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    Il rito nella vita umana

    e nell'esperienza religiosa

    Giorgio Bonaccorso


    I
    l rito muove l'uomo nelle più diverse direzioni, verso la terra abitata dagli animali dato che lo condivide con essi, e verso il cielo abitato dalle più alte aspirazioni spirituali dato che contribuisce a elaborarle. Tra la terra e il cielo, tra l'animale e lo spirituale, il rito riconosce le polarità che costituiscono il mondo ma non le contrappone in modo da renderle irriconciliabili; diversamente dai dualismi radicali, il rito tende a comporre i poli della realtà, senza abolire le differenze. Eppure nei riti sparsi tra le più diverse religioni sembra profilarsi un dualismo insuperabile, forse il più antico di tutti: l'opposizione tra il sacro e il profano. Ma si tratta proprio di un dualismo? E ne sono responsabili i riti? Il fatto che si parli tranquillamente di riti sacri e di riti profani, sembra avallare l'ipotesi che, nonostante le debite distinzioni, vi siano delle costanti del comportamento rituale, ossia che vi sia una struttura comportamentale ritrovabile tanto negli spazi della vita quotidiana priva di espliciti riferimenti religiosi (i riti profani), quanto negli ambiti della vita improntata a riferimenti esplicitamente religiosi (i riti sacri). La controprova di questo è costituita dalla diffusa ritualità animale: molte specie viventi realizzano processi di ritualizzazione, nei quali, ovviamente, non vi sono riferimenti religiosi.
    La costruzione del nido comporta che l'uccello compia una sequenza di azioni sopra un albero o su una roccia. L'animale agisce per trasformare l'ambiente rendendolo consono al suo bisogno di abitare un luogo: agisce per produrre qualcosa. Ma cosa succede quando l'uccello compie una parte di quella sequenza di azioni sull'acqua, ossia in condizioni che rendono impossibile costruire un nido? Succede quello che gli esperti chiamano «ritualizzazione», le cui caratteristiche più evidenti sono: a) l'interruzione, dato che viene abbandonato il contesto in cui normalmente si compiono quelle azioni; b) l'esagerazione, dato che quelle azioni sono fatte con maggiore enfasi; c) la ripetizione, dato che vengono realizzate più volte. Un aspetto importante è dato dal fatto che l'animale compie questa ritualizzazione davanti al partner dell'altro sesso.
    Si interrompe lo scopo originario delle azioni per adibirle a un altro intento, ossia per coinvolgere il partner; le si esagerano per attirare la sua attenzione; le si ripetono perché possano costituire un messaggio riconoscibile dal partner. Sarebbe come dire: «Voglio fare il nido con te». L'animale non agisce più per produrre qualcosa ma per comunicare con qualcuno. Il rito trasforma le azioni produttive in azioni comunicative.
    La specie umana ha ereditato queste dinamiche rituali, distribuendole in diversi momenti della vita e con notevoli variabili a seconda dei contesti storici e culturali. Vi sono, per esempio, espressioni del volto o gesti della mano che non si limitano a esprimere emozioni spontanee o a prendere oggetti necessari per il lavoro che si sta compiendo, ma ritualizzati in modo tale da poter stabilire determinati tipi di comunicazione con gli altri (e a volte con se stessi). Non è difficile scorgere in quelle espressioni e in quei gesti, le caratteristiche dell'interruzione, dell'esagerazione e della ripetizione. Casi tipici di ritualizzazione sono costituiti dal gioco e dallo sport. Credo sia importante tenere presente, soprattutto in riferimento a questi due casi, che il rito non è limitabile allo spettacolo. Il rito della partita di calcio non è riducibile allo spettacolo osservabile nello stadio o in salotto davanti al televisore. La disposizione dei tifosi e i loro comportamenti (prima, durante e dopo la partita) sono parti integranti del rito. Il rito del calcio lo fa anzitutto il tifoso, il resto è solo spettacolo, che non sarebbe neppure tale senza il rito del tifoso. Sotto il profilo del rito, l'attore principale non è il calciatore ma il tifoso. 

    I riti sacri e la comunicazione con i defunti

    I riti a cui si è accennato sono spesso chiamati riti profani. L'uomo, però, ha legato i riti anche e soprattutto a quella dimensione fondamentale della sua esperienza che riguarda il tempo e la memoria. Molte specie viventi possiedono una memoria e quindi una qualche relazione col tempo; si tratta, per lo più, di memorie brevi, utili ad agevolare l'adattamento all'ambiente. La specie umana ha una memoria lunga, che arriva ai confini della vita, ossia fino alla morte. La convivenza con gli altri è compromessa dalla loro morte. Se in un gruppo ognuno compie azioni produttive e comunicative che gli consentono di collaborare con gli altri, quando interviene la morte, tutto viene compromesso: col morto non si possono fare azioni produttive e non si può comunicare come si faceva quando era vivo. In questi casi sembra quanto mai fondamentale il ricorso al rito, ossia a quel comportamento che aveva trasformato la produzione in comunicazione e che ora può trasformare la comunicazione stessa in modo da realizzare un nuovo tipo di contatto col morto. Il rito è un modo di mantenere la comunicazione con i defunti (gli antenati) e postula un diverso livello di vita. Il sacro è la relazione con questo livello di vita, mediato dai riti. 
    La memoria della morte svolge un ruolo decisivo, ma anche altre memorie sono rilevanti, soprattutto se legate ai grandi passaggi della vita: il nascere, la pubertà, la procreazione, la malattia, ma anche il procacciarsi il cibo e il difendersi dagli aggressori. I riti sono spesso riti di passaggio in cui la vita ordinaria è collegata a quell'altro livello di vita che riguarda i defunti.
    I riti sacri sono la comunicazione tra la vita e la morte secondo un modello operativo che implica spesso il processo di inversione. Nei riti, specialmente quelli di iniziazione, si simboleggia spesso la morte di chi vi partecipa per consegnarlo nuovamente alla vita o a una nuova vita. In questo modo la vita ha un senso nonostante la morte. 

    Riti e religione

    I riti sacri sono fonti di senso, ossia generano i significati originari su cui si fondano le visioni del mondo e le condivisioni tra i membri di una società. Le religioni sono forme istituzionalizzate di questi processi rituali, ma non possono dominarli, perché dipendono da essi. Le religioni hanno bisogno dei riti perché nascono dai riti. I riti, invece, non hanno bisogno delle religioni, dato che esistono prima di loro e possono riprodursi indipendentemente da loro. Ogni religione deve quindi mantenere costantemente il contatto con la natura profonda del comportamento rituale, rispettandolo nelle sue qualità fondamentali. Non può, per esempio, costruire altrove la propria visione del mondo e poi pensare di trasmetterla attraverso i riti, riducendoli a strumenti di un potere ideologico. Può indubbiamente costruire il senso del mondo ricorrendo a molteplici fonti ma non trascurando la specificità del rito. che è quella di comunicare con tutto il corpo.

    Un corpo che dà senso

    Il corpo è il luogo originario dell'esperienza della vita e solo il corpo, preso nel suo complesso, può risultare efficace nell'elaborare un senso della vita che si confronti efficacemente con la morte. Se il processo che porta dalla vita alla morte, e quindi all'insensatezza dell'esistenza, è consumato nel corpo, anche il processo che porta dalla morte alla vita, e quindi alla sensatezza dell'esistenza, deve passare per il corpo. Il rito è precisamente questo: un corpo che elabora il senso dell'esistenza con la simbologia dell'inversione vita-morte. Non è neppure il caso di sottolineare che si tratta di un corpo capace di pensare e che quindi implica la mente: non una mente, però, estranea o contrapposta al corpo, ma parte del corpo stesso. Il «rito sacro» è un corpo («rito») che dà senso («sacro») alla vita. L'interruzione, l'esagerazione e la ripetizione costituiscono alcune dinamiche che qualificano il rito sacro come un corpo che dà senso. L'interruzione, per esempio, stabilisce un «rapporto differenziale» tra la vita quotidiana e l'altro livello della vita a cui si è accennato sopra. Nei riti di tante religioni si ricorre alle stesse azioni, gesti, immagini, parole che si trovano nella vita comune di tutti i giorni: i riti religiosi sono fatti di cose sensibili simili a quelle della vita quotidiana. Si mantiene così il contatto con le esperienze elementari e fondamentali dell'esistenza umana. Il modo di gestire quelle cose sensibili, però, è diverso rispetto al modo con cui sono gestite nella vita quotidiana: il pasto sacro è «sensibile» come qualsiasi pasto ma è anche «altro» rispetto al pasto quotidiano. Questo scarto differenziale, questa interruzione dell'ordinario, è il simbolo di una vita trascendente. L'aspetto fondamentale è che la vita che tende a superare i limiti della morte, la vita trascendente, non è descritta in modo meta-fisico ma in modo intra-fisico, ossia attraverso la diversa gestione di ciò che è fisico e sensibile. La vita che trascende la morte è una vita che non abbandona la dimensione estetica (ossia la dimensione della sensibilità), non è una vita anestetica. La religione che abbandona il corpo, il rito, la sensibilità, finisce per diventare anestetica e anestetizzante: si parla di fede e tutti dormono. Il rito implica un'apertura alla trascendenza che mantiene il costante rapporto con la sensibilità umana, aprendola all'alterità divina.

    Ciò che unisce e apre

    L'esagerazione si muove in questa stessa direzione, dato che corrisponde alla intensificazione della sensibilità per coinvolgere se stessi e gli altri nel vincolo comunitario e sociale. In tal modo il rito attira l'attenzione su ciò che unisce e apre: unisce i credenti e li apre a ciò che è esuberante, eccedente, trascendente. Vi è in ciò qualcosa di molto simile all'arte che dischiude la bellezza delle cose non abbandonandole ma trascrivendole in poesie, pitture, sculture, architetture, musiche, danze, che ne esaltano le qualità più profonde.
    La ripetizione, poi, è ciò che consente di rendere continuamente presente l'epopea, il romanzo, il monumento, il quadro, ma anche l'evento che è all'origine di una fede. Un legame nel tempo che apre le generazioni al dialogo reciproco e alle aspirazioni più elevate. Non dovremmo dimenticare che la ripetizione è un dispositivo della prossimità. Ci si affeziona all'albero del giardino, al tavolo del nonno, al libro delle Sacre Scritture, e soprattutto alle persone per il ripetuto contatto con loro. Naturalmente occorre stare attenti alla frequenza della ripetizione per non trasformare la prossimità in qualcosa di insopportabile. Per questo motivo è necessario rispettare i tempi di ripetizione consoni ai riti, senza forzarli in ritmi troppo frequenti o disperderli in riti troppo rari. 

    I riti cristiani

    L'interrogativo ricorrente in molte persone è se il cristianesimo abbia bisogno di riti o se la fede di Gesù e in Gesù non implichi la fine dei riti e dello stesso sacro. Un'ipotesi diffusa è che il cristianesimo sia una fede secolarizzata che ha dato all'occidente l'opportunità di secolarizzarsi fino al punto di estromettere lo stesso cristianesimo. L'aspetto sorprendente è che la società secolarizzata, pur rifiutando il sacro e comunque le istituzioni religiose che lo mediano, non ha rinunciato ai riti. Inoltre, l'epoca che stiamo vivendo è caratterizzata da un'imprevista invasione del sacro che però tende a non interessarsi alle religioni tradizionali. l'aspetto più rilevante, a mio avviso, è che il cristianesimo, anche quando rifiuta il sacro lo sostituisce con un santo che risponde, come il sacro, a quella che potremmo chiamare la fenomenologia della differenza: Dio è «altro» (differente) rispetto al mondo così come il sacro è «altro» (differente) rispetto al profano. Anzi, quanto più si insiste sulla trascendenza del Dio cristiano rispetto al sacro delle altre religioni, più si rafforza ciò che in queste religioni è stato il sacro, ossia il senso della differenza.
    La trascendenza, infatti, è la differenza. l'opposto è quella in-differenza che impoverisce i rapporti umani. La differenza è la condizione della relazione intima e arricchente. L'attenzione che occorre mantenere costantemente è di non trasformare la differenza in estraneità (che poi è in-differenza). Ma quello tra il sacro e il profano non è l'estraneità ma la differenza che rende tutto più dinamico, inserendo la realtà in un continuo movimento. Allo stesso modo, la relazione tra Dio e l'uomo secondo la fede cristiana è la differenza che si configura come prossimità, così come la differenza tra le culture, i sessi e le persone.
    La dinamica della differenza si profila anche secondo la modalità rituale e in tal senso il rito è prezioso anche per il cristianesimo. Basterebbe ricordare che Gesù ha iniziato il suo percorso messianico con un rito (il battesimo di Giovanni) e che ha iniziato gli eventi pasquali ancora con un rito (l'ultima cena). Ma soprattutto, non si può scordare che l'annuncio evangelico ha il suo cuore nella Parola di Dio che realizza la massima prossimità con la vita umana. L'incarnazione è la Parola di Dio che si fa carne: non una Parola che si fa parole ma una Parola che si fa carne, ossia uomo composto di bocca ma anche di mani e di volto, capace di parlare ma anche di toccare e guardare.

    La rivelazione multimediale di Dio

    La Parola di Dio è bocca che parla ma anche occhio che vede, volto che piange, mano che tocca, piedi che camminano. La Parola di Dio, incarnandosi in Gesù Cristo, si esprime con tutti i linguaggi dell'uomo, verbali e non verbali: parola, gesto, movimento, immagine, musica, danza. La Parola di Dio incarnata è la rivelazione multimediale di Dio. La fede coerente con questa rivelazione non può essere che multimediale, ossia deve ricorrere alla parola ma anche al gesto, al movimento, all'immagine, alla musica, alla danza. E vi deve ricorrere non solo come risposta etica all'avvento di Dio ma come testimonianza di questo avvento inteso come dono che viene da Dio. Il sacramento, inteso come rito, è precisamente questa fede multimediale che si fa ascolto della parola, visione dell'immagine, accoglienza del gesto. La risurrezione di Gesù Cristo è il fondamento ultimo e più radicale di tutto questo. La risurrezione è il centro di una rivelazione che non accetta di ridursi a parola verbale ma esige l'estensione a tutto l'essere umano e le sue attitudini fondamentali, compreso il mangiare e il toccare. «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita...» (1 Gv 1,1). Il rito è la consegna di questa esperienza alle generazioni che si susseguono nella storia. Un'esperienza in cui l'uomo non si vergogna di avere un corpo e non si scandalizza che Dio abbia assunto un corpo. 

    (Rocca 15 gennaio 2011)


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