o nella gestione di un conflitto) attestano e portano ad emersione significati universali.
    In diversi movimenti della riflessione in tanti incontri con operatori sanitari, della riabilitazione, delle realtà della grave disabilità si è colto come l’incontro con le persone fragili e ferite, con i familiari e le persone prossime ricostituisca il rapporto tra la totalità dei problemi dell’esistenza e la particolarità del vissuto quotidiano. Costituendo un orizzonte di possibilità esistenziali diverse, di confine. Eppure, forse, abitabili. Il racconto che viene “messo in scena” tra pazienti, medici e infermieri, familiari e prossimi emerge da un dialogo ermeneutico in cui si presentano e fronteggiano incertezze, paure, attese, speranze, delusioni dando luogo a “visioni”, ad approssimazioni a dati di realtà, ad accettazioni, a chiusura di prospettive.
    La fatica che dichiara l’operatore di fronte al suo percepire, da parte dei familiari, il “non volere” fare i conti con la realtà, o il loro non riuscirci, pare spesso essere solo l’altra faccia della sua fatica a fare i conti con la storia, le relazioni, i significati feriti dalla persona sottoposta a terapia intensiva, a trattamento, a assistenza nei quali sta portando all’evidenza, con la forza del suo sapere specialistico, un finire, una frattura, un non ritorno.[35]
    E, così, si può dare cura senza prospettiva di “guarigione” o di “normalizzazione”.[36] La sofferenza e la cura, su questo orizzonte, legano in una comunità di destino tutte le persone presenti sulla scena, dando origine a quella che Eugenio Borgna definisce “unità epistemologica” in cui devono potersi collocare e l’affettività e i modelli di cura.[37]
    Si restituisce la cura al suo significato antropologico di “esistenziale originario”, di originaria co-esistenza in un mondo comune. “L’Altro: colui senza il quale vivere non è più vivere”.[38]
    Anche se la nostra convivenza pare oggi rifiutare un riconoscimento pubblico del dolore. Non si vuole qui fare riferimento alla delicatissima questione dell”’inassumibilità” del dolore, della complessa esperienza di intimità e radicale distanza nell’incontro con l’altro che soffre, così ben tratteggiata da Emmanuel Lévinas. Per riconoscimento “pubblico” si intende qualcosa di più umilmente legato alle pratiche ed agli incontri che avvengono istituendo spazi comuni, luoghi di prossimità nei quali in presenza della malattia, della sofferenza si dà un’esperienza di riflessività sociale, di ricerca di forme di vita buona e di giustizia, si “pratica” cercandolo, l’universale nel contingente. Il dolore rinvia a un orizzonte pubblico per eccellenza, perché nel dolore l’umanità riconosce se stessa.[39]
    Si tratta di un riconoscimento della comune condizione di fragilità, di mortalità, ma insieme della possibile destinazione a un orizzonte di legame fraterno che non lascia alla finitudine l’ultima parola.
    Condurre le esperienze che si danno nell’educare, nel curare, nell’assistere (anche nel governare, nel lavorare insieme), come esperienze nella prova dell’impotenza e della debolezza, mentre sono pure esperienza d’esercizio della capacità, della creazione e dell’incontro, chiede attento lavoro formativo e di riflessione.
    Quando il nostro agire professionale, quando la nostra presenza si colloca dentro i tempi ed i luoghi nei quali si apre la riflessione sulla nascita e la morte, su cosa inizia e cosa resta, è allora che incontriamo i sentimenti di precarietà e dipendenza in noi e negli altri. Allora si fa chiarezza sulla mancanza o sul limite della forza, emerge l’evidenza della consegna e della resa, si prova una certa vertigine esistenziale.[40]
    È allora che la vulnerabilità emerge come una sorta di “riserva antropologica”, nel confronto con le figure del negativo che emergono “dalla luminosità eccessiva del richiamo insistito a una incondizionata autonomia”. Vulnerabilità che riapre anche il confronto con le figure della potenza e della contingenza, della necessità.
    In Il volontario e l’involontario Paul Ricoeur richiamava all’attenzione a ciò che si dà come coscienza di sé “in ritardo”, a una certa passività, l’”involontario”, delle nostre esperienze; ad una certa incapacità di riappropriarci della finitudine positivamente. La fallibilità non ci fa meno prossimi e attenti all’altro, anzi, ci può fare molto più attenti e capaci. Sempre, cercando di provare ad essere affidabili, e sentendoci affidati al suo perdono.
    La fragilità, la precarietà della vita, la delicatezza dei legami tra donne e uomini, è il tratto dell’umano nel suo apparire e nel suo finire. Vita nascente e vita in fine ci riportano alla fragilità originaria, antropologica. Una fragilità che è ancora rivelata, mentre cerchiamo di nasconderla, nelle “nuove domande” che ci facciamo in forza di una capacità tecnologico- scientifica: di fronte a quella che pare essere una nuova ambiguità di ogni apparire legato a generazione (“quando inizia?”) e alla “controllabilità” della violenza della scomparsa (“dire la verità?”, o “chi decide?” “quando far finire?”).[41]
    È una fragilità riemergente e spesso difficilmente sostenibile in una convivenza, in una atmosfera culturale, che mentre dice la vita come avventura, ammette che “non sa ciò che in essa è prova e ciò che è scacco.”[42]
    Ma il grande disorientamento, generato dalle tante forme dell’infragilirsi nella vita delle persone, attiva un lavoro etico di tante donne e tanti uomini che ripensano e vivono la fragilità come vulnerabilità costitutiva (di gesti, di saperi, e di poteri) attivandosi in responsabilità attente e capaci. La loro autonomia, le loro capacità non sono negate dalla vulnerabilità: anzi questa ne rappresenta l’approfondimento critico.
    L’autonomia è resa fragile dalla vulnerabilità, ma la vulnerabilità è ciò che “costituisce” l’autonomia di donne e uomini che si incontrano in responsabile cura, la impegna e la richiama come costruzione/esposizione di sé, e forma di prossimità all’altro. Autonomia come poter fare, come poter aprire racconti per e con l’altro.[43]
    Nell’incontro, nell’amicizia, ma anche nell’educare e nel curare si è condotti ad uscire dai confini degli atti cognitivi ed intenzionali dell’io: al superamento della “prigione della nostra particolarità”.[44] Viviamo l’arricchimento del nostro sentire: io colgo nell’esperienza altrui, gioiosa o sofferta, dei lati fino ad ora nascosti alla mia propria gioia e alla mia propria sofferenza. E posso, poi, giungere a una più chiara conoscenza di me che conosco e di me che sento: particolare esperienza di percezione interna.
    Posso, inoltre, vivere valori anche se il mio vissuto non ha o non ha ancora offerto alcuna occasione al loro delinearsi o al loro realizzarsi. Posso essere, ad esempio, non credente e capire che qualcuno sacrifichi la vita, o i suoi beni o le sue capacità per una fede che io non possiedo. Ma “empatizzo in lui” un’assunzione di valore che motiva il suo agire: per questa via si incontrano ambiti di valore altrimenti preclusi o estranei.
    Edith Stein parla di empatia come “della esperienza di soggetti altri da noi e del loro vissuto”, che ci permette di “comprendere […] l’interno degli altri, le loro sensazioni, i loro sentimenti,le loro motivazioni”. [45] Questo nell’irriducibile centralità della persona concreta, del corpo, anche in assenza di segnali e simboli riconosciuti dalla cultura comune.
    L’empatia può, inoltre, disporre a vivere e a leggere il mondo come esperienza degli atti con cui gli esseri umani si scambiano significati ed emozioni (moti d’animo, investimenti d’energia: “moventi”, direbbe Simone Weil). Con ciò che si fa, e si è, si “va verso” gli altri, ciò che loro fanno, e ciò che sono.
    Edith Stein mette in luce il pieno valore ‘fondativo’ dell’empatia, “il suo essere un elemento costitutivo dell’esistenza umana. Il cogliere l’esperienza altrui non è un atto successivo al coglimento della mia vita interiore e della realtà esterna, ma è un atto costitutivo di ogni piena esperienza di sé e del mondo”; accanto a questo valore ‘fondativo’ l’empatia “possiede un costante valore correttivo: essa mi aiuta a verificare e correggere il modo stesso con cui io valuto il mio comportamento”.[46]
    C’è una distanza da abitare e da accettare, da salvaguardare. Cercando non ciò che è “corretto”, o solo ciò che è utile, ma anche ciò che è giusto.[47]
    Sentire solo il bisogno dell’altro è ridurlo a ciò che manca, è ridurre l’attesa a ciò che manca. Ridurla a una risposta cercata e possibile, quella che “soddisfa” (il cliente-utente), che è diritto e aspettativa, il bisogno “costituisce”, classifica. Sentirne il desiderio è cogliere, nella mancanza e nella vulnerabilità (anche nella ferita), il gioco di tutto di sé, del proprio disegno di vita nel tempo. Il desiderio è, per questo, vicino all’angoscia-speranza: tiene gli occhi sull’apertura del tempo (a volte è crepa e frattura), nella sua sospensione. Attesa, attesa aperta e non (solo) aspettativa di qualcosa, o su qualcosa.
    Sul bisogno e sul desiderio donne e uomini si incontrano e creano un legame su ciò-che-è-comune, e insieme accettano lo scioglimento dal legame, cogliendo l’impossibilità di prendere l’altro, come di servire a lui. Legame e “slegame” nel desiderio: vicinanza profonda e distanza. Lasciare essere, lasciare andare: sulle strade del desiderio di compimento, e di riconoscimento. Riconoscere è sempre, un poco, lasciare; e rinunciare alla presa su altri.
    Sentire l’altro è, un poco, trovarsi in un vuoto, esposti come davanti a un condannato, a un ‘segnato’, che rinvia al buio, all’abbandono, al finire.[48] Ma è anche umanizzare questa distanza, questa esposizione: un poco soffrendone e guardando a lui, con lui, nel buio. Non da soli.
    È importante tenere un velo di distanza, diceva bene un’infermiera: non è estraneità ma è, forse, una riconquista della dimensione della gratuità della relazione tra donne e uomini, esposta alla forza e alla strumentalità, alla “incuranza”. Non si tratta tanto di dimenticare il debito, “forse non ho fatto tutto quello che dovevo, che potevo”, né di cancellare il senso di colpa, quanto di apprendere a lasciare, di apprendere a vivere i legami come ospitalità dell’altro. “È legandoci che ci si slega da una forza che blocca” scrive Paul Ricoeur.[49]
    Riconoscere e sentirsi riconosciuti, nel velo di distanza, evita la dinamica della appropriazione – separazione ma anche quella dell’anestetizzazione del sentire: le esperienze e le figure della perdita (irreparabile, inconciliabile, inestricabile,…) appaiono e si rappresentano nelle storie e nei vissuti di quanti sono sulla scena della cura. Forse è per questo che in realtà come una terapia Intensiva o un hospice si incontrano, e si sentono con forza, sia il debito che la colpa. Si incontrano senso di debito e senso di colpa nei parenti, qualche volta nei pazienti. Debito per quanto si è ricevuto e che non potrà, forse, essere ricambiato; o di cui non si potrà ringraziare. E colpa per quanto non si è saputo o potuto dare, per le ferite aperte, per le ricomposizioni non agite.
    Si sentono colpa e debito, anche da parte degli operatori, davanti alle “perdite” ed agli insuccessi come davanti alle buone storie di accompagnamento rispettoso e tenero del morire: un senso di debito e, un poco, anche l’esigenza di, come dire?, sentire “perdonato” l’agire e il sentire espressi in giorni intensi.
    Riprendiamo, allora il filo della riflessione di Ricoeur: “dobbiamo, forse, spingerci fino a dire ‘dimenticare il debito’?” La risposta è sì, “nella misura in cui il debito confina con la colpa e si rinchiude nella ripetizione”. Ma la risposta è no “quando esso significa riconoscimento di una eredità”. Dobbiamo pian piano riuscire ad operare – e ad aiutare in chi incontriamo, per quanto possibile – un “sottile lavoro di scioglimento e legamento”, da realizzare “nel cuore stesso del debito: da un parte scioglimento della colpa, dall’altra legamento di un debitore per sempre insolvente. Il debito senza la colpa. Il debito messo a nudo.”[50]

    Nello scacco e nella promessa

    Nella condizione dolente, che si lega quasi sempre alla malattia, come annota Lévinas, “c’è questo rovesciamento dell’attività del soggetto in passività (…) nel pianto e nel singhiozzo (…) là dove non c’è più nulla tra noi ed essa, la suprema responsabilità di questa assunzione estrema si rovescia in suprema irresponsabilità, in infanzia”.[51] L’esperienza “intera” della sofferenza non può essere “scomposta” né solo “guarita”. È noto che la considerazione della malattia come evenienza soprattutto sanitaria è moderna, legata all’affermarsi della pratica medica. Ma prima e oltre che evenienza sanitaria, per il suo intimo legame con la sofferenza e con la rappresentazione della mortalità, è potente figura simbolica, nel senso che presenta la condizione umana nei suoi aspetti complessi e radicali. Ci ricorda, ad esempio, che il corpo è organo della coscienza, prima che suo oggetto.[52]
    È per questo che proprio qui e da qui può nascere anche una radicale “significazione conoscitiva” della sofferenza: urtando contro il dolore fisico e il malheur “come la mosca contro il vetro”, il pensiero non si sviluppa in discorso, ma non può evitare il vetro.[53] Resistere al male apre a complesse strategie, a diversi percorsi dentro di sé e dentro la storia tra le donne e gli uomini.
    Scuote una esistenza quotidiana, una trama biografica e di relazioni intime e sociali: facendone emergere strutture, significati, aree non indagate o rifuggite dalla riflessione; parti di sé silenziose o sommerse. Affinando sentire e attendere. Paul Ricoeur annota come la souffrance ci riporti sul bordo, dove l’esperienza del nulla si tende con quella della nostalgia del grembo. Operatori della cura possono farsi esperti e sensibili, specie se vivono il lavoro come occasione formativa e di crescita personale, di umanizzazione.[54]
    Pare che si viva un “andirivieni” tra interrogazioni solo apparentemente vicine e simili. Un “andirivieni” che nasce dalla percezione che dei gesti e delle parole in presenza d’altri (i pazienti anzitutto, e poi i parenti), resta sempre qualcosa di più e di diverso rispetto alla funzionalità del gesto e al senso immediatamente evidente delle parole. Resta, appunto, una traccia simbolica, una specie di augurio e di cura, un senso di dedicazione. Oppure resta il senso freddo – anche se tecnicamente e professionalmente irreprensibile - di una lontananza o di un allontanamento.
    Dovremmo curare bene questo “andirivieni” tra domande, dovremmo curarlo anche in tutti i luoghi in cui ci incontriamo, e ci coeduchiamo, tra generazioni. [55] Non chiedendoci: “Cosa devo fare di buono e giusto?”. Chiedendoci piuttosto “Cosa devo fare per essere buono e giusto?”. Oppure riflettendo su: “Chi sono io che ho fatto, insieme a te, o per te, questo?” e non su: “Che valore ha quello che ho fatto?”
    Occorre distinguere bene la domanda circa la correttezza da quella circa l’appropriatezza, dalla domanda circa senso e valore
    In effetti il rapporto con donne e uomini malati, fragili e feriti, e con le loro famiglie, con le persone più vicine ai pazienti ha spesso la forza di rendere presenti agli operatori stessi, i propri atti interiori. Anche quando non si esprimono in verbalizzazioni, spiegazioni, giustificazioni o in comportamenti esteriori.
    Le forme della volontà, le argomentazioni tra sé, i moti e le reattività sentite e ‘controllate’ o negate, i processi interiori di deliberazione, le diverse ipotesi, le diverse attese, le incertezze emergono e si presentano dentro di sé durante i dialoghi con le persone che si incontrano a colloquio o giungono in visita. Questi atti interiori si mostrano come indicibili, e qualche volta come inconfessabili.
    L’interiorizzazione dell’altro “perduto” o “lasciato andare” è sempre anche anticipazione della propria morte: la riconciliazione della perdita è anche, in parte, riconciliazione anticipata con la propria morte. È una sorta di “interiorizzazione raddoppiata”.
    È sul confine del corpo nascente, del corpo sofferente, del corpo amante che s’arresta la possibilità e la libertà di fare del corpo il luogo di conquista della natura, di quella natura che ci costituisce e ci circonda. Ed è proprio su quel limitare che si sospende anche la possibilità di tradurre nel linguaggio l’esperienza corporea: questo corpo che ci radica nella natura, “ricorda che c’è un limite alla nostra possibilità di simbolizzare”[56]. Ce lo ricorda proprio questo corpo su cui si stendono tanti potenti e raffinati filtri cognitivi e interpretativi a “chiarirne” affettività e sensibilità, a disegnare diagnosi e prognosi, a tratteggiare le mappe dei legami causa-effetto tra fisiologia, pulsioni, decisioni. Sotto questi filtri, queste mappe, pare ormai difficile o quasi impossibile, percepire direttamente il proprio corpo, la propria sensibilità.
    Questi filtri incontrano il loro limite. Perché resta un nucleo di resistenza nel corpo che sente la vita, rinvia al mistero del tocco della sua unicità, alla vertigine del tempo nell’esperienza erotica, alla dura solitudine presso l’altro, che si può fare estrema prossimità nel gemito del finire.
    Corpo che si tocca e corpo che si vede. Ma dove può giungere il toccare delle mani e il vedere degli occhi? Vedere è esperienza umana, vedere è vissuto, ospitalità del mondo e dell’altro; a volte è presa impudica e violenta. Collega il visibile al nascosto: è vedere e osservare, sorvegliare e ben considerare, contemplare e interpretare, cogliere il senso celato e giudicare, riflettere e intravvedere
    Mettere a fuoco è operazione dell’intelligenza, ben attrezzata di categorie e “metodi”; ma può essere anche avvicinare a un fuoco, alle emozioni e ai moventi interiori, ciò che vedo osservando e cogliendo, per scioglierne le apparenze e coglierne il cuore. Se non si mette a fuoco non si vede bene, tutto resta un poco sfocato, le cose, le situazioni messe a fuoco ci colpiscono di più, e ci obbligano alla presenza: come se la realtà (dell’altro, della situazione) un poco denudata, ci spogliasse e ci chiedesse di svelare intenzioni, di cercare cura e sincerità.
    Le mani sono “la soglia sulla quale tocchiamo”, soglia dell’incontro e del rispetto, su di essa disegniamo, volta a volta, accostamento e designazione, prudenza e avvertimento, accenno a un contatto e benedizione, promessa e desiderio di tenere, delimitazione e congedo. Osare, accennare, invitare, sottrarsi: spesso si dà nel gioco delle mani.
    A volte le mani, ancora distanti, si stringono “come l’ombra e la luce”, e si scambiano saluti misti a desideri e timori. Le mani che prendono sanno anche benedire, le mani che trattengono sanno anche inviare; perché toccano l’inattingibile. Le mani restano la soglia, anche afferrassero, violassero non potrebbero che sentire ciò che resta intoccabile e mistero.
    Riserbo: le nostre mani “avvertono il senso del tocco che ordina di non toccare”, perché l’incontro sia riportato alla sua verità. “Noli me tangere”: non volere toccarmi più che non toccarmi, ci indica Jean Luc Nancy.[57]
    Sentono, le mani, amore e verità. Amore e verità si annunciano sulla soglia dell’incontro tra donne e uomini. Le mani ne sono una soglia: come lo sguardo. “L’amore e la verità toccano respingendo”,[58] fanno arretrare colei o colui che colpiscono: è nello stesso contatto che si rivela che verità e amore rimangono al di là della possibilità di prenderli,di possederli, di averli come propri.
    Come la carezza tra gli amanti, o tra chi s’incontra nella cura, o nell’educazione: soglia delicata del rispetto e del riconoscimento, tenero e appassionato, che chiede il trattenersi, l’aspettare e l’annunciare. Lasciare essere, rispettare il mistero nel suo esporsi e insieme ritrarsi prezioso: la ricerca non è procedere nell’intrusione, ma carezza, apprezzamento e contemplazione.
    Soffermarsi, restare presso. Verità non è “fare luce” e voler conoscere fino in fondo: questa è solo una delle forme dell’incontro con alcuni livelli del mondo e della vita. Profonde tradizioni culturali e filosofiche presentano (del)la verità come ciò che ci tocca restando inattingibile. Come l’amore.
    Nancy annota: “è con l’essere inattingibile che ci toccano e ci feriscono” verità ed amore. Ci feriscono nel nostro desiderio di presa e di controllo: d’essere l’origine, generatori. Ci toccano chiamandoci, invitandoci e attendendoci, come le mani capaci di carezza. “Ciò che ci avvicinano è il loro allontanarsi: ce lo fanno sentire, e questo sentimento è appunto il loro senso”.[59]
    Negli scritti raccolti in Il principio dialogico Martin Buber parla dell’amore in termini sorprendenti: “Dei sentimenti accompagnano il fatto metafisico e metapsichico dell’amore ma non lo determinano; e i sentimenti che lo accompagnano possono essere di natura molto diversa (…) ma l’amore è uno solo. I sentimenti si “hanno”: l’amore accade. I sentimenti dimorano nell’uomo; ma l’uomo dimora nel suo amore (…): l’amore non coinvolge l’io, come se per l’amore il tu non fosse che il “contenuto”, l’oggetto; l’amore e tra l’io e il tu”.[60]
    Il senso di un tocco che “ordina” di non toccare, non volere toccarmi. Anche se lo stai (già) facendo, non volere toccarmi, trattieni il gesto. Mentre lo agisci, nel farlo, come devi farlo se hai cura di me. Resterà così la tensione e il rapporto tra noi. Se la mano compisse il gesto l’estraneità e la separazione si imporrebbero.
    Chiude Nancy: “ecco che cosa ne è di un sapere d’amore. Ama ciò che ti sfugge, ama colui che se ne va. Ama che se ne vada”.[61] Lasciare essere, lasciare andare. Non volere “controllare”, prendere o determinare l’essere: lascialo essere. Non volere trattenere a tutti i costi presso di te, per te (il figlio, l’amata,il morente, l’amico, l’allievo…): lascialo andare.
    Speranza e guarigione non coincidono, per diversi motivi. Silenzio sulla prognosi e silenziosa speranza si toccano. Anche nella speranza si resta privi di parole: non può avere “ragioni”, parole o pensieri che la giustifichino e la sorreggano. Si è ridotti a sola speranza quando dopo le parole del giudizio, della condanna, della diagnosi infausta, della sanzione di un fallimento, si resta nel silenzio. Solo la cura resta, donata nello sguardo e nel gesto di chi, dopo, si volta verso il volto del segnato da “condanna”.[62] Che può riprendere a parlare con se stesso, a sentire la cura. Sperare: continuare, o riprendere, a sentire la cura.

    Una “cellula etica”

    La malattia è una forma particolare di sofferenza, e tocca subito la trama delle relazioni della persona malata. Subito si manifesta come impatto con incapacità e impossibilità. Evoca uno spazio comune della relazione per temperare la solitudine: del malato anzitutto, ma anche del familiare, e del medico. Realizzando quella che Paul Ricoeur chiama “cellula del buon consiglio” tra malato, équipe medica, famiglia e persone coinvolte nelle relazioni vitali.
    Il malato è, certo, “insostituibile nel suo confronto con la sofferenza e con l’orizzonte della propria morte”, ma proprio qui, per quanto possibile, “la solitudine deve essere compensata da una cellula del buon consiglio”.[63] Il filosofo francese recentemente scomparso precisa: “Davanti alla accettazione della mortalità, per esempio, il rapporto fra malato, l’équipe medica e la famiglia costituisce una cellula del buon consiglio”. Non è l’istituzione astratta, non è la folla nella via, e non è nemmeno la solitudine, ma qualcosa che, rispetto alla malattia, potrebbe essere ciò che l’amicizia è nelle relazioni che si instaurano in uno stato di buona salute, e cioè un rapporto di condivisione quotidiana. “Tutto questo – prosegue - mi sembra importante quando ci sono da prendere delle decisioni: continuiamo la cura? Rischiamo un’operazione dannosa? La ponderazione dei rischi deve essere fatta a più voci. A mio avviso, bisogna compensare la solitudine della decisione attraverso la condivisione dei rischi in quella che chiamo la cellula del buon consiglio”. Si tratta di un’entità che “non è noi e non è egli, bensì una relazione di prossimità al di là dell’aspetto istituzionale”[64].
    Le relazioni che postulano l’etica sono asimmetriche, la reciprocità trova il suo limite nell’insostituibilità dell’altro più fragile. Non ci mette al suo posto: al più ci si può approssimare a lui nel suo posto. È una “reciprocità tra insostituibili”, ed è in questa reciprocità che si conserva e che si genera ad un tempo la ragione del vivere insieme, delle forme del servizio, delle istituzioni, del diritto
    In questo corpo a corpo “al limite dell’impossibile”, in questa “reciprocità degli insostituibili”,[65] come la chiama Ricoeur – nessuno può mettersi nei panni d’un altro che soffre, o che muore: eppure ciò non rompe ogni possibile reciprocità - i corpi restano su questo crinale fedeli a ciò che hanno colto quando hanno provato il contemplare, il sentire, l’amare: che si danno nel corpo e con tutto il corpo che io sono. Si incontrano corpi di donne e uomini che hanno contemplato la bellezza e la bontà (e non hanno solo riconosciuto valori o misure di oggetti e gesti), quando hanno sentito indignazione o compassione (e non solo osservato la bassezza di scelte o condizioni), quando hanno amato (e non solo apprezzato, o goduto d’altri).
    L’esistenza cerca una verità e una domanda di orizzonte condiviso da parte di soggetti morali; ogni singola esistenza e ciascuna esistenza, vive una attesa di comunità: la sofferenza, come pure la cura, il dono, si collocano, anzitutto, vive una attesa di comunità. Una attesa sobria, un “essere allo stesso momento nelle cose e al di fuori di esse”[66]: questo è ciò che è richiesto oggi, secondo Adorno, ad ogni uomo. Nel cuore delle relazioni, della vita, delle condizioni reali del nascere e dell’abitare, dell’interpretare e del costruire, “le esperienze individuali attestano significati universali, consensi attorno ad un senso che per frequentare la vita non rinuncia alla sua pretesa d’esser condiviso,”[67] in un lavorio quotidiano di traduzione.
    Le strutture della cura possono rivelarsi come cellule etiche, luoghi dell’interumano in cui emergono valori, “evidenze etiche”, universali concreti nelle pratiche dell’incontro, non di un’etica deduttiva, piuttosto di un’etica pratica.
    I giochi di trasparenza e di opacità attraversano le comunicazioni e i vissuti che si intrecciano e si incontrano attorno alla morte.
    Nella medicina “di frontiera” - quella dei trapianti e delle tecniche riproduttive – è ospitato un contrasto forte tra l’uso di riferimenti alle categorie di dono e donazione e l’uso di termini tecnici come espianto, disponibilità, che riportano alla dimensione antropologica dell’utilità e dello scambio. Il donatore è reso tale dalla decisione, a volte improvvisa, di altri, “schiacciati” da un potere inusitato. Il corpo morto diventa corpo di un donatore. Questo avviene sempre al di fuori da narrazioni, spesso anche al di fuori di dialoghi, di accompagnamenti.
    Così in Terapia Intensiva è la parola (trasparente, esplicita) che rende “cadavere”, e “donatore”, il paziente: la parola della dichiarazione di morte cerebrale. La stessa morte cerebrale è, di fatto, “prodotta” nelle Unità di Terapia Intensiva e rianimazione: non esiste in natura ma è frutto della tecnologia, che “prende” qualche tempo alla morte. Tutto un universo simbolico, che da secoli suggeriva a donne e uomini come dare parola e immagine al mistero della morte, pare ormai in dissolvenza. Più volte viene ripetuto dagli operatori che non c’è spazio per pensare; in particolare viene allontanato il pensiero della morte.
    In un testo del 1992, Il teatro dell’immortalità, Zygmunt Bauman scriveva, riecheggiando Emmanuel Lévinas, che “la morte è l’altro assoluto dell’essere, un altro inimmaginabile che aleggia al di là delle capacità di comunicazione: ogni volta che l’essere parla di quell’altro, finisce per parlare, attraverso una metafora negativa, di se stesso”.[68]
    “Appunto per questo pur non turbando (anzi proprio non turbando) la continuità della mia percezione, la morte degli altri è dolorosa e sconvolgente, e possiamo temere la morte di altri più della nostra. È la loro che mi obbligherà a fronteggiare un nulla, un vuoto che non voglio percepire ma che non potrò non percepire.”[69]
    Riverberi di queste strategie, non prive di contrasti, si trovano nei comportamenti, nelle rappresentazioni, nelle sofferenze sulle scene della cura. Sono infatti le scene della cura quelle più esposte a pagare il “prezzo dell’esorcismo dello spettro della mortalità”, il prezzo – usando le parole conclusive del testo del pensatore polacco – della “incapacità collettiva di costruire la vita come realtà, di prendere la vita sul serio”.[70]
    Il gioco dell’attraversamento continuo di ponti cui la vita stessa è ridotta fa sembrare tutti i ponti grosso modo uguali.[71]
    Il silenzio sulla morte va superato, specialmente nel tempo della morte encefalica: occorre costruire un rapporto con la propria morte per riuscire a viverla come occasione nuova, occasione ulteriore ed ultima di generosità e dedizione. Solo fuori da una cultura prometeica (dell’autogenesi come dice Pietro Barcellona[72]) si può riuscire in una riflessione sulla morte, e promuovere disposizioni al consenso alle donazioni. “La prima narrazione del dono d’organo avviene nel vissuto quotidiano”.[73]
    Certamente non continuando a presentare solo un’idea del potere quasi illimitato sulla vita e sulla morte, a coprire “la nudità costitutiva dell’uomo”. In una tale visione nascita e morte non sono solo oggetti di interesse, parti della propria vita, ma materiale oggettivabile su cui esprimere un “controllo”. “Si nasce” e “si muore”, nell’impersonale: Se nascere e morire divengono oggetti di produzione, i fantasmi della paura e di una angoscia senza speranza continueranno ad agire, e ad alimentare quel tabù della morte che emerge nella sua pornografia. Resterà la solitudine del morente, e la solitudine di chi il morente accompagna: che può temerne la ferita, insostenibile. E a volte può volere fuggire.[74]
    Tra i luoghi della cura medica la medicina dei trapianti appare, in modo tutto particolare, come un ”crocevia”, come un “luogo pubblico” affollato, uno spazio comune in cui molti soggetti e diversi attori sociali si incontrano, ricercano, pongono domande, vivono attese e orientamenti di valore.
    Donazione e dedicazione del corpo possono essere esperienze che indicano percorsi di umanizzazione della medicina, condotta a farsi anche luogo della prossimità e della cura (non dello scambio, dell’utilitarismo, delle proceduralizzazioni). Luogo che aiuta a continuare a generare il vincolo di convivenza. O, meglio, luogo in cui si riconosce la priorità del valore del legame sul valore di scambio e sul valore d’uso: di una reciprocità non equivalente, “cerchio aperto”, della non restituzione.[75]
    Il trapianto è un percorso, e un incontro; ripropone l’evidenza di una costitutiva filialità di un corpo proprio legato a corpi altri, espone a quella “sorta di senso di colpa” registrata spesso nei trapiantati (e nei familiari dei donatori), che richiama per risonanza alcune riflessioni de I sommersi e i salvati di Primo Levi.[76] E apre alla necessità della rielaborazione del proprio essere debitori (di un debito irrisarcibile), senza che il vincolo diventi patologico.
    Certo, va sviluppato un supporto capace di favorire un contenimento emozionale, ma la questione si pone anche più profondamente. Potremmo, ad esempio, riprendere Paul Ricoeur che in La memoria, la storia, l’oblio (2003) annota “Dobbiamo, forse, spingerci fino a dire “dimenticare il debito”, questa figura della perdita? Sì, senza dubbio, nella misura in cui il debito confina con la colpa e si rinchiude nella ripetizione. No, nella misura in cui esso significa riconoscimento di un’eredità. Un sottile lavoro di scioglimento e di legamento deve essere perseguito nel cuore stesso del debito: da una parte scioglimento della colpa, dall’altra legamento di un debitore per sempre insolvente. Il debito senza la colpa. Il debito messo a nudo”[77]
    Ma possiamo anche pensare a un comune debito verso un dono originario che può aprire a una reciprocità “non equivalente” e a una solidarietà fraterna tra sconosciuti. Costruire un rapporto con la propria morte - e con la finitudine del proprio corpo - è coglierlo capace di serbare comunque la sua dimensione di dono e generatività, propria del dono dell’origine che porta. Dove il genitivo è sia soggettivo che oggettivo: corpo ricevuto dall’origine, e capace di origine, di nuovo inizio.[78]
    L’intreccio tra i tempi e i luoghi familiari e i tempi e i luoghi della terapia, le prossimità ricorrenti delle figure dei contesti sanitari e sociali coinvolti nella cura con i malati e i familiari del malato rendono tali incontri, tali alleanze nella cura, una situazione etica. Una “situazione etica” chiede (o attiva) capacità e consapevolezze morali in chi è coinvolto; è luogo di formazione e di promozione continua di soggetti etici che perseguono una dimensione morale. Che non restano neutrali, né passivi, né semplicemente assentono a un quadro morale: piuttosto entrano in un gioco delicato e sofferto di riconoscimenti, di assunzione di vincoli e responsabilità reciproche, di libertà, attenzione e rispetto, di elaborazione di significati.[79]
    È uno stile dell’interumano che viene richiamato, per aprire un tessuto di relazioni, generare legami sociali e progettare forme della convivenza, specie quelle orientate al servizio, al sostegno, alla cura, nelle quali “si riconsegna l’uomo all’uomo” (non il singolo a se stesso, né uno ad altri). La decisione di vivere gli uni accanto agli altri in responsabile cura è assunta come motivazione esplicita per caratterizzare le forme della vita comune.[80]
    Sui confini della vita, quelli segnati da disperazione, o da abulia, o dalla vulnerabilità, cresce la distanza - a volte la separazione – tra i vissuti e le parole. E la parola va perduta perché è stata impiegata per il possesso, per il calcolo, per la giustificazione: il riscatto, la sua “redenzione”, può darsi se la parola prova di nuovo a rendere dicibile, narrabile anche la situazione umana sul limite.
    Scrive Maria Zambrano[81] che la vita ha bisogno della parola, della parola che sia il suo specchio, che la rischiari, che la potenzi, che la innalzi e, al tempo stesso (ove necessario, e portandola in giudizio) che dichiari il suo fallimento. La parola trova il suo senso solo “nella simbiosi piena con la vita”. Questa parola a volte “turbina priva di nido” perché la vita si è fatta durezza e prova, restrizione o esilio, malattia o abbandono.
    Solo se il mondo, le relazioni, gli ascolti si fanno abitabili, la parola trova il suo destinatario. La parola è itinerante, esiliata. Può entrare dove i saperi e i poteri non entrano: entra nella notte della prova, nello sperdimento; e nella fragilità, nella semplicità, nell’amicizia. La parola è decentrante, è amante, è legata alla misteriosità feconda del silenzio, cerca l’innocenza, ha pudore, e nostalgia. È parola che scende, che di nuovo si piega, si curva sulla vita, sulla storia di uomini e donne: non argomenta, non prova a spiegare, a dimostrare. Parola che con pietas straordinaria entra nelle pieghe dell’ordinario quotidiano e svela ciò che può essere luce, che rende leggibile l’esperienza umana, anche la più contaminata.
    Inedita bellezza e verità nella carne di una parola che si offre, che sta sulla soglia, che si nasconde nel silenzio. Come un “fiat”.

    NOTE

    [1] L. Boella, María Zambrano 1904-1991, in Cuori pensanti, Tre lune, Mantova 1998, pp 79-81.
    [2] M. Zambrano, Appunti sul linguaggio sacro e le arti, in Luoghi della pittura, Ed Medusa, Milano 2002, pp 96-98.
    [3] E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p 19.
    [4] G. Bertolini (a cura di), Scelte sulla vita. L’esperienza di cura nei reparti di terapia intensiva, cit. Il testo presenta i risultati di un ampio lavoro di ascolto, ricerca e riflessione realizzato dal GIVITI (Gruppo italiano per la Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva) dell’Istituto Mario Negri con la collaborazione di un gruppo interdisciplinare di docenti dell’Università degli Studi di Bergamo. Sono stati utilizzati due approcci complementari, uno epidemiologico (otto mesi di raccolta dati riguardanti 3800 pazienti in 84 reparti) ed uno qualitativo (18 focus group e 18 interviste in profondità in sei reparti) sui processi e le decisioni in fine vita riguardanti pazienti ricoverati in Terapia Intensiva.
    Leggendo Scelte sulla vita si resta colpiti dal fatto che nelle rianimazioni allo straordinario dispiegamento di mezzi tecnologici non corrisponde un declino del “fattore umano” a favore della “macchina”: lo stesso personale, anzi, rivendica il primato della “cura dell’altro” come forma costitutiva dell’arte medica. Riflettendo sulle testimonianze riportate in Scelte sulla vita si potrebbero riformulare alcune questioni bioetiche, come quelle dell’”eutanasia” e dell’accanimento terapeutico”, che oggi, nel dibattito pubblico, sono spesso affrontate con un approccio pesantemente ideologico.
    [5] C. Casalone, Medicina, macchine, uomini- la malattia al crocevia delle interpretazioni, Gregorian University Press, Morcelliana, Roma, 1999; G. Cosmacini, Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari, 1989; L’arte lunga, Laterza, Roma-Bari, 1997.
    [6] G. Angelini, La malattia un tempo per volere, Vita e Pensiero, Milano, 2000; P. Braibanti, Pensare la salute, Franco Angeli, Milano 2002.
    [7] P. P. Donati (a cura), Identità e varietà dell’area famiglia. Il fenomeno della “pluralizzazione”, VII Rapporto CISF, S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2001; A. L. Zanatta, La sfida della nuova famiglia, in “Tutela”, 1-2, 1998.
    [8] L. Mortari, Verso un’epistemologia femminile, in “Studium Educationis, Genere e educazione”, n 2, Cedam, Padova, 2003, pp 366-368; La pratica dell’aver cura, cit.
    [9] Numerosi contributi in questi anni hanno ridisegnato la “scena della cura”:G. Guizzardi (a cura), Star bene – convergenze e vie di fuga tra salute e salvezza, Il Mulino, Bologna, 2001; M. Ingrosso (a cura), La salute come costruzione sociale, F. Angeli, Milano, 1994; S. Spinsanti, Chi ha potere sul mio corpo, San Paolo, Milano, 1999; S. Manghi, Nessuno escluso. Cura del prossimo, servizi e democrazia, in “Pluriverso”, 4 – 99 – 1 – 2000; Il medico, il paziente, l’altro, F. Angeli, Milano, 2005.
    [10] S. Spinsanti (a cura di), Impariamo a litigare, I quaderni di Janus, Roma 2008.
    [11] S. Manghi, Il medico, il paziente e l’altro. Un'indagine sull'interazione comunicativa nelle pratiche mediche, Franco Angeli, Milano 2005
    [12] G Bertolini, R Massa, Clinica della formazione medica, Franco Angeli, Milano 2003; C Viafora, R Zanotti, E Furlan, L’etica della cura. Tra sentimenti e ragioni, F Angeli, Milano 2008.
    [13] I Lizzola, Soglie, fratture, prossimità. L’esperienza della cura nella Terapia Intensiva, in G Bertolini (a cura di), Scelte sulla vita, op cit, pp 69-70; N Zaccai Reyners, Respet, pèciprocité et relations asymétriques. Quelques figures de la relation du soin, in “Esprit”, 1, 2006, pp 95-108.
    [14] M Zambrano, Cos’è la pietà, in L’uomo e il divino, cit., pp 182-196.
    [15] A. Valdambrini, Le forme di conflitto in ambito sanitario, in S. Spinsanti (a cura di), Impariamo a litigare, cit., pp 5-18.
    [16] U. Galimberti, Psiche e techné. L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, Milano 2004; vedi anche il contributo discusso nell’ambito del Seminario interdisciplinare sui linguaggi delle scienze umane e delle scienze fisiche “Saperi e linguaggi a confronto”, organizzato dai Dipartimenti di Filosofia e di Fisica dell’Università di Trento nel marzo-aprile 2006, di cui riferisce Alberto Gamba in Un filosofo inquieto, “Il Margine”, n 6, Trento 2006, pp 20 ss.
    [17] G Bertolini – R Massa (a cura), Clinica della formazione medica, cit, p 191.
    [18] I Lizzola, L’alleanza agonistica nell’équipe, in S Spinsanti (a cura di), Impariamo a litigare, op cit, pp 57-75.
    [19] Vedi i saggi di F Brugère, G Le Blanc, V Pinard, F Warner, N Zaccai Reyners in Le nouvelles figures du soin, “Esprit”, 1 2006, pp 77-155.
    [20] S. Manghi, Il medico, il paziente e l’altro. Un’indagine sull’interazione comunicativa nelle pratiche mediche, Franco Angeli, Milano 2005; M. Bonetti, M T Raffatto, Il dolore narrato, G.S.E. Torino, 2001; M. Marzano, Scene finali, Il Mulino, Bologna, 2004; G. Angelini, La malattia un tempo per volere, cit.; A.M. Piussi, Sulla fiducia, in “Diotima, Approfittare dell’assenza”, Liguori, Napoli, 2002, pp 129-140; N. Zaccaï-Reyners, Respect, réciprocité et relations asymétriques. Quelques figures de la relation de soin, ”Esprit”, 1, 2006, pp 95-108; V. Pirard, Qu’est-ce qu’un soin, ”Esprit”,1, 2006, pp 80-94.
    [21] Qui valgono le note sulla traduzione come ospitalità e come sfida etica in P. Ricoeur, Le paradigme de la traduction, in ”Esprit”, 6, 1999, pp 8-19; La traduzione – Una sfida etica, Morcelliana, Brescia, 2001.
    [22] M. Chiodi, L’enigma della sofferenza e la testimonianza della cura, Ed Glossa, Milano, 2003; una istruttiva ricognizione fenomenologica e un’analisi esistenziale in P. Cattorini, Malattia e alleanza, Pontecorboli, Firenze, 1994.
    [23] Come giustamente si annota in molta letteratura l’energia per restare in una relazione significativa ed equilibrata le infermiere e gli infermieri devono trovarla dentro di sé e nella relazione nell’équipe.[23] Vulnerabile non è solo chi riceve cura. Per attrezzarsi a questa necessità di “sorvegliare” sé e le proprie attività di cura occorre coltivare una competenza emotiva. D Riboli, Stare a contatto col male senza farsi male, in “Diotima- La magnifica forza del negativo”, Liguori, Napoli, 1 pp 70 ss.
    Potrebbero essere realizzati quelli che Luigina Mortari chiama “laboratori di riflessività sulla vita emozionale”, per “promuovere attività di pensiero” capaci di provocare una disamina analitica e critica della propria esperienza perché le persone individuino la “qualità dei vissuti emotivi” per individuare la “matrice generativa nonché l’intensità e la direzione della forza performativa che tali vissuti esercitano sull’agire”.[23] Tenere la misura del coinvolgimento non è semplicemente avere attenzione a non lasciarsi coinvolgere mantenendo cortesia e garbo. L. Mortari, La pratica dell’aver cura, cit., p 90.
    [24] A. Canevaro, Uscire dalla presunzione del sapere, in A. Canevaro, A. Chieregatti, La relazione d’aiuto, Roma, Carocci, 1999, pp 92-93.
    [25] ibidem, p 93.
    [26] M. Conte, La cura come esistenziale pedagogico, in “Encyclopaideia – rivista di fenomenologia, pedagogia, formazione”, n. 9, Clueb, Bologna, 2001, p 100; vedi anche L. Mortari, La pratica dell’aver cura, cit.
    [27] M. Conte, “La cura come esistenziale pedagogico”, cit., p 104.
    [28] R. Fadda, La cura, la forma, il rischio. Percorsi di pedagogia critica, Unicopli, Milano 1997.
    [29] “Non è difficile mostrare la fragilità. Fin dall’inizio, di questo patto. Il contrario della fiducia è la diffidenza o il sospetto. Questo contrario accompagna tutte le fasi di instaurazione del contratto. La fiducia è minacciata, dal lato del paziente, da una mescolanza impura di diffidenza verso il presunto abuso di potere sa parte di tutti i membri del corpo medico, e sospetto che il medico, per ipotesi, sia inadeguato all’attesa irragionevole posta nel suo intervento: ogni paziente domanda troppo (verrebbe da alludere al desiderio di immortalità) ma diffida dell’eccesso di potere di colui nel quale ha posto fiducia eccessiva. Quanto al medico, i limiti imposti al suo impegno, al di là d’ogni presunta negligenza o indifferenza, appariranno più avanti quando si parlerà dell’intrusione sia delle scienze biomediche, tendenti all’oggettivazione e reificazione del corpo umano, sia della prospettiva della sanità pubblica, che verte sull’aspetto non più individuale ma collettivo del fenomeno generale della salute” P. Ricoeur, cit., 2006 pp 33-34.
    [30] ibidem, p 43.
    [31] P. Ricoeur, Il giudizio medico, Morcelliana, Brescia 2006, pp 31-32.
    [32] L Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Feltrinelli, Milano 1995.
    [33] E. Lévinas, Fuori dal soggetto, Marietti, Genova, 1992, p 23.
    [34] P. A. Sequeri, L’umano nella prova, cit; S. Moravia, L’esistenza ferita, Feltrinelli, Milano, 1999; I. Lizzola, Aver cura della vita - l’educazione nella prova: la sofferenza, il congedo, il nuovo inizio, cit., P. Braibanti, cit., 2002; L. Traves Zanotto, Aprirò una strada anche nel deserto, Claudiana, Torino, 2004; E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano, 2005; M. Bellet, Il corpo nella prova, Servitium, Bergamo 1996.
    [35] Attorno alla medicalizzazione del morire e ai suoi paradossi vedi: R. W Higgins, L’invention du mourant. Violence de la mort pacifiée, in “Esprit“, 1, 2003, pp 139-169; P. Moulin, Les soins palliatifs en France: un mouvement paradoxal de médicalisation du mourir contemporain, in “Cahier internationaux de Sociologie “, vol CXIII (125-129), 2000.
    [36] Una prospettiva simile a quella che Binswanger inaugura in campo psichiatrico nella sua “analisi esistenziale” (o “antropoanalisi”): comprendere l’altro “come si dà” nel suo “modo di essere”, prendendosi cura di lui come “soggetto in via di costituzione”. L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970.
    [37] La separazione tra Lebenswelt e logica dell’intervento terapeutico è scientificamente scorretta e infondata, in una situazione che è “incandescente” sul piano affettivo ed emozionale. E. Borgna, Affettività e cura, in ”Animazione Sociale”, n 5, 1998; Noi siamo un colloquio, Feltrinelli, Milano 1999; L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005.
    [38] M de Certeau, Mai senza l’altro, cit., pp 14-15.
    [39] F. Riva, Dialogo e libertà – Etica, democrazia, socialità, Città Aperta, Troina (Enna), 2003; P. Portinaio (a cura di) I concetti del male, Einaudi, Torino, 2002; S. Natoli - L. Verga, La politica e il dolore, Ed. Lavoro, Roma, 2000; T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene: inchiesta su un secolo tragico, Vinsanti, Milano, 2001; S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Roma, 2002.
    [40] E Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001, pp 58-92; G Le Blanc, La vie psychique de la maladie, in “Esprit“, 1, 2006, pp 109-122.
    [41] P Ricoeur, Il giudizio medico, Morcelliana, Brescia 2008.
    [42] G Le Blanc, Penser la fragilité, in ”Esprit”, 3-4 2006, pp 249-263; P Ricoeur, Accompagner la vie jusq’à la mort, in ibidem, pp 316-320
    [43] P Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, Trois etudes, Éditions Stock, Paris 2004.
    [44] L. Boella – A.M. Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano 2000, p 67; M. Epis, Fenomenologia della soggettività – saggio su Edith Stein, LED, Milano 2003, pp 90-91.
    [45] E. Stein, L’empatia, F Angeli, Milano, 1986, introduzione di Achille Ardigò, p 11 e p 39.
    [46] ibidem, pp 40-41. Il tema è ripreso ed approfondito in prospettiva pedagogica da Piero Bertolini, che preferisce parlare di “entropatia”: P. Bertolini, L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1988.
    [47] R. Mancini, La libertà o il male, in AAVV, La dignità della libertà, a cura di G Ferretti e R Mancini, Istituti Editoriali Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2007, pp 45-70.
    [48] E. Lévinas, Tra noi – saggi sul pensiero dell’altro, Jaca Book, Milano, 1998, pp 123 ss.
    [49] P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna, 2005, pp 115-118.
    [50] P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio,Cortina, Milano, 2004, p 714.
    [51] E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova, 1987.
    [52] C. Casalone, Medicina, macchine, uomini- la malattia al crocevia delle interpretazioni , cit.
    [53] S. Weil, Quaderni II, Adelphi, Milano, 1985
    [54] L. Mortari, Verso un’epistemologia femminile, cit.; M. Conti, La cura come esistenziale pedagogico, “Encyclopaideia – rivista di fenomenologia, pedagogia, formazione”, n. 9, Clueb, Bologna, 2001, pp 85-102; AAVV, Curare ed essere curati, in “Servitium”, n 161, 2005.
    [55] L. Zannini, Per una pedagogia narrativa e interpretativa nella formazione degli operatori sanitari, in “L’Arco di Giano“, n 37, 2003, pp 123 ss.
    [56] A. Melucci, Culture in gioco, Il Saggiatore, Milano, 2000, p 93.
    [57] J L Nancy, Noli me tangere, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p 49.
    [58] ibidem p 53.
    [59] ibidem, p 53.
    [60] M Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano 1993, p 69.
    [61] J L Nancy, Noli me tangere, cit., p 54.
    [62] E. Lévinas, Dall’altro all’io, Melteni, Roma, 2003.
    [63] P. Ricoeur, Etica e vivere bene, in AAVV, Il male, Cortina, Milano, 2000, pp 4-8.
    [64] ibidem, p 6.
    [65] ibidem.
    [66] T. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1999, p 304.
    [67] S. Labate, La verità buona – senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Cittadella, Assisi 2004, p 11.
    [68] Z. Bauman, Il teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna, 1995, p 8. E prosegue annotando “la morte non può essere percepita, e tanto meno visualizzata o ‘rappresentata’. Come insegna Husserl, ogni percezione è intenzionale; è un’attività del soggetto senziente che si slancia al di là di quel soggetto, afferra qualcosa all’esterno del soggetto, pone in essere simultaneamente un ‘oggetto’ che appartiene ad un mondo che in linea di principio può essere condiviso, e vi si ancora. Ma la morte non è un ‘qualcosa’ su cui lo sforzo intenzionale del soggetto in lotta per la percezione is possa poggiare o in cui possa affondare la sua ancora”.
    [69] ibidem, pp 9-10.
    [70] ibidem, p 258.
    [71] ibidem, p 230.
    [72] P. Barcellona, La strategia dell’anima, Città Aperta, Troina (Enna), 2003.
    [73] Vedi i contributi di M. Lombardi Ricci e L. Lorenzetti citati; M. Reichlin, L’etica e la buona morte, Ed Comunità, Milano, 2000; J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino, 2002.
    [74] M. Chiodi Tra terra e cielo – il senso della vita a partire dal dibattito bioetico, Cittadella, Assisi 2002; M. Chiodi, L’enigma della sofferenza, Glossa, Milano 2003; S. Spinsanti (a cura di), Nascere, amare, morire, Ed San Paolo, Milano 1989; P. Cattorini, La morte offesa, EDB, Bologna 1997.
    [75] Caillé-Godbaut, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
    [76] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2000; Levi Della Torre S, Zone di turbolenza. Intrecci, somiglianze, conflitti, Milano, Feltrinelli, 2003, pp 142 ss.
    [77] P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p 714.
    [78] J. Baudrillad, Le trasparenze del male: saggi sui fenomeni estremi, SugarCo, Milano 1991; Z. Bauman, Il teatro dell’immortalità, cit.; K. Galser, Morte cerebrale, contributo in Forum Trapianti di organi – linguaggio ed etica, promosso da RMT – Rivista di teologia Morale, Bologna giugno 1997
    [79] P. Valadier, La persona nella sua indegnità, in Il dibattito sulla dignità umana, “Concilium”, 12, Morcelliana, Brescia, 2003.
    [80] P. A. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano, 2002; F. Riva, Dialogo e libertà. Etica, democrazia, socialità, cap 3 “Dolore ed etica pubblica” Città Aperta, Troina (Enna), 2003.
    [81] M. Zambrano, Dell’aurora, Marietti, Genova, 2000.


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