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    La liturgia come

    esperienza di prossimità

    Paolo Tomatis *

     


    «La liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa coerentemente con l'agire di Dio, seguendo la via dell'incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo» [1] Queste parole di papa Francesco, tratte dalla lettera apostolica Desiderio desideravi sulla formazione liturgica del popolo di Dio (2021), ispirano un sentimento di grande prossimità associato alla liturgia. È una prossimità che si esprime nel sentirci «presi per mano», accompagnati, non lasciati soli, per essere condotti dentro un'esperienza di intimità con il mistero di Dio che può essere considerata secondo una triplice e simultanea prossimità: la prossimità con Dio, che si fa vicino a noi nella mediazione sensibile dei gesti e delle parole della liturgia; la prossimità con i fratelli e sorelle che formano la concreta assemblea, nella quale si manifesta il mistero della chiesa; la prossimità con noi stessi, con la parte più profonda e interiore di noi, che nella liturgia chiede di essere riconosciuta, potenziata, considerata con l'attenzione e il rispetto dovuti. Alla luce di questa triplice prossimità è possibile rileggere non solo l'esperienza liturgica, ma pure il cammino della riforma liturgica e della sua recezione, esposta a una tensione che è interna alla stessa liturgia, tra la ricerca della prossimità con Dio e una esigenza di prossimità con la vita quotidiana.

    1. La liturgia, esperienza di prossimità con il mistero di Dio

    Iniziamo con la prossimità con Dio. L'intero cammino del movimento liturgico, insieme alla teologia del '900, ci ha insegnato a guardare alla liturgia nella prospettiva relazionale dell'incontro con Dio. Il benedettino Odo Casel tra i primi ha recuperato l'idea neotestamentaria e patristica del culto come partecipazione, comunione, inclusione nel mistero della Pasqua di Cristo. La prossimità, che esprime lo «stare presso», l'avvicinarsi fiducioso, ma anche rispettoso, alle sorgenti sacre della vita, in questo caso è addirittura oltrepassata in un linguaggio che esprime unione, incontro, appartenenza, «vita in». Nella liturgia non ci si avvicina semplicemente: si entra in contatto, anche se attraverso il «velo» dei simboli. L'esperienza liturgica è come quella dei tralci nella vite, dove i tralci non sono soltanto accanto alla vite: sono dentro di essa, nello scorrere della stessa linfa. In questa direzione il teologo olandese Edward Schillebeekx ha ulteriormente indagato, facendo brillare dal punto di vista antropologico e teologico la categoria di «incontro», che rappresenta il modo sacramentale con cui Dio e l'uomo entrano in contatto. Decisivo, nella riflessione del teologo domenicano, è il riferimento al corpo come dimensione presente non solo in ogni incontro umano, ma anche nel modo «sacramentale» (fatto cioè di parole e gesti visibili) con cui Dio e l'uomo si incontrano: un incontro che culmina nel corpo di Gesù e si manifesta nel corpo della chiesa. In questo orizzonte, la liturgia, e in modo particolare i sacramenti, sono visti come singolari punti di incontro tra Dio e l'uomo. E il modo attraverso cui questo incontro si realizza è quello indicato dal concilio Vaticano II: per signa•sensibilia (Sacrosanctum concilium, n. 7), cioè attraverso la mediazione dei segni sensibili del corpo, che vive nello spazio e nel tempo, e che è sempre e insieme un corpo personale e comunitario.
    Attraverso la molteplicità e la ricchezza dei segni e dei linguaggi del rito, la liturgia può essere pertanto colta come esperienza di singolare prossimità con il mistero del Dio trinitario. Pensiamo a come l'eucaristia, attraverso i suoi gesti e nei suoi diversi momenti, ci coinvolga fino a farci entrare nel mistero del Padre, per la mediazione di Cristo, nello Spirito. Fin dai riti di inizio dell'eucaristia siamo radunati per stare vicini a lui, alla sua presenza. L'altare della celebrazione rappresenta il centro focale che dispone i posti e orienta gli sguardi, così da poter stare presso di lui, cercando il suo sguardo misericordioso. Nella liturgia della Parola, siamo invitati a sostare presso la sua Parola, come Maria di Betania ai piedi del Maestro; come Maria di Nazareth, che custodiva e tratteneva nel cuore la parola di Dio. Nella liturgia eucaristica siamo condotti dentro la «fornace ardente» (così papa Francesco in Desiderio desideravi, n. 57) del suo amore pasquale, rivelato e trasmesso nel cenacolo dell'ultima cena e donatoci sulla croce. Si va alla sorgente, che è indubitabilmente quella della Pasqua di Cristo, per ricevere dal suo costato trafitto lo Spirito, il sangue, l'acqua.
    La via dell'incarnazione, che si esprime attraverso il linguaggio simbolico del corpo, è una via fisica, che non teme di coinvolgere tutti i sensi, in particolare quelli cosiddetti della prossimità: il tatto, l'olfatto, il gusto, generalmente opposti ai «sensi della lontananza» della vista e dell'udito. Puoi vedere e ascoltare da lontano, ma non puoi toccare e gustare se non da vicino. Il senso del tatto, poi, è coinvolto in modo speciale: si pensi al cammino delle mani nella liturgia eucaristica, dove il progressivo venire a contatto con il gesto di amore di Gesù che dona la vita avviene attraverso le mani che si aprono (presentazione dei doni), si alzano` a benedire e rendere grazie, si stendono a invocare (epiclesi) e si elevano a offrire (preghiera eucaristica), per poi aprirsi ancora a stringere nel segno di pace, a spezzare nella frazione del pane e a dare e ricevere il dono nella comunione. La comunione eucaristica è il culmine della prossimità spirituale e del contatto sacramentale, che si fa assimilazione e gusto, per «gustare e vedere come è buono il Signore» (cf. Sal 34,9).
    Quello che è stato descritto a proposito dell'eucaristia avviene in ogni sacramento, che nel suo culmine prevede sempre la massima prossimità che si fa contatto corporeo: così nell'atto del battezzare e dell'essere battezzati, nell'unzione crismale e dei malati, nell'epiclesi della penitenza e dell'ordinazione attraverso l'imposizione delle mani, nel consenso degli sposi, mano nella mano. In virtù di questa prossimità e di questo contatto, giustamente è stato ribadito che su internet non si possono dare sacramenti, perché là dove si dà pienezza di incontro, lì ci deve essere pienezza di presenza corporea.

    2. La liturgia, esperienza di prossimità con la vita

    Questa attenzione alla liturgia quale esperienza di prossimità con Dio è certamente coerente con la grande visione del concilio Vaticano II, che in Sacrosanctum concilium (=SC) mette in luce la dimensione «verticale» della liturgia, colta nella dimensione discendente della santificazione e in quella ascendente del culto. Ma nella costituzione conciliare è presente pure la valorizzazione di una dimensione diremmo più «orizzontale», di apertura e avvicinamento della liturgia alla vita e alle culture dell'uomo di oggi, nella consapevolezza di un lavoro da compiere – quello della riforma liturgica – che è ritenuto più che mai necessario e urgente per avvicinare la liturgia al popolo di Dio. Il linguaggio e le categorie utilizzate dal concilio per esprimere questa apertura è quello che fa riferimento alle esigenze del nostro tempo (SC 1) e alla varietà legittima delle culture (SC 37). La maggiore prossimità con la vita, che si esprime nella possibilità di pregare nella propria lingua materna, nell'adattamento culturale dei gesti e dei canti, nella partecipazione alle risposte e alle preghiere, non è però considerata soltanto come una concessione alle esigenze del tempo: più in profondità risponde a una esigenza interna alla liturgia, che così facendo ritrova elementi più rispondenti alla propria intima natura.
    La chiesa, al concilio e già prima, nelle proposte del movimento liturgico, era ben cosciente della necessità di comporre l'istanza della riforma, volta ad avvicinare la forma della liturgia al popolo di Dio, con un'altra istanza ancora più importante e fondamentale: quella della formazione liturgica, che si proponeva il movimento opposto, volto ad avvicinare il popolo di Dio al mistero della liturgia. Il primato della formazione sulla riforma, ben espresso dai numeri di SC sulla formazione liturgica (SC 1420) che precedono quelli sulla riforma (SC 21-40), esprime la coscienza della singolarità del linguaggio liturgico, di tipo biblico-teologico, a suo modo poetico, non pienamente sovrapponibile al linguaggio quotidiano della vita e da rispettare nella sua singolarità. Si traduca, finchè si vuole, si introducano gesti e simboli nuovi, semmai siano tali: rimarrà sempre uno «scarto», una differenza simbolica da rispettare, come nell'esperienza di Mosè al roveto ardente (Es 3), invitato ad avvicinarsi e insieme a togliersi i calzari. Al tempo stesso, però, la chiesa si era resa ben conto del fatto che la formazione da sola non sarebbe stata sufficiente: era necessario intervenire sulla forma della liturgia, per renderla più accessibile e disponibile al popolo di Dio.
    In questo intreccio necessario tra riforma e formazione, e in questo doppio movimento dalla liturgia al popolo di Dio e dal popolo di Dio alla liturgia, si possono rileggere le diverse tappe della riforma liturgica e della sua recezione, oscillanti tra la ricerca di una liturgia più vicina alla vita e la ricerca di una liturgia più vicina a Dio. Nella prima fase, corrispondente alla stagione iniziale della recezione dei nuovi libri liturgici, la preoccupazione era quella di avvicinare i testi e i gesti della liturgia al popolo di Dio. Da qui un certo sbilanciamento sul comprendere – e di conseguenza sullo spiegare – come via al partecipare. La ricerca di una liturgia più viva ha portato non di rado a diffidare della capacità del rito di far entrare nel mistero della fede, in quanto ritenuto troppo rigido e formale, troppo lontano nel linguaggio e nei simboli dalla vita reale delle persone. Una certa enfasi sul principio della partecipazione attiva, intesa in senso orizzontale come coinvolgere e far fare qualcosa a tutti, ha favorito la tendenza ad abolire ogni «codice della distanza», nella scelta dei canti, nella disposizione degli spazi, negli arredi e nei diversi linguaggi del rito.
    Dopo questa prima fase, a partire dagli anni '80 si è cominciato a percepire con maggiore evidenza come la questione liturgica non potesse essere risolta nella ricerca di una liturgia «più viva», nel senso di più vicina alla vita e alla cultura del popolo di Dio, ma dovesse al contempo andare alla ricerca di una liturgia «più vera», cioè meglio capace di avvicinare la vita della chiesa al mistero di Dio, elevandola a quella pienezza di vita ché scaturisce dal mistero pasquale, come da una sorgente di acqua viva. All'enfasi sul «comprendere» i riti e sul «coinvolgere» i partecipanti, che ha accompagnato i primi decenni della riforma, è succeduta una fase più consapevole circa l'importanza del «celebrare», inteso come un comprendere e un coinvolgere particolari. In questa logica, da più parti si è cominciato a invocare una capacità simbolica, un'arte di celebrare che fosse all'altezza del mistero celebrato: un'arte non soltanto preoccupata di «colmare il divario» tra la liturgia e la vita, ma pure impegnata nel compito di «alzare il sipario» della vita sulla vita divina, attraverso la singolarità del linguaggio liturgico.
    L'oscillazione di questa «doppia prossimità» alla vita e al mistero di Dio continua nelle fasi successive della riforma, a conferma di quanto la tensione tra le due dimensioni sia connaturale alla liturgia e, pertanto, non richieda un aut-aut tra cui scegliere ma un et-et da integrare.
    A partire dagli anni '90, fuori dell'Italia, e dagli anni 2000 in Italia, la ricerca di una liturgia più sacra e rispettosa del primato di Dio ha assunto la forma di un vero e proprio movimento (tanto minoritario quanto rumoroso) di «riforma della riforma», che non ha temuto di individuare nel recupero della tradizione rituale tridentina una via praticabile per riportare la liturgia rinnovata del concilio alla sua sorgente divina, ritrovando alcuni valori fondamentali come quelli dell'orientazione, dell'adorazione, del senso del sacro che riserva, protegge, vela e sottrae a ogni sguardo mondano e a ogni contatto maldestro. In questa prospettiva, il principio della prossimità del rito con la vita è decisamente messo sotto accusa, in quanto ritenuto foriero di pericolosi cedimenti antropocentrici. I pericoli di questa posizione sono opposti a quelli della prima fase: se prima il rischio era quello di non onorare la dimensione divina della liturgia (una liturgia troppo umana, che non alza il sipario sul mistero di Dio), ora il pericolo è quello di non rispettarne l'umanità profonda, allontanando il mistero cristiano dalla vita del popolo di Dio. Là dove, per rivolgersi a Dio, la liturgia volge le spalle al mondo, il rischio è quello di un mistero divenuto estraneo alla vita; di una liturgia a tal punto concentrata sul primato dell'azione di Dio da dimenticare che il mistero di Dio è rivelazione di una azione divina che si compie «per l'uomo»: un mistero pasquale di amore, perdono, vita donata per gli uomini e le donne che vivono in un dato tempo e in una determinata cultura. Si comprende perciò la delicatezza del linguaggio liturgico, chiamato – come ha sottolineato papa Francesco in una udienza ai professori italiani di liturgia – a rivolgere lo sguardo a Dio senza girare le spalle al mondo. [2]
    L'ultima tappa che contraddistingue il tempo che stiamo vivendo, riporta l'attenzione della chiesa sull'asse di una liturgia più fraterna e popolare, vicina alla vita. Anzitutto ci si può riferire al magistero di papa Francesco il quale, pur non entrando di petto nella questione liturgica, suggerisce in Evangelii gaudium (=EG) la strada di una liturgia più fraterna, materna, popolare: una liturgia non «mondana», vale a dire non ripiegata su di sé, in una cura ostentata dell'apparenza (EG 95); una liturgia materna, attenta alla cultura del popolo (EG 139-140); una liturgia fraterna, disponibile all'abbraccio di una fraternità mistica che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo (EG 92).
    In secondo luogo, si possono recuperare osservazioni che sorgono «dal basso», provenienti cioè da ampi e variegati settori ecclesiali dell'Italia e dell'Europa occidentale, consultati in occasione dei sinodi nazionali. Tali osservazioni lamentano di un linguaggio liturgico lontano ed estraneo alla vita, che fa percepire la liturgia come qualcosa di freddo, astruso, lontanissimo dalla sensibilità culturale odierna, non più in grado di parlare agli uomini e alle donne di oggi; un linguaggio dove i simboli diventano «puri simulacri» e dove le parole e i gesti, più che avvicinare, allontanano le persone dall'esperienza cristiana. Si tratta a ben vedere di critiche un po' troppo ingenerose, che rischiano di fare di ogni erba un fascio e non considerano realtà positive di accoglienza e reale comprensione del linguaggio liturgico. L'insoddisfazione che emerge e che si traduce nella richiesta di liturgie «più impastate con la vita quotidiana», è comunque significativa e degna di doveroso ascolto, in vista di un esame di coscienza che senza sbilanciamenti eccessivi mantenga in equilibrio il polo del mistero e quello dell'assemblea, la ricerca della prossimità con Dio e il valore della prossimità con la vita quotidiana.
    Questo principio di «doppia prossimità» è stato approfondito nella direzione di una «doppia proporzionalità» da rispettare e ricercare nella liturgia: una liturgia proporzionata alla sua natura di atto umano e insieme divino, che non può che essere adeguata insieme all'assemblea e al mistero. [3] Come la scala di Giacobbe, la liturgia ha la sua base ben piantata in terra (una liturgia con «i piedi per terra»), ma la sua cima si confonde con il cielo. Da qui una attenzione sempre più raffinata a mediare tra l'asse orizzontale di una liturgia che tenga conto della realtà umana dell'assemblea, della sua concretezza spazio-temporale, e l'asse teologale, chiamato a ordinare i linguaggi della celebrazione ai suoi contenuti e al suo soggetto trascendente. L'incrocio dei due assi richiede una mediane attenta tra la cultura antropologica dell'assemblea, con le sue caratteristiche proprie e variegate, e la specifica cultura biblico-liturgica della tradizione ecclesiale, che proprio grazie alla liturgia mantiene il contatto vivo del popolo di Dio con il deposito rivelato.

    3. La liturgia, esperienza di prossimità con gli altri e con se stessi

    Al principio della doppia prossimità e della doppia proporzionalità possiamo associare la categoria di «santità ospitale», utilizzata dal teologo francese Christoph Theobald per rileggere il vangelo e la persona stessa di Gesù. Si tratta di una categoria che può essere ben applicata alla liturgia, per esprimere il tratto fraterno e ospitale, appunto, dell'incontro liturgico con il tre volte Santo. In virtù di questa dimensione, le nostre liturgie, e in particolare le nostre eucarestie domenicali, sono chiamate a comprendere, nel cuore del mistero trinitario e pasquale, l'altro, il nostro prossimo, percepito e accolto come fratello e sorella in Cristo.
    Una delle grandi verità che, silenziosamente, la liturgia proclama è che per andare a Dio bisogna passare per i fratelli, e incontrando Dio si trovano i fratelli e le sorelle in una esperienza che permetta insieme di «vedere in Dio» i fratelli e le sorelle e di «vedere Dio» nella comunione con i nostri fratelli e sorelle. Questa unità tra Dio e i fratelli è ben visibile in quella che possiamo considerare la vetta e il modello della preghiera cristiana, costituito dalla preghiera del Signore: qui la preghiera rivolta al Padre include fin da subito il soggetto plurale («Padre nostro...», «dacci oggi...») e il fratello concreto («Rimetti a noi i debiti, come noi li rimettiamo...»), a scongiurare ogni deriva individualista e intimista della preghiera. Sul modello del «Padre nostro», anche la preghiera liturgica è tutta configurata al «noi» e nel cuore del mistero liturgico sono ben presenti gli altri, a bandire ogni individualismo nell'incontro con il Signore e nello stile di vita personale. Vale la pena richiamare, a tale proposito, le parole con cui papa Francesco in EG mette in guardia dal pericolo dell'individualismo postmoderno, che favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone. La traduzione liturgica di tale monito è un invito a considerare l'altro nella liturgia non come un impedimento all'incontro con Dio, ma come il tramite necessario perché questo avvenga e il luogo nel quale questo incontro avviene. Con la scusa che si va in chiesa per pregare e non per incontrarci tra di noi, si rischia di ignorare la proposta «di riconoscere l'altro, di sanare le ferite, di costruire ponti», stringendo relazioni e aiutandoci a portare i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6,2; EG 67). La liturgia cristiana ha certo una dimensione mistica, di incontro con il Signore che passa attraverso il raccoglimento interiore, cercando profondità e intensità di preghiera. Ma l'esperienza liturgica ci ricorda in ogni momento e in tutti i modi che la mistica cristiana è una «mistica dagli occhi aperti» (Metz), anche se prevede momenti in cui gli occhi si socchiudono: per questo motivo è necessario correlare, nell'unità dello Spirito, l'intus del «castello interiore» con l'inter della domus ecclesiae, anch'essa fatta di stanze, porte e passaggi, nei quali l'anima non è solitaria. Nella liturgia si prega, si risponde e si canta insieme: certo, si sta anche da soli, presso sé stessi e dentro se stessi, ma insieme all'altro. Il rischio che la presenza dell'altro possa essere motivo di distrazione e allontanamento dalla preghiera è da mettere in conto. Ma è oltremodo necessario che la preghiera cristiana e la relazione con Dio sia una preghiera e una relazione che non mettono da parte la storia, ma includono l'altro, a intrecciare e unificare – come nei due assi della croce – il duplice comandamento dell'amore verso Dio e dell'amore verso il prossimo.
    Figura paradigmatica di questa unità tra prossimità con il Signore e prossimità con i fratelli è la comunione eucaristica, così come ci viene descritta da san Paolo («Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo»: 1Cor 10,17) e dalla liturgia stessa. Ne è testimonianza eloquente la dinamica epicletica della preghiera eucaristica, che dalla supplica per la trasformazione delle offerte nel corpo eucaristico del Signore («Santifica questi doni... perché diventino il corpo e sangue di Cristo»), passa alla supplica per la trasformazione dei partecipanti nell'unico corpo ecclesiale attraverso la comunione all'unico pane spezzato: «A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito» (Preghiera eucaristica III). Figura altrettanto paradigmatica di tale unione è quella dell'evento battesimale, tanto personale quanto comunitario. Lo annuncia san Paolo, nel ricorso all'immagine del rivestimento: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,27-28). Lo realizza la liturgia battesimale che, attraverso i suoi gesti e i suoi linguaggi, parla di una duplice immersione, in Cristo e nella chiesa.
    Il fatto, poi, che la liturgia sia tendenzialmente uno dei luoghi più ospitali della comunità cristiana, dal momento che pressoché chiunque può eAtrare e prendere parte a una celebrazione senza dover esibire appartenenze, conoscenze, biglietti di ingresso o di invito, è oltremodo significativo di una prossimità non escludente ma tendenzialmente inclusiva, per quanto si tratti di una esperienza che richiede un certo grado di iniziazione per potervi partecipare pienamente. Anche la disponibilità da parte della chiesa a offrire con una certa generosità i sacramenti dell'iniziazione cristiana può essere riletta nel segno di tale apertura a un vangelo di prossimità, che sa di essere rivolto sempre anche alle «folle» di ogni tempo e non solo ai «discepoli».
    Finalmente, questa apertura costitutiva all'altro da parte della liturgia non intende in alcun modo disprezzare o oscurare la dimensione personale della preghiera e dell'incontro, che si esprime liturgicamente nei codici spazio-temporali della prossemica (non troppo distanti, ma neppure troppo attaccati agli altri), del silenzio (della voce, del corpo), in quelle pause e in quegli «indugi simbolici» (Terrin) che permettono di percepire l'unità fondamentale che si dà tra l'atto liturgico e lo stato di preghiera, l'esterno e l'interno, l'io e l'altro, nello spazio e nella dimora di Dio.

    * Direttore Ufficio liturgico Torino


    §NOTE

    1 PAPA FRANCESCO, Desiderio desideravi n. 19.
    2 Cf. L. GIRARDI (a cura di), A servizio della liturgia. 50 anni di APL, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2023, p. 242.
    3 Cf. F. CASSINGENA-TREVEDY, La liturgia arte e mestiere. Qíqajon – Comunità di Bose, Magnano (BI) 2011, pp. 77-91.


    (FONTE: Orientamenti pastorali 1-2/2024, pp. 69-77)


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