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     Il giardino

    del Sabato Santo

    Rosanna Virgili

    «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo, come era prescritto» (Luca 23,55-56).
    Così i Vangeli annunciano quel Sabato speciale che diverrà, per la Chiesa, il Sabato Santo. Luca pone protagoniste: «le donne» ed è l’unico a dire espressamente che esse «osservarono il Sabato». Tutti gli altri Vangeli lo lasciano, tuttavia, intendere, poiché chiudono il brano della sepoltura di Gesù e ricominciano il racconto nel «primo giorno della settimana».
    Il Sabato è, dunque, quella sindone che intercorre tra la morte e la resurrezione del Signore, tra la Croce e la Pasqua, come una perla d’anello tra l’adesso e il per sempre, tra la storia e l’escaton. Il tempo di Gesù nella tomba è l’ora della notte sconfinata, riposo vergine e assoluto del Sabato. Il corpo di Gesù è in primo piano, la sua "fisicità" sembra amplificarsi, adesso che dalla sua dolce bocca non escono più le parole; adesso che i suoi occhi sono socchiusi; che le sue membra si rilassano e le mani e le braccia si abbandonano... «presero il corpo di Gesù, lo avvolsero con teli insieme ad aromi, come usano fare i Giudei».
    Giovanni crea una suggestione straordinaria descrivendo l’ambiente del sepolcro in modo intrigante e originale: «Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto (...) là, dunque, adagiarono Gesù» (19,41-42). Il corpo di Gesù che "entra" a riposarsi in un giardino. Ma come mai? Un corpo consacrato con «trenta chili di mirra e di aloe» (Gv 19,39) come si usa per prepararlo a un convegno di nozze (o di morte).
    Ma che vuol dire tutto questo sulle spoglie di un uomo peraltro vendute per trenta denari? In un inno ebraico composto nel sedicesimo secolo e che viene cantato a Shabbat, ripetutamente si invoca l’Amato, invitandolo con versi rubati al Cantico dei Cantici: Lekà dodì, «Vieni, amato mio, incontro alla Sposa, accogliamo la festa. Vieni in pace o corona del tuo Sposo, con allegria, con canto e con giubilo, in mezzo ai fedeli del popolo, tesoro, vieni, o Sposa, vieni!».
    È evidente che il Sabato sia un giorno nuziale, in cui lo Sposo è il Signore che entra nel talamo della sua Sposa. Shabbat è, infatti, un nome femminile, nella grammatica originaria. Così viene descritto questo giorno ultimo e primo, allo stesso tempo: «Quando il Santo, benedetto egli sia, ebbe terminato l’opera della creazione introdusse nell’universo Shabbat, affinché il baldacchino nuziale – che era stato appena elevato – non rimanesse privo della Sposa. E il Santo non trovò che Israele che formasse con Lui una coppia perfetta» (cf. A. Heschel). Cos’è il Sabato, dunque? È Dio che viene come Sposo, ma anche Israele, che lo attende.
    Shabbat è ancora di più: è il tempo sacro e rorido del riposo amoroso di Dio "nella" sua Sposa, santuario di intimità, baldacchino di gioia, fonte di luce. Nessun poema, meglio del Cantico, potrebbe accompagnare questo giorno. E se la donna del Cantico riconosce: «Sono nera, ma sono bella», i Maestri ebrei spiegano ancora: «Sono nera durante la settimana, ma sono bella durante il Sabato» introducendo il miracolo della metamorfosi, generato dall’evento stesso.
    In questa trama stupenda di simboli e significati viene intrecciata l’esperienza cristiana di questo giorno. Le donne «che osservano il sabato», rappresentano tutta la Chiesa che accoglie il suo Sposo, abbracciando lo sciupìo del Suo corpo che in lei trova casa. Accogliendo la sua perdita d’Amore che in lei trova attesa.
    In lei, che custodisce, vegliando, il Suo svuotamento, nell’impegno della vita, nella fede nell’uscita da un tempo che non basta all’Amore. La Chiesa guarda muta il suo grembo divenuto tomba e attende che la metamorfosi avvenga. Per un altro fiore, per fragranze ancora ignote, in un giardino nuovo.
    Questo sabato è il giorno della libertà e «tutto deve essere vissuto nell’incanto della grazia, nella pace e in grande amore (...) perché in esso persino il malvagio nell’inferno trova pace» dice ancora la tradizione ebraica. Doppiamente peccato è la collera del Sabato: «Non accenderete il fuoco nella vostra dimora, in giorno di Sabato» (Es 35,2). Viene così interpretato: non accenderete il fuoco della controversia, nemmeno quello della giusta indignazione. Davvero importante questo precetto per capire il Sabato del sepolcro di Gesù: un tempo che invece di esaltare l’indignazione per la morte innocente subita, diventa occasione per assorbire il sangue e distruggere tutta la rabbia e la vergogna. Giorno in cui si rinuncia alla violenza, all’odio, alla ritorsione. A una "giustizia" – quella della vendetta – concepita e legittimata da una umanità che le donne abbandonano, mentre non solo «osservano», ma celebrano, fedeli, il loro Sabato. Un tempo opportuno per lo Sposo per incontrare e diventare misericordia in tutto; un tempo di grazia per la Sposa, per diventare corpo di perdono per tutti. Solo un Sonno – o un Sogno? – d’amore può far questo.
    Questo Sabato è, per la Sposa-chiesa, il tempo dell’abbraccio rigenerante a quel Corpo, che giace su di lei, spossato d’amore. Canto nuziale che distrugge la morte e inaugura il Tempo della Pace. Sabato di gemito per un giorno che nasce celebrato dalle donne e da una per tutte: la Madre. Lei la "dignitas terrae", Lei, il Sabato di Dio. Molti si chiedono perché nei Vangeli la Madre non compaia il giorno di Pasqua, né il Signore le appaia. Forse ce lo rivela il libro dell’Apocalisse, dove c’è una donna «vestita di sole» in cui la tradizione ha visto un’immagine di Maria e anche della Chiesa. Dopo aver partorito essa viene condotta nel deserto, dove dovrà restare per tre anni e mezzo, vale a dire, simbolicamente, per il tempo attuale.
    Un’ultima suggestione dalla tradizione ebraica: alla fine dei riti del Shabbat si prepara uno spuntino per accompagnare «la Principessa». Prepariamo anche noi un viatico per Lei, mettiamoci vino e spezie di fede, speranza, amore. A lungo dovrà restare nel suo deserto di parto, nel suo Sabato di sete solitario e solenne del nostro "non ancora"’. Sosteniamo la Sposa con focacce d’uva passita, prepariamo per lei latte e miele. Proteggiamola con un velo di aurora, perché la corsa verso il figlio Risorto non la faccia affannare.

    (Avvenire sabato 31 marzo 2018)


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