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    La liturgia

    come mistagogia:

    una liturgia per la vita

    Goffredo Boselli


    La liturgia ha necessariamente a che fare con la vita, è umana e a servizio degli uomini. Deve avere perciò come obiettivo la vita dei credenti, così come la vita stessa di Gesù si è declinata come una liturgia.
    La liturgia è cristiana quando raggiunge l’umanità delle persone, la loro carne e le loro situazioni esistenziali. Gesù ha raggiunto le persone nella sua grande umanità, ed in essa ha rivelato chi è Dio. Sviluppiamo l’argomento in tre punti.

    L’umanità di Cristo come sorgente dell’umanità della liturgia

    Già nel 1945 Dietrich Bonhoeffer scriveva: “Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo”. Oggi nella riflessione teologica sta maturando la convinzione che l’esperienza cristiana è chiamata a declinarsi come cammino di umanizzazione (cfr. Gaudium et spes 41). Sarà nella qualità umana della vita dei
    credenti che si giocherà la credibilità e l’eloquenza del messaggio cristiano.
    L’umanesimo evangelico rappresenta il presente e il futuro del cristianesimo in Occidente: si deve diventare pienamente uomini e pienamente donne. La verità evangelica afferma che Dio, senza l’uomo Gesù, non solo non è pensabile ma nemmeno credibile. Pascal scriveva: “Non è soltanto impossibile, ma è inutile conoscere Dio senza Gesù Cristo”. Dio non lo conosciamo attraverso dottrine, ma attraverso l’umanità di Gesù. Sant’Agostino, commentando Giovanni 14, affermava che il Figlio di Dio si è fatto via per farci giungere, attraverso la sua carne-umanità, alla verità e alla vita.
    Il modo in cui Gesù sapeva relazionarsi con tutti, compresi i pagani “senza speranza” (Efesini), rivela chi è Dio, e così fa anche quando prende posizione in modo duro contro le situazioni di potere. E’ soprattutto nel suo accettare di essere un condannato a morte, pura vittima, che Gesù rivela il suo “essere da Dio”, come confessa il centurione sotto la croce (Mc 15). In Gesù non vediamo qualcosa del Padre, ma lo stesso Padre (Gv 15): qui e non altrove sta il fondamento cristologico dell’umanità della liturgia. Essa non è un’esigenza antropologica, ma una dimensione teologica, non è una strategia pastorale bensì una verità cristologica. L’umanità di Gesù non è l’involucro, ma la trasparenza del volto di Dio, in lui si rivela l’opus Dei, l’agire di Dio.
    La liturgia ha una natura teandrica, è sempre umana e divina, e l’umanità non è a discapito della divinità. La celebrazione del mistero di Dio deve essere conforme non solo al contenuto, ma al modo, alla forma della sua rivelazione. La celebrazione attualizza la rivelazione avvenuta una volta per tutte. La riforma del Concilio
    Vaticano II, in questo senso, è stata una conversione evangelica della liturgia, l’ha resa più cristiana. Due le scelte fondamentali della riforma: l’altare come “tavola” del Signore, e l’utilizzo delle lingue vive. Le riforme liturgiche hanno a che fare proprio con l’umanità di Gesù, con il suo modo di stare a mensa con i discepoli. La chiesa è una comunità di “tavola” perché Gesù l’ha vissuta e voluta cosi. Se alla liturgia cristiana noi sottraiamo ciò che è umano le sottraiamo ciò che è più evangelicamente divino.
    Ciò vale anche per la lingua, per il vocabolario che si usa. Gesù parlava in aramaico e si faceva ascoltare in modo semplice e diretto, usando nella predicazione le immagini della vita quotidiana più che il linguaggio religioso. Gesù parla di Dio in modo semplice e diretto (Mt 7,28-29) e la sua autorità deriva dalla sua immediatezza. La riforma del Vaticano II ha portato la lingua viva, e su questo punto la sua scelta è irreversibile. Però oggi l’impoverimento del linguaggio e della conoscenza della fede nelle persone richiedono un’attenzione particolare ai termini che si usano. Il problema della traduzione dei testi liturgici è decisivo, ma è solo una parte del tema del linguaggio liturgico. C’è infatti il rischio del verbalismo liturgico, di forme che allontanano i giovani dalla liturgia, e di ritorno ad una “devotio” moderna, individualistica. Nel campo del linguaggio la sfida che ci attende è di arrivare ad un linguaggio liturgico non religioso.

    La vita come compito di una liturgia umana

    Nel 2010 il cardinale Joseph Ratzinger diceva che gran parte dell’umanità di oggi non trova nell’evangelizzazione il Vangelo, il “come vivere”. La domanda è questa: credere mi aiuta a vivere? Il Vangelo cosa mi porta di più nella vita? Credo che l’annuncio del Vangelo oggi si giudicherà sul crinale che daremo alla domanda: il Vangelo mi aiuta a vivere? Nell’immediato post-Concilio si chiedeva che la vita entrasse nella liturgia, oggi forse è più giusto chiedere che la liturgia sia generativa di vita, luogo vitale, capace di generare la vita.
    Il cardinale Carlo Maria Martini scriveva: “Se nei Vangeli si parla poco o nulla della liturgia, è perché essi sono già liturgia della vita di Gesù. Tutto ciò che i Vangeli riferiscono di Gesù è già anticipazione della liturgia, e questa è continuazione dei Vangeli”. I Vangeli raccontano i tanti incontri di Gesù, le richieste più varie che gli vengono fatte, quasi come formule liturgiche: “Signore, salvami”, “Gesù, abbi pietà di me”. Sono le necessità reali della vita. La liturgia dei Vangeli ci parla di un uomo che rispondeva ai desideri di vita delle persone. Gesù ha combattuto una battaglia per la vita, contro tutte le forme del male, le false immagini di Dio. A fronte dell’iperattivismo dei nostri riti, sorprende l’immediatezza dei gesti della liturgia di Gesù, “che genera la fede come si genera la vita” (Theobald). Credere in Dio vuol dire credere nella vita, la fede deve essere grembo vitale. La fede in Cristo e la vita nuova non si ricevono mai l’una senza l’altra. La celebrazione dei sacramenti è il luogo nel quale la vita di Cristo si inserisce nella vita delle persone e diventa annuncio di salvezza.
    Nei sacramenti si rivela tutta l’umanità della liturgia, e la pastorale dei sacramenti è l’odierna Galilea delle genti. I sacramenti sono le occasioni nelle quali le “periferie” vengono a noi, ed occorre provare a trasformare le domande di sacramenti in cammini di fede. Dietro c’è sempre una domanda di vita, e una richiesta di fede in Dio autore della vita. C’è sempre qualcosa di “oltre”, e per questo nelle celebrazioni bisogna dare prova di grande umanità. In ogni creatura è raccolto tutto il mistero della vita umana. Può però capitare che chi è ministro del culto con il suo modo di celebrare diventi un ostacolo all’incontro delle persone con il Signore. Nei Vangeli (cfr. Lc 18,39; Mt 14,23) capita che i discepoli si mettano come ostacolo tra Gesù e la gente. I discepoli di Gesù diventano impedimento, e così oggi un certo modo di celebrare, molto ritualista, diventa un inciampo all’incontro delle persone con Dio.
    C’è anche una “cura di sé” del ministro che fa sì che il presbiterio diventi un palcoscenico. Sono forme di clericalismo che non consentono alla vita di circolare, di entrare nella liturgia.

    L’umanità sofferente come verifica della liturgia

    Il criterio ultimo e definitivo di giudizio della liturgia è il suo farsi carico dell’umanità sofferente, dell’umanità schiacciata dalla disumanità. Compito della liturgia è favorire nelle persone la crescita in umanità e in capacità di accoglienza (cfr. preghiera eucaristica V: “Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli”). E’ il luogo della fraternità, è il più alto magistero di umanità e di solidarietà: il pane della vita condiviso deve diventare pane spezzato e donato. In questi ultimi anni la chiesa italiana, di fronte al problema delle migrazioni, è stata interpellata sulla sua responsabilità eucaristica, e non solo sulla sua fede eucaristica, ossia sulla sua capacità di tradurre la liturgia in un’etica di solidarietà.
    Nel 1976 padre Pedro Arrupe diceva che, se nel mondo c’è ancora fame, la nostra Eucaristia è ancora incompleta, perché in essa c’è Cristo che ha fame e sete, che è forestiero, etc. L’Eucaristia chiama in modo ineludibile alla convivialità e alla fraternità, e chiede alla chiesa di essere profetica anche verso chi abitualmente frequenta la Messa. Farsi prossimo, oggi, significa, riprendendo le immagini della parabola del buon samaritano, saper accogliere i poveri che la storia presenta sul bordo della strada e combattere i “briganti” di oggi (i potentati economici, le guerre, il mercato delle armi…). Mt 25, nella scena del giudizio finale, presenta le situazioni umane che oggi vivono i migranti (fame, sete, nudità, carcere). Il teologo Metz affermava che “il pane eucaristico deve produrre una rivoluzione antropologica per aiutare a risolvere la crisi di sopravvivenza oggi imperante”.
    La liturgia, quindi, deve essere davvero fermento di una rivoluzione antropologica.
    Se essa non è vita, non sarà mai liturgia all’altezza del Vangelo di Gesù Cristo.
    (testo non rivisto dall’autore)

    Diocesi di Savona - Scuola del clero 2018/19
    Seminario, 9 ottobre 2018


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