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     Il Salterio ritma

    la vita quotidiana

    e segna la storia

    della cristianità

    Gianfranco Ravasi

    Scrisse Kierkegaard: «Gli antichi dicevano che pregare è respirare.
    Si vede, così, quanto sia sciocco voler parlare di un motivo.
    Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera»

    Era il 1970; avevo da poche settimane lasciato Roma e i miei studi accademici di teologia e di esegesi e avevo appena iniziato a insegnare nei seminari milanesi: ebbene, la prima, impacciata conferenza che fui invitato a tenere in una parrocchia fu proprio sui Salmi. Passò poi un paio d’anni e per tutto quel periodo non scrissi che qualche striminzito articolo o sussidio pastorale: il primo libro in senso stretto recante il mio nome fu proprio un commento essenziale a una cinquantina di Salmi. Posso dire che da quelle origini ormai lontane il Salterio è stato per me una sorta di 'abitudine' spirituale e umana, esegetica e poetica, intendendo per 'abitudine' quello che confessava nei suoi «Frammenti del diario intimo» lo scrittore svizzero ottocentesco HenriFrédéric Amiel: «è una massima vivente che diventa istinto e carne».
    Da allora, infatti, ai Salmi ho dedicato infinite ore della mia vita, conferenze e, credo, più di quattromila pagine: la trilogia di tomi che le Dehoniane pubblicarono tra il 1981 e il 1984, ininterrottamente riedita (fino a pochi mesi fa, nell’ennesima ripresa) da sola totalizza quasi tremila pagine. D’altronde, bisognerebbe riconoscere da parte di tutti i cristiani ai quali la Chiesa ha consegnato, ricevendolo dall’Israele di Dio, il Salterio come preghiera quotidiana la validità della suggestiva osservazione del filosofo Soeren Kierkegaard: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Si vede, così, quanto sia sciocco voler parlare di un perché. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera».
    Ecco, dunque, la ragione secondo la quale il libro dei Salmi non dovrebbe mai staccarsi dalla nostra quotidianità. Se poi si volesse articolare e documentare maggiormente questa necessità radicale, oserei dire 'fisiologica', potrei proporre due profili sostanziali. Innanzitutto i Salmi sono poesia e musica, come dice già il termine greco stesso Psalmoi che è stato adottato per titolarli. Sono veri e propri canti da far risuonare 'con arte', come si suggerisce in uno di essi (47, 8), anzi da accompagnare con l’orchestra del tempio, secondo quanto appare nella grandiosa composizione finale, scandita da un alleluia corale modulato su trombe, arpe, cetre, timpani, corde, flauti, cembali (e il pensiero corre all’imponente Salmo 150 di Bruckner che esige un organico corale e strumentale rinforzato e trionfale). Sì, i Salmi sono un patrimonio letterario straordinario anche per le loro sconcertanti iridescenze poetiche che vanno da gioielli assoluti come l’indimenticabile e struggente 42-43, divenuto il mirabile «Sicut cervus» di Palestrina, fino a composizioni minime, devozionali e quasi scolastiche come le sole 17 parole ebraiche che sorreggono il 117, diventato però il «Lauda- te Dominum» d’una bellezza ultraterrena che Mozart ha incastonato nei «Vespri Solenni del Confessore». Anche se sbagliava sull’autore (il Davide tradizionale è un patronato fittizio assegnato a un repertorio in realtà plurisecolare a livello cronologico), aveva tuttavia ragione san Girolamo quando dichiarava che «Davide è il nostro Simonide, il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Orazio, il nostro Catullo». E a denti stretti, secoli dopo, anche Nietzsche doveva riconoscere che «tra ciò che noi proviamo alla lettura dei Salmi e a quella di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».
    Dicevo sopra che due potrebbero essere i profili salmici da cui non si può prescindere. Ebbene, accanto alla poesia, c’è la 'lode', la preghiera, l’invocazione, la fede. Non per nulla gli Ebrei hanno apposto alle 150 composizioni il titolo di «Tehillîm», 'lodi' appunto. Un biblista francese, Jean Steinmann, li definiva «specchio dell’infinito e del finito, di Dio e dell’uomo». Infatti, da un lato i Salmi sono attestazione di una fiducia umana orante, che si muove lungo lo spettro cromatico spirituale che parte dal gelido e cupo violetto del lamento, dell’implorazione, della supplica, dell’infelicità e approda al rosso incandescente dell’inno festoso, della lode, della gioia. Ed è significativo che su queste parole così umane sia stato impresso il sigillo dell’'ispirazione' divina. Come osservava Bonhoeffer, «se la Bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è solo quella che egli vuole rivolgere a noi, ma anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi».
    Ecco, allora, d’altro lato il volto di Dio, questo «conosciuto in Giuda», cioè nel popolo credente, come afferma il Salmo 76, 2. È un volto che talora affonda nella penombra e nel silenzio (si provi a leggere il Salmo 88) o, al contrario, è il luminoso oggetto del desiderio, come testimonia una sorprendente schermaglia di sguardi e di occhi che si intrecciano tra l’orante e il suo Signore (per tutti basti citare il 123). È un volto che si desidera incontrare con una fame e una sete di contemplazione che non è solo mistica, ma quasi biologica e istintiva: «Assaporate e gustate quanto è delizioso il Signore » (34, 9). È un volto che si vuole alla fine baciare in un abbraccio filiale: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto » (27, 10); «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre è l’anima mia» (131, 2). Fino al punto di confessare: «Con te, che m’importa della terra?... La mia felicità è stare abbracciato a te… Perché tuo io sono» (73, 25.28; 119, 94). È per queste e molte altre ragioni che è affascinante vivere in compagnia del Salterio. È per questo che anch’io posso sottoscrivere, dopo una vita trascorsa coi Salmi, l’esclamazione di quel supremo maestro che è stato sant’Agostino: «Psalterium meum, gaudium meum!» Secondo san Girolamo il re biblico «è il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Orazio».


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