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    La Domenica

    giorno della Chiesa

    L’Eucaristia

    cuore della Domenica

    Bruno Forte

     

    Perché i martiri di Abitene – voce dei discepoli di Cristo d’ogni tempo – affermano: “sine dominico non possumus” (Acta martyrum, cap. XII)? Che cosa li spinge a dare la vita piuttosto che rinnegare il pane del cielo (“dominicum [corpus - mysterium]”), il giorno del Signore (“dominicum [diem]”), e l’assemblea santa, centro e cuore di esso? La risposta a queste domande si muove su tre piani: i martiri hanno compreso che il tempo è lo splendore di Dio e la domenica lo splendore del tempo; inoltre, essi percepiscono che se la Chiesa è il sacramento del mondo, la domenica è giorno della Chiesa in quanto celebrazione del senso della vita e della storia in rapporto all’eterno; infine, al centro della domenica, giorno della Chiesa, rivelazione del tempo, essi riconoscono l’eucaristia, culmine e fonte della vita ecclesiale, luogo della bellezza che è la salvezza del mondo. Su chi presiede l’eucaristia per disposizione divina e nella continuità della successione degli Apostoli e su chi vi partecipa con fede si proietta così una luce, che rischiara il senso della loro missione in rapporto al mondo e alla Chiesa, al servizio della storia della salvezza personale e di tutti. 

     

    1. Il tempo splendore di Dio e la domenica,  splendore del tempo 

    È lo splendore del Risorto – il Figlio eterno entrato nel tempo e passato attraverso quella fine del tempo, che è la morte, per uscirne vittorioso la Domenica di Pasqua – a illuminare il tempo come splendore d’eternità, impronta del dinamismo delle relazioni in Dio. In quanto evento dell’amore eterno, la Trinità vive di una provenienza, di un avvento e di un avvenire eterni: il Padre, sorgente della vita, è la provenienza silenziosa e irradiante dell’essere temporale, come del divenire eterno; il Figlio, recettività infinita, è l’accoglienza ospitale di ogni dono perfetto, e perciò la condizione di possibilità dell’esistenza della creatura in quanto dono di Dio, che il Suo avvento fra gli uomini rivela pienamente; lo Spirito è Colui nel quale il creato è chiamato ad esistere come altro da Dio non separato da Dio, autonomo e libero dinanzi a Lui ed insieme legato a Lui dal vincolo costitutivo del permanente venire della vita.

    Nella luce pasquale si lascia così cogliere nel tempo l’impronta dell’eterna Provenienza, dell’eterna Venuta e dell’eterno Avvenire di Dio: lo splendore della Trinità viene a riflettersi sulla creatura nel suo essere temporale, nel suo “instabile stare” fra una provenienza e un avvenire come “evento” sempre nuovo dell’esistere. Che il tempo sia il riflesso privilegiato della Gloria divina sulla creature è peraltro convinzione della fede biblica, tanto del Primo, quanto del Nuovo Patto: “È nella dimensione del tempo che l’uomo incontra Dio e diventa cosciente che ogni istante è un atto di creazione, un Inizio, che schiude nuove vie per le realizzazioni ultime. Il tempo è la presenza di Dio nello spazio, ed è nel tempo che noi possiamo sentire l’unità di tutti gli esseri”[1]. Il tempo è la perenne novità del dono che l’Eterno fa alla creatura dell’esistenza, dell’energia e della vita, l’atto della continua creazione, l’eternità che si proietta nello spazio: “Assistere all’eterna meraviglia della creazione del mondo significa sentire in ciò che è dato la presenza del Donatore, comprendere che la sorgente del tempo è l’eternità, che il segreto dell’essere è l’eterno che è nel tempo”[2].

    È Agostino che ha avuto l’intuizione grandiosa del tempo come dimensione dell’interiorità, in cui si riflette il movimento dell’amore eterno: solo il presente esiste, riflesso fugace dell’eternità, attimo sempre nuovo in cui il futuro trapassa nel passato, l’uno e l’altro trattenuti nel presente nella forma rispettivamente della memoria e dell’attesa. Fra provenienza e avvenire, il tempo è avvento sempre nuovo, istante in cui si riflette l’eternità come origine e come patria nella fugacità del divenire delle creature. Presente del passato, presente del presente, presente del futuro (memoria, contuitus, expectatio), il tempo non è che dilatazione (distensio) dell’anima, evento dell’interiorità, che abbraccia nell’unità del suo atto la propria provenienza e il proprio avvenire[3]. Agostino radica così il tempo in quello stesso spirito, nel quale riconosce le vestigia della Trinità nella forma della memoria, dell’intelligenza e della volontà (memoria, intelligentia, amor)[4]: in tal modo egli sottrae la concezione della temporalità all’intimismo soggettivistico e all’incomunicabilità, perché l’interiorità in cui si pone il tempo è l’interiorità stessa del mondo in quanto creatura di Dio e non una semplice, soggettiva dimensione dell’anima.

    Il tempo rivela così la nascosta profondità di tutto ciò che esiste, la dimora del creato nel mistero divino, la sua chiamata a divenire sempre più la dimora di Dio, fino all’ottavo giorno, la Domenica senza tramonto, in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15,28). Se lo spazio rimanda alla “terra” nella sua autonomia e nella sua pesantezza dinanzi al Creatore, il tempo rimanda al “cielo”, come origine, grembo e destino del mondo, come dimensione ineliminabile dell’interiorità e della profondità della vita creata. È per questo che è il tempo a vivificare lo spazio, pervadendolo col “gemito della creazione” che tende a superarne la costitutiva caducità, liberandolo dalla schiavitù della corruzione per la via dell’interiorità aperta al mistero del Creatore, che conduce alla libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,18ss.). Ciò avviene non fuggendo le forme dello spazio, ma redimendole dal di dentro, santificando il “qui ed ora” con la nostalgia e l’attesa dell’eternità. Non è il tempo quantificato che darà l’anima al mondo, e cioè il mero succedersi cronologico degli istanti legati allo spazio (“kronos”), ma il tempo qualificato, l’ora della decisione e dell’accoglienza della grazia (“kairòs”), che trasforma l’esteriorità dello spazio in interiorità della vita, l’istante cronologico del tempo “pesante” nel tempo lieve della salvezza, “oggi” dell’eternità: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2 Cor 6,2).

    Questo tempo qualificato, pregno della decisione per Dio e dello stupore accogliente davanti al Suo avvento, è per eccellenza quello della “festa”, del giorno che di settimana in settimana ci fa pregustare l’incontro con l’eterna bellezza di Dio. In realtà, fra tutte le creature l’uomo è la sola capace di celebrare la festa, di santificare cioè la continuità dello spazio interrompendola dal di dentro con la dimensione del tempo, grazie all’atto del suo libero destinarsi all’Altro trascendente e sovrano: la creatura personale che si decide per l’Eterno in un movimento di trascendenza e di dono, “ha tempo per Dio”. È questo tempo della decisione interiore a qualificare il giorno che passa con lo splendore dell’eternità: esso fa uno con l’amore, amore della verità eterna, coscienza di un destino che vince il dolore e la morte. È il tempo come memoria e come attesa, di cui dà testimonianza l’imperativo “non dimenticare”, caro alla tradizione ebraica: è il tempo come grazia e come dono, cui solo può corrispondere la grata letizia del cuore. È il tempo “lieve”, che fa ricordare la bellezza dell’inizio e pregustare la bellezza del compimento finale, caro all’esperienza dei mistici e degli spirituali.

    Forma privilegiata di questo tempo “lieve” è per la coscienza ebraica la “sosta” del Sabato, vera e propria rivelazione del tempo: “Lungo tutto l’arco della settimana siamo sollecitati a santificare la nostra vita impiegando le ore dello spazio. Nel giorno del Sabato ci è dato di partecipare alla santità che è nel cuore del tempo. Anche quando l’anima è indurita, anche quando dalla nostra gola rinsecchita non esce alcuna preghiera, il riposo pulito e silenzioso del Sabato ci conduce a un regno di infinita pace, o alla fonte di consapevolezza di ciò che significa l’eternità... L’eternità esprime un giorno”[5]. Nella concezione ebraica il Sabato è il giorno della menuchà, del riposo di Dio (cf. Gen 2,2 ed Es 20,11): la pace sabbatica è il compimento del lavoro umano come riflesso del compimento del lavoro del Creatore, è riposo come riconciliazione del mondo e dell'uomo in Dio, è esperienza rigenerante dell'eternità nel tempo, è sguardo retrospettivo che si tuffa nella serena e riconciliante memoria del Santo.

    Se il Sabato ebraico è il giorno ultimo, la Domenica cristiana è il primo: se l’uno è il tempo sacro del riposo dell'uomo e della creazione, l’altra è l'ora di grazia del nuovo inizio del mondo, la festa della creazione rinnovata. La Domenica, giorno della risurrezione di Cristo, è il giorno del riposo come slancio ritrovato, è la rigenerazione del desiderio e dell’attesa di Dio. Perciò, lungi dall'opporsi, i giorni della festa del Primo e del Nuovo Patto rinviano l’uno all'altro: "Il giorno del compimento della creazione si aprirà al giorno della nuova creazione e il primo giorno della nuova creazione presupporrà il giorno del compimento della creazione originaria"[6]. L’“ottavo giorno”, primo dopo il settimo, sarà allora per eccellenza tempo di levità e di bellezza, rivelazione del tempo come irruzione d’eternità: se il tempo è lo splendore di Dio, la domenica – giorno della resurrezione del Figlio eterno – sarà lo splendore del tempo. Anticipo d’eterno, la festa settimanale in cui si pregusta la Domenica senza tramonto nutrirà e sosterrà l’esperienza di chi vuol farsi ostaggio dell’eternità nell’inesorabile volgere del tempo.

    In questo senso, la vita di fede, vissuta come sete dell’eterno nella fedeltà all’oggi, ha bisogno della Domenica per educarsi a vivere ed amare la grazia d’un tempo lieve, d’una tappa lieta, leggera ed insieme gravida della futura, nascosta bellezza di Dio. È così che il discepolo impara a vivere i giorni feriali col cuore della festa, a fare dell’attimo donato anticipo d’eterno. È così che nel tempo fiorisce la santità, il separarsi per destinarsi all’altro da sé, all’amore più grande che vince la caducità e la morte: non a caso, nell’opera dei sei giorni, l’unica cui è attribuito la qualificazione della santità è il Sabato (cf. Gn 2,3). Nello spazio del giardino delle origini, la santità è legata al tempo: nello spazio del mondo decaduto, redento dal Risorto, sarà perciò ancora il tempo a essere la forma della santità, dove la decisione per l’eterno qualifica l’istante e lo volge dalla caducità della morte alla promessa della vita, in unione al cammino pasquale di Cristo. 

     

    2. La domenica giorno della Chiesa, “sacramento” del mondo 

    Se la domenica è lo splendore del tempo, il rivelarsi delle sue potenzialità di partecipazione alla vita eterna di Dio, essa è per eccellenza il giorno della Chiesa, che del mondo e del suo divenire temporale è il “sacramento”, la densa rappresentazione davanti all’Eterno e lo strumento del suo agire fra gli uomini[7]. Come la Chiesa possa essere sacramento del mondo e della sua temporalità destinata all’Eterno, lo mostra l’originale concezione biblica del rapporto fra il divino e il mondano: “Il Dio biblico è ritiro, e il mondo accade perché egli si ritira”; il ritirarsi di Dio è “differenziazione creatrice”[8]. È convinzione della fede biblica che solo la “kènosi” dell’amore eterno, il ritrarsi libero e gratuito del Signore di tutto consenta all’essere temporale e finito di venire all’esistenza e di permanere in essa nella contingenza della libertà. È questo il motivo ispiratore della dottrina giudaico-cabalistica dello “zim-zum” divino, secondo la quale il mondo è potuto apparire proprio perché Dio gli ha “fatto spazio”[9]. Per creare l’altro come partner dell’alleanza, l’Eterno accetta di contrarsi in un atto di sovrana auto-limitazione in modo che la creatura possa esistere “al di fuori di Lui”: lo spazio dell’abbandono di Dio diventa l’ambiente vitale dell’autonomia dell’essere creato, la condizione della sua libertà. Dio nasconde il Suo volto perché l’interlocutore del patto non resti accecato dalla Sua luce: Dio si ritrae perché il suo ostendersi non bruci come fuoco la differenza fra il finito e l’eterno.

    L’auto-limitazione dell’Eterno fa sì che la creatura esista: che ciò non sia riduttivo per l’assolutezza divina lo dimostra la fede cristiana nella morte e resurrezione del Figlio. La kènosi del Verbo fino al suo supremo abbandono sulla Croce lascia intravedere un mistero di insondabile umiltà divina: il Dio trinitario “fa spazio” in se stesso alla Sua creatura perché questa venga all’esistenza. L’assoluta gratuità dell’amore, che motiva il Padre a porre l’atto creatore, lo spinge ad auto-limitarsi perché la creatura esista nella libertà. All’umiltà donante del Padre corrisponde l’umiltà accogliente del Figlio: Dio si limita donando la vita e accettando la morte. L’unità di questa vita donata e di questa morte accettata è l’evento dello Spirito: l’auto-limitazione del Padre e la dolorosa consegna del Figlio si compiono nel vincolo del Loro infinito amore, come separazione che nasce dall’infinita comunione e la rivela nel segno del contrario. In questo senso, ricco della profondità abissale del mistero trinitario, va interpretata l’invocazione che Francesco rivolge al Dio vivente nelle Lodi di Dio Altissimo: “Tu sei trino e uno, Signore Iddio... Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene... Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà...”[10].

    Espressione concreta di questa divina umiltà è la permanenza nel tempo del segno sacramentale della presenza e dell’agire della Trinità in esso, la Chiesa: essa è il sacramento dell’amore divino per ogni creatura, il luogo dell’incontro vivo e denso con la Grazia offerta per la salvezza di chiunque creda, e proprio così la comunità dell’alleanza che – quale segno levato fra i popoli – ricorda e dona al mondo la carità dei Tre che sono uno, mentre ricorda ed offre a Dio il desiderio del mondo e il cammino dei cuori inquieti verso la patria eterna. In tal modo, la Chiesa è tanto icona della Trinità fra gli uomini, quanto cifra del loro divenire temporale aperto alla nostalgia e al dono della meta celeste: la Chiesa è il sacramento del tempo che anela all’Eterno, nell’atto stesso in cui è il sacramento dell’eternità nel tempo. Proprio così la domenica, splendore del tempo, è per eccellenza il giorno della Chiesa, in cui essa si manifesta al mondo come il terreno dell’avvento di Dio, il luogo dell’alleanza in cui il giorno senza tramonto trapassa nei giorni della storia e questi si aprono alla domenica radiosa e splendida della Gerusalemme del cielo. E questo la domenica lo è non solo perché è il giorno della risurrezione, in cui una volta per sempre e in pienezza l’eternità ha abitato  nel tempo, ma anche perché è il giorno in cui il Risorto incontra la comunità dei suoi.

    È Lui che la convoca; è Lui che incontra i discepoli nella celebrazione eucaristica; di Lui essi si nutrono nella Parola e nel Sacramento; a Lui desiderano conformare la loro esistenza; di Lui vogliono essere testimoni in mezzo ai fratelli. La celebrazione eucaristica domenicale, allora, non è solo epifania della Chiesa quale “sacramento” di Dio e del mondo, ma è anche il luogo in cui la Chiesa è continuamente edificata e cresce con tutta l’umanità verso la Gerusalemme del cielo. L’assemblea domenicale diviene, pertanto, essa stessa memoriale della Pasqua del Signore, che ha radunato i figli di Dio dispersi, abbattendo con il sangue della sua croce il muro dell’inimicizia che li separava; e diviene profezia, segno, cioè, di speranza per l’umanità; segno che è possibile e verrà il giorno in cui, superate tutte le contrapposizioni, uomini diversi per razza, cultura, colore, lingua, ceto, militanza politica, potranno sedere alla stessa mensa, stringersi la mano, condividere il pane della fraternità e cantare insieme il cantico nuovo dell’Agnello. 

     

    3. L’eucaristia, centro della domenica, cuore della Chiesa 

    Al cuore della Chiesa, sacramento del tempo, c’è dunque la domenica: al centro della domenica, splendore del tempo, c’è l’eucaristia. L'ottavo giorno, il giorno della resurrezione di Cristo e dei redenti in Lui, trova proprio nel pane di vita il pegno nutriente della Domenica senza tramonto delle definitiva creazione rinnovata: e questo pane alimenta nel profondo e plasma dal di dentro il popolo dei pellegrini di Dio, che con la loro fede e il loro amore tirano nel presente degli uomini il domani della promessa del Signore. Celebrare l’eucaristia nel giorno del Signore è allora esigenza profonda e necessità assoluta di una fede veramente ecclesiale, che si riconosca invitata alla festa dell'uomo col suo Dio insieme all'universo intero, nel superamento delle lacerazioni antiche, nel rinnovamento dei rapporti fra gli uomini, nel coraggio di nuovi inizi conformi al disegno dell'Altissimo. L'avvenire di Dio viene a prendere corpo nel presente del mondo nella celebrazione eucaristia domenicale e i giorni feriali vengono illuminati e redenti dal giorno della festa, pegno e anticipazione del domani dell'universo totalmente partecipe della nuova creazione nella Trinità. Nella celebrazione domenicale la bellezza eterna si fa presente nel tempo degli uomini e lo attrae verso di sé! Questo avviene in tre direzioni.

    In quanto l’eucaristia è il memoriale della Pasqua di Gesù, in cui, obbediente al comando del Signore, la Chiesa fa “memoria” di Lui (cf. Lc 22,19 e 1 Cor 11,24s), il “già” della Pasqua si ripresenta nella celebrazione del popolo di Dio pellegrino nel tempo per attuare nell’oggi la riconciliazione salvifica. E come nell’evento pasquale è la Trinità ad operare, così nel memoriale eucaristico è l’agire trinitario a farsi presente: la Chiesa invoca il Padre “veramente santo e fonte di ogni santità” perché mandi lo Spirito sui doni del pane e del vino e renda presente in essi sacramentalmente il Cristo sofferente e glorificato (epiclesi consacratoria e memoriale della Cena del Signore). Per la partecipazione a questi santi doni, la Chiesa sa di venire edificata in “un solo corpo e un solo spirito” (epiclesi fruttificante). Nell’eucaristia la Chiesa celebra così la memoria potente della sua origine, di quell’iniziativa trinitaria dell’amore, che l’ha posta nel tempo come segno e strumento di unità per tutto il genere umano.

    Proprio così l’eucaristia è sorgente di bellezza: lo è anzitutto per il sacerdote celebrante, che mediante la continuità ininterrotta della successione apostolica, nella quale è inserito attraverso l’ordinazione, è legato all’unico sommo ed eterno Sacerdote, il Pastore bello che nella sera della Cena confidò ai suoi apostoli e ai loro successori il mandato di celebrare il Suo memoriale per la salvezza del mondo. La presidenza nella celebrazione del memoriale eucaristico non è semplicemente “funzionale”, ma si radica in una realtà ontologica, nel mistero della configurazione sacramentale dell’ordinato al “bel Pastore”, Cristo sacerdote, “in modo che egli possa agire in persona di Cristo capo” del corpo ecclesiale (Presbyterorum Ordinis, 2). È perciò che il presbitero - in forza della sua stessa condizione di presidente dell’eucaristia - è chiamato a porsi per primo ed in maniera esemplare nell’attitudine recettiva del dono di Dio, attraverso lo spirito di azione di grazie e la profondità contemplativa della vita: “presiedere” è in questo senso soprattutto “ricevere”, lasciarsi inondare dalla bellezza di Cristo per irradiarla a tutti.

    Insieme a colui che presiede “in persona Christi Capitis”, è però l’intera comunità ad essere chiamata ad accogliere il dono: si radica qui la vocazione di ogni cristiano ad essere esperto nell’ascolto e nell’accoglienza dei doni dello Spirito, “homo eucharisticus” nella totalità del suo essere e del suo agire, impegnato al tempo stesso a discernere e testimoniare i segni della bellezza di Dio nella vita della Chiesa e del mondo. “Esistenza accolta” nel riconoscimento del dono dall’alto, il sacerdozio battesimale e ministeriale è non di meno “esistenza donata”: la celebrazione dell’eucaristia costituisce i discepoli nella stessa condizione in cui si è posto Gesù nell’ultima cena, quella del Servo per amore. La Chiesa, che da questo memoriale è generata ed espressa, deve allora comunicare alla sorte del Servo, diventando essa stessa serva: mangiando il corpo donato deve diventare, per la forza che esso le comunica, corpo ecclesiale donato, corpo per gli altri, corpo offerto per le moltitudini. La bellezza che salva, offerta specialmente nell’eucaristia domenicale, si fa, così, eloquente specialmente nel dono della vita quotidianamente offerta per amore: la carità, in cui il Bel Pastore si fa prossimo ai suoi, è il vero volto della Chiesa generata dall’eucaristia. Non a caso, perciò, il termine “agàpe” designava nella Chiesa delle origini tanto il memoriale della Cena del Signore, quanto la comunità fraterna da esso generata ed espressa.

    In secondo luogo, l’eucaristia è convito sacrificale: la Chiesa nascente testimonia di aver percepito chiaramente questo aspetto: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Cor 11,26). Già sul piano dei segni il pane della Cena è il pane della fraternità, come il calice di vino esprime la condivisione della stessa sorte: nella tradizione giudaica la comunità conviviale è comunione di vita, e il calice è l’immagine della sorte dolorosa di un uomo. La frazione del pane, con la distribuzione a ciascuno, e la partecipazione allo stesso calice di vino sono segno di una profonda solidarietà nella comunanza di sorte. Gesù lega così esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia al banchetto della fraternità: il memoriale pasquale risulta ecclesiale nel suo stesso segno e per suo mezzo. Ne consegue che la celebrazione della memoria del Signore esige e fonda la comunione dei convitati a Cristo e fra di loro: la comunione ai santi doni (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale neutro) produce la comunione dei santi (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale personale).

    La Chiesa è la “communio sanctorum”, perché partecipando mediante l’economia sacramentale - di cui è vertice e sorgente l’eucaristia - all’unico Spirito ( “communio Sancti”), i battezzati sono arricchiti dalla varietà dei suoi doni, orientati tutti all’utilità comune (comunione dei santi). Questi doni incessantemente lo Spirito li distribuisce a ciascuno come vuole: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1Cor 12,7). In forza del battesimo, che nello Spirito lo configura a Cristo a gloria del Padre, ogni cristiano è un “carismatico” , che deve riconoscere e accogliere il dono di Dio. Nessun battezzato, perciò, ha diritto al disimpegno, perché ognuno è per la sua parte dotato di carismi da vivere nel servizio e nella comunione. Nessuno ha diritto alla divisione, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1Cor 12,4-7). Nessuno ha diritto alla stasi e alla nostalgia del passato, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante, è la novità di Dio, il Signore del futuro del tempo. Ne consegue lo stile di una Chiesa aperta allo Spirito e alle sue sorprese: se tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono comunicarlo, impegnandosi in vista della crescita della Chiesa nella comunione e nel servizio. Se la Chiesa che nasce dall’eucaristia domenicale non è e non sarà mai un campo di morti, essa non è neanche il luogo delle avventure individuali: la fedeltà allo Spirito esige la coraggiosa e paziente crescita in comunione con tutti.

    Nell’ambito di questa ministerialità ricca e molteplice, espressa e nutrita dall’eucaristia, cuore della domenica, il ministro ordinato, presiedendo l’eucaristia, discerne e coordina i carismi, servendo in tal modo l’unità del Corpo, che è la Chiesa. Diverso essenzialmente da ogni altro ministero, perché rende presente il Cristo come Capo del Corpo ecclesiale, mentre gli altri ministeri realizzano la varietà delle membra, il ministero ordinato è propriamente il ministero dell’unità: non sintesi di ministeri, ma ministero della sintesi, come mostra efficacemente proprio la celebrazione eucaristica. Il vescovo - supremo liturgo della Chiesa locale - è il segno e il servo dell’unità realizzata dallo Spirito nell’eucaristia: lo è all’interno della comunità eucaristica locale; e lo è nel rapporto alle altre Chiese, a loro volta espresse dai rispettivi vescovi. La comunione delle Chiese è così manifestata e servita dalla collegialità dei loro vescovi, che si struttura intorno al ministero di unità del vescovo di Roma, la Chiesa che “presiede nell’amore” (S. Ignazio di Antiochia), nella comunione eucaristica della Chiesa cattolica presente su tutta la terra. Questa comunione - per quanto possa essere a volte sofferta - è il segno della bellezza di Dio che unisce i cuori di quanti ne hanno fatto esperienza e può offrirsi - specialmente nella festa domenicale - come buona novella a un mondo, che spesso sembra essere una folla di solitudini!

    Infine, il memoriale, che Gesù confida ai Suoi Apostoli, è pegno della gloria futura, “panis viatorum”, pane dei pellegrini e nutrimento della speranza, che non delude. Mangiando il pane e bevendo al calice dell’eucaristia i discepoli annunziano la morte del Signore fino a che Egli ritorni (cf. 1 Cor 11,26). Il banchetto della nuova Pasqua rimanda a un altro banchetto, quello definitivo del Regno, di cui è anticipazione e promessa e verso il quale fa lievitare la storia. L’eucaristia è, in tal senso, il sacramento della speranza del mondo, l’anticipazione della bellezza senza tramonto promessa alla creazione intera! L’eucaristia come “pegno della gloria futura” viene così a segnare in vario modo la vita del discepoli, ritmandola di domenica in domenica nel suo cammino verso la Patria: in primo luogo, in quanto il banchetto eucaristico fa lievitare il “già” verso il “non ancora”, esso comporta in chi lo celebra una profonda e continua purificazione e un incessante rinnovamento. Il “panis viatorum” richiama la Chiesa continuamente al suo stato di pellegrina, liberandola dall’illusione di essere già ora “in patria”, mentre sostiene l’esodo del tempo presente e lo illumina della promessa di Dio: così, esso spinge la Chiesa alla continua riforma e al rinnovamento incessante e la rende vigile e critica di fronte a ogni presunta grandezza di questo mondo.

    Proprio così, il pane eucaristico, nutrimento dei pellegrini verso la città di Dio, è pane della speranza (“fármakon athanasías” – “medicina di immortalità”, dicevano i Padri greci) che rende il discepolo libero nella fede rispetto a ogni potere terreno e lo fa servo per amore. Il richiamo della fine, rappresentato di domenica in domenica dal memoriale eucaristico, insegna alla Chiesa a relativizzare le grandezze di questo mondo: nella forza del pane di vita, tutto va sottoposto al giudizio della Croce e della Resurrezione del Signore. In nome della sua meta più grande, la Chiesa generata dall’eucaristia dovrà essere critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo: presente ad ogni situazione umana, solidale con il povero e con l’oppresso, non le sarà lecito identificare la sua speranza con qualcuna delle speranze della storia. Questo non significherà disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che è chiesta alla Chiesa è ben più costosa ed esigente. Sta qui l’ispirazione profonda che la celebrazione domenicale dell’eucaristia offre alla presenza cristiana nei differenti contesti culturali, politici e sociali: in nome della speranza più grande, la Chiesa non può identificarsi con alcuna ideologia, con alcuna forza partitica, con alcun sistema, ma di tutti deve saper essere coscienza critica, richiamo dell’origine e della fine, stimolo affinché in tutto si tenda a sviluppare tutto l’uomo in ogni uomo.

    Infine, il richiamo della fine offerto nel pane di vita spezzato ogni domenica per tutti  riempie la Chiesa di gioia: essa esulta già nella speranza, che il pegno della gloria promessa ha acceso in lei. Essa sa di essere l’anticipazione militante di quanto è stato promesso nella Resurrezione del Crocifisso. Non c’è sconfitta, non c’è vittoria della morte, che possa spegnere nella comunità dei credenti la forza della speranza: l’ultima parola è garantita nella vicenda di Pasqua come parola di gioia e non di dolore, di grazia e non di peccato, di vita e non di morte. Come i pellegrini di Sion, i cristiani in ogni tappa domenicale ravvivano la coscienza di essere in cammino verso una meta bella, alla quale giungeranno per la grazia del Signore: “Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!” (Sal 122,1). Dio ha tempo per l’uomo e costruisce con lui la sua casa! La Gerusalemme, sospirata ed attesa, scende già dal cielo: ai credenti resta il compito di vivere il mistero dell’Avvento nel cuore della vicenda umana.

    Non potrà mancare, certo, l’ora della prova ed anche dell’apparente trionfo della morte: ma la Chiesa sa che, dietro le nuvole della tempesta, resta vivo il sole dorato, Cristo risorto, che già ha vinto e vincerà la morte. Dentro le tenebre del presente egli è vivo e operante nel pane di vita. È  Lui la fonte, inesauribile e vittoriosa di ogni prova, della gioia del cristiano, Lui, che nell’eucaristia domenicale viene a rinnovare il cuore dei discepoli e della Chiesa tutta. Verso di Lui essa sospira: “Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!”. A lei egli risponde: “Sì, vengo presto” (Ap 22,17.20). Perciò – come dicono i martiri di Abitene – senza il pane domenicale, senza la comunità che lo invoca e lo riceve, senza il giorno radioso e splendido della festa dell’incontro, non è possibile vivere: “Sine dominico non possumus”. Quel pane, quell’assemblea, quel giorno è tutto: è la vita, è il senso di ogni scelta, di ogni passo. È la presenza di Cristo fra noi, che per chi la riconosce e l’accoglie è pegno e anticipo della bellezza che salverà il mondo e non avrà mai fine.



    [1] A. Heschel, Il Sabato, Rusconi, Milano 1987, 148.

    [2] Ib., 155.

    [3] Cf. il libro XI delle Confessiones, che è per intero il libro del tempo.

    [4] Cf. ad esempio De Trinitate, 15, 23, 43.

    [5] A. Heschel, Il Sabato, o.c., 163.

    [6] J. Moltmann, Dio nella creazione, Queriniana, Brescia 1986, 339s.

    [7] Cf. B. Forte, La Chiesa nell’Eucaristia, D’Auria, Napoli 19882; Id., La Chiesa icona della Trinità, Editrice Queriniana, Brescia 20038; Id., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione, san Paolo, Cinisello Balsamo 19952.

    [8] P. Gisel, La creazione, Marietti, Genova 1987, 228.

    [9] Cf. la presentazione di questa tradizione in G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, 270ss. J. Moltmann riprende questa dottrina in Trinità e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 1983, 120ss., ed in Dio nella creazione, Queriniana, Brescia 1986, 109ss.

    [10] Lodi di Dio Altissimo, in Fonti Francescane, Edizioni Messaggero, Padova 1980, 177.


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